FOGLIE
- I sognatori della Guinda -
D’autunno, a terra, le foglie non scricchiolano, crosciano.
Sembrano pagine accartocciate su cui all’occorrenza potrei
scrivere, chiamando occorrenza quella necessità violenta che
tuttavia svanisce all’apparire della possibilità
di soddisfarla. Perché mille e mille parole mi si affollano
alla mente, ma non appena la prima fluisce sulla carta, si cristallizza
sbarrando l’uscita delle successive – che finiscono
per disperdersi senza venire espresse…
Quante volte, seduta ad un tavolo davanti ad un quaderno vuoto, non ho
saputo ricordare né inventare alcunché? E quante
altre, invece, nei luoghi meno opportuni, ho vagheggiato anche il
più piccolo bruscolo di carta su cui – ne ero
sicura – avrei riversato per intero la mia anima!
Per questo mi dicevo: “Forse un giorno riuscirai a diventare
una scrittrice, ma non potrai mai fare la giornalista”.
Questo perché la mia memoria e la mia creatività
evaporano davanti all’imposizione… sono una
fottuta ribelle.
Le circostanze, invece, non mi hanno lasciato altra scelta. Mio
fratello Antonio, che ha nove anni più di me, mi
trascinò per i capelli nella sua apparente follia di fondare
un periodico locale. Non che ne mancassero, in città, di
giornali. C’erano la Gazzetta e la Gabbianella, il Grido e la
Lagna, c’era il foglio della parrocchia e il bollettino della
bocciofila. Ma lui diceva di avere idee clamorose e mi lasciai
coinvolgere. Dapprincipio mi occupai soltanto (e non era poco)
dell’impaginazione, forte della mia laurea in informatica, ma
Antonio insistette nel farmi collaborare attivamente ai contenuti! Per
il motivo che ho già spiegato, fui esentata dal ruolo di
cronista: sotto pressione, avrei impiegato una settimana a mettere
insieme due colonne striminzite per descrivere il più
semplice degli avvenimenti… Mi affidò la rubrica
delle recensioni teatrali e cinematografiche.
Ecco che senza alcuna costrizione, senza perciò pensarci
troppo, scrissi di testa mia alcuni articoli e li presentai in
redazione. Antonio mi ringraziò, senza troppo entusiasmo
proprio perché mi conosceva: chiedermene esplicitamente
altri avrebbe significato farmi ripiombare nel mio blocco creativo.
Credo avrete già indovinato come è andata a
finire. Ogni settimana tengo la mia rubrica e in più mi
occupo del 40% della cronaca. Ovviamente senz’alcun impegno.
La redazione, per cui Antonio paga un canone d’affitto non
indifferente, consisteva all’inizio di uno stanzone di 80
metri quadri, che venne poi diviso nei vari uffici con mezzi ingegnosi.
C’era anche un ripostiglio che già chiamavamo
“archivio” e, per nostra somma comodità,
una stanza da bagno nuova nuova.
La prima collaboratrice ad essere reclutata fu la sua
ex-compagna di università Emilia G., che da tempo cercava un
pretesto per lasciare il “Goces de la
Ciudad” – un’orrenda
pubblicazione mensile composta per lo più da inserzioni di
attività commerciali cittadine. Pallida, magra, nervosa, non
mi fece una grande impressione. Con il passare del tempo, poter
finalmente scrivere quel che le piaceva la rilassò
enormemente. Almeno, io pensai che fosse per questo motivo. Prese
qualche chilo, le si colorirono le guance e si rivelò molto
più simpatica di quanto immaginassi. Solo più
tardi scoprii le vere ragioni di quel cambiamento, in cui la
soddisfazione professionale c’entrava poco o niente.
Con il tempo ci rendemmo conto che senza spazi pubblicitari saremmo
falliti in un batter d’occhio. Il Goces era un limite, la
nostra attuale ostinazione il limite opposto. Un compromesso doveva
essere trovato senza tradire le nostre convinzioni. Fu così
che Luís entrò nella nostra vita.
Suo padre da cinquant’anni gestiva un negozio di ferramenta
dalle parti dei viali (un tempo questi ultimi potevano fregiarsi di
tale nome: ma qualche anno fa, in un impeto di follia, il sindaco ha
fatto tagliare le due file di rigogliosi platani che li abbellivano).
Non potevo dire di esserne una cliente affezionata, ma vi ero stata
varie volte perché era uno di quei posti dove entri sicura
di trovare ciò che cerchi. A patto di essere preparata alla
vista del signor Guillen. Più che una presenza, era
un’apparizione. Entrando in negozio, ti accoglieva soltanto
il tono di avviso della porta. Una volta che questa era chiusa alle tue
spalle, egli appariva dietro il bancone, e il respiro ti si fermava.
Pareva giunto da un altro pianeta. Il colorito giallognolo, tendente al
verde, lo sguardo assente e insieme secolare, il camice nero di foggia
antiquata (pare si trattasse di quello acquistato
all’apertura della sua attività). Un sorriso, un
saluto, neanche a parlarne. Tutto ciò non aiutava certo il
cliente a mettersi a suo agio. Se, nonostante tutto questo,
l’esercizio prosperava, era grazie alla sua
professionalità fuori da ogni dubbio.
Antonio mi mandò dunque per il quartiere a vendere questi
benedetti spazi pubblicitari per il giornale, con una piantina da lui
redatta per semplificarmi il compito (secondo lui). Era in origine una
mappa stradale - di quelle che si comprano in stazione per 7 euro -
ritagliata e addobbata di scritte sovrapposte. Calle Díaz 7
- Abiti - passa oltre. Plaza del Ayuntamiento - Café Nuevo -
si può tentare… e altre simili amenità.
Sul punto dove aveva calcolato si trovasse il negozio del signor
Guillen, Antonio aveva disegnato una freccia rossa e vi lessi: colpo
sicuro!
Quel giorno il signor Guillen non mi apparve né emerse dalle
tenebre: era già dietro il bancone e parlava con qualcuno.
Aspettai, immersa in quell’odore metallico che da bambina
avevo sempre associato al sangue. Una persona che vive tutto il giorno
in un tanfo simile, pensavo oziosamente, prima o poi sentirà
il desiderio di uccidere.
Sbirciai il profilo dell’altro. Sembrava abbastanza giovane,
di una fisionomia molto comune, con i capelli neri e una maglietta un
po’ troppo leggera per un pomeriggio di settembre.
Quando mi feci avanti a parlare con il signor Guillen, questi mi
ascoltò mantenendo il solito cipiglio impenetrabile.
L’altro, invece, sorrise.
- La GuindaSemana? Mi chiedevo proprio come faceste ad andare avanti
senza sponsor. Coraggio, papà, è ora di dare un
taglio alla tua proverbiale tirchieria – e mi
strizzò l’occhio.
- Quelli del Goces li caccio via a pedate. E con quella spazzatura
patinata ci incarto le viti.
- Mio padre è un commerciante che odia il commercio. Tranne
il suo, è chiaro.
Ero ancora sbalordita dall’avere scoperto la parentela fra i
due, e passò almeno un minuto prima che riaprissi bocca.
- Comunque le lascio il numero del direttore, che poi è mio
fratello. Ci pensi su. – balbettai. L’altro non mi
aveva staccato gli occhi di dosso.
- Io la leggo sempre, la Guinda. È un vento nuovo. Non so se
mi sono spiegato. Lei si occupa solo di pubbliche relazioni, o scrive?
- Io detesto le pubbliche relazioni. È che qualcuno
dovrà pure accollarsi questo compito ingrato – e
feci una smorfia. Il giovane Guillen rise.
- La compri mezza pagina alla signorina? – chiese al padre,
con un tono che più che altro affermava.
- Non ne ho bisogno.
- Non hai capito, papà, sono loro che ne hanno bisogno.
Il lugubre individuo si strinse nelle spalle e gli rispose:
- Se è così, vai a vedere.
Fuori dal negozio, la luce mi sembrò accecante. Restammo
qualche istante sulla soglia, un poco frastornati.
- L’ho vista quest’estate allo sciopero generale. -
esordì il giovane Guillen. - Stavo con il
sindacato… - e pronunciò una sigla che un tempo
faceva tremare i datori di lavoro di tutto il Paese. – Oh,
che testa ho! Io sono Luís.
Mi diede la mano. La sua stretta era morbida, esitante, quasi volesse
trattenere le mie dita tra le sue per leggervi un messaggio in braille.
- Lola. Mi chiamo Lola. - Di solito non mi presento così.
Per molti è un nomignolo un po’ equivoco.
Non avevo ancora capito perché lui mi avesse seguito fuori.
Immaginai volesse visitare la redazione per sincerarsi della mia buona
fede, e ci incamminammo in quel senso.
- Sono cresciuto in questa strada. Su e giù per il
viale… c’erano gli alberi che ti ricordavano che
stavi crescendo… quando le foglie ricoprivano
l’asfalto mi toccava tornare a scuola, e quando le ritrovavo
sui rami ero di nuovo libero di giocare tutto il giorno…
In un’altra occasione, se fosse stata un’altra
persona, avrei classificato in blocco le sue parole come
banalità senza rimedio. Ma la banalità
è solo una verità che l’orecchio si
è assuefatto a sentire, ma che riproposta in una diversa
veste, da una voce inaspettata, ritroveremo colma di significati nuovi.
Così fu quel pomeriggio tra me e Luís.
- Adesso, anche d’autunno la strada è pulita e
sgombra come sempre. I lampioni non cambiano con le stagioni. Il
pensiero di diventare grande, e poi vecchio, una volta, mi inorgogliva
o mi atterriva, dipende… ma in questi ultimi
anni… non mi sono più reso conto del tempo che
passava.
Ma perché mi sta raccontando tutto questo, mi chiesi mentre
salivamo in ufficio.
- Già qui? Scommetto che non hai cavato un ragno dal buco
– mi salutò Antonio, stravaccato sulla sedia
girevole in una posizione imbarazzante. - L’hai seguito,
l’itinerario? Seee… Oh, salve. – Si
ricompose, accorgendosi di Luís.
- Troppo facile. Non hai faticato molto. –
continuò. - Lei è il giovane Guillen, non
è vero?
- Non faccia questo torto a sua sorella, la prego. Mio padre
è un osso duro, alle volte.
Cominciarono a discutere e io mi sedetti a lavorare. Mi sentivo bene.
Mi sapevo protetta dalla luce dello schermo e dalle loro voci, non mi
mancava niente. Ero curiosa di capire cosa Antonio sapesse dei Guillen
e perché fosse stato così sicuro che ci avrebbero
acquistato uno spazio.
Quella sera, a cena, lo tempestai di domande.
- Che ti posso dire? È un po’ vecchietto per te.
Pensai che parlasse del vecchio Guillen e gli risposi a tono.
- No no, voglio dire l’erede. Andava al liceo quando io avevo
dieci anni, sarà sulla quarantina. Non scherzo.
Non gli erano mai piaciuti i ragazzi che avevo frequentato. E, alla
fine, aveva avuto sempre ragione. Ma questa volta il suo cinismo mi
avrebbe dato davvero fastidio: se avesse detto un’altra
parola negativa su Luís, me ne sarei andata in camera mia.
- Se non altro, ha le idee chiare. Avrebbe potuto comportarsi come il
classico figlio del commerciante: far finta di studiare, trastullarsi,
viaggiare e aspettare che suo padre tirasse le cuoia, e poi arraffarsi
il negozio. Invece, finita la scuola, è andato dritto a
lavorare in fabbrica. È un bel tipo davvero, ma per te
è troppo vecchio, basta.
Sorrisi alla sua ostinazione. Da quando la mamma si era risposata,
quella primavera, Antonio ed io vivevamo soli nella casa della nostra
infanzia. Fino a quel momento era stato lui il punto fermo della mia
vita. Sin da quando avevo imparato a leggere, mi aveva imposto i
“suoi” autori, e la sera mi interrogava. Un giorno,
in quarta elementare, la maestra mi sequestrò sotto il banco
le poesie di Rimbaud, e avvertì i miei genitori. Mio padre,
al colloquio, esplose in una bella risata – forse
l’ultima della sua vita.
- Perché si preoccupa, signorina? Mia figlia è
solo un po’ avanti con il programma. - Nel viso sofferente
gli occhi brillavano di orgoglio.
Dopo la morte di papà, la domenica Antonio mi portava spesso
in campagna con lo scooter. Era una fuga disperata. Il mangiadischi a
pile con l’album dei Sex Pistols suonato a tutto volume, un
prato, e ci lanciavamo in danze selvagge, facevamo la lotta, urlavamo
fino a perdere la voce. Una sera finì la benzina e dovemmo
tornare a piedi. Era autunno, e sulle stradine le foglie di noce
formavano uno strato che si sfaldava sotto le nostre scarpe. Ricordo
quel crepitio e la mano calda di mio fratello nella mia, ricordo il
desiderio di continuare a camminare insieme senza fermarci, e non
tornare più a casa a ritrovare lo sguardo triste di mia
madre, sentire i suoi rimproveri…
- Non preoccuparti – dissi ad Antonio prima di andare a
dormire – Resterai l’unico uomo della mia vita
ancora per molto tempo.
Naturalmente non andò così. Il vecchio Guillen
comprò una pagina intera della Guinda e Luís mi
invitò ad uscire. Finimmo in una trattoria, dove tre ore
dopo il proprietario dovette spegnere le luci per farci capire che
stava per chiudere.
- Mi piacerebbe sapere come sei riuscito a convincere tuo padre.
- Ecco, Lola… in primo luogo, lui non è mio
padre. Mi ha adottato. Non me lo nascose mai e io non ho mai pensato
che il suo affetto mi fosse dovuto. Per questo ho cominciato a lavorare
il prima possibile, e anche il negozio… non lo voglio,
capisci? Ciò che possiedo, devo essermelo guadagnato,
altrimenti non mi apparterrà mai veramente. Però
lui vorrebbe regalarmi il mondo intero, lo so. Ne potrei approfittare
in un modo peggiore, ma questa mi sembrava una buona causa.
- C’è anche un secondo luogo? – chiesi
commossa.
- Uh… non vorrei rovinare tutto. Vuoi proprio che te lo
dica? L’ho scongiurato di farlo perché volevo
qualcosa che mi legasse a te.
- Non riuscirai a farmi credere di esserti preso un colpo di fulmine
per me.
- E così, ci credi? – Mi baciò.
– L-o-l-a, ti fidi di me?
Capii che non mi avrebbe mai fatto soffrire. Non di proposito, almeno.
Ricordate la canzone di Polly Peachum?
“Oh, per tutta
la notte fu in cielo la luna
e la barca
restò ormeggiata a riva
e non si poteva fare
altro!”
Non ho mai dato importanza ai tempi dell’amore. La morale
scontata non mi appartiene, o meglio, io non appartengo ad essa. Ma
finché non avevo trovato ciò che cercavo, mi ero
adeguata. Voglio dire, non ero mai andata a letto con un ragazzo al
primo appuntamento – ma solo perché non mi era
venuto naturale.
Non si poté fare altro per tutta la notte, nel suo
appartamento al quinto piano.
La mattina dopo girellai un poco per la casa, cercando tracce del suo
occupante che fossero più reali del suo corpo addormentato.
Oltre che cruda realtà, in effetti, non si poteva trovare.
Bollette scadute, manuali di istruzioni di vecchi elettrodomestici,
l'invito alle nozze di una cugina usato come sottobicchiere e macchiato
di aranciata. La cucina in disordine. La biblioteca ridotta al minimo -
Ken Follett, Mao Tse-Tung, e con mio grande divertimento, vari volumi
di ricette veloci.
Il guardaroba era poi l’esatto specchio della sua
personalità: polo di tutti i colori, pantaloni scoloriti,
più che dall'uso, dai lavaggi a 90°, magliette
bianche, calzini blu e grigi. Nulla a che vedere con i vestiti alla
moda dei miei coetanei, ma diverso anche dai pantaloni di velluto e
dalle camicie a scacchi di Antonio.
La tenerezza s'impadroniva di me ad ogni piccolo particolare che
notavo, ad ogni banale oggetto su cui posavo gli occhi. La
semplicità in cui Luís si muoveva era
la stessa con cui firmava i suoi gesti, le sue parole, di cui era
intrisa la sua figura.
Temevo il suo risveglio, ora; ogni donna innamorata chiede
“mi amerai domani?” come nella canzone, e io,
nonostante tutto, sono una donna. Ma la prima cosa che mi disse, appena
aperti gli occhi (e ancora prima di “buongiorno”)
fu:
- Su metà della pagina, ci sarà la
pubblicità del negozio. Per il resto, vorrei tenere una
corrispondenza. – Si accese una sigaretta, cercando il mio
sguardo per catturare la mia reazione.
- Mi sembra grandioso. – saltai su. – Di cosa ti
piacerebbe scrivere?
- La crisi industriale di questa città vista da un operaio.
I rappresentanti sindacali degni di questo nome e quelli che cercano di
compiacere i padroni. I ricatti e il crumiraggio sotto false spoglie.
Sono in linea?
Quando ne parlai ad Antonio, ne fu entusiasta… ed
è dire poco. La sua gelosia di fratello maggiore si era
dileguata in modo sospetto. Non si era nemmeno accorto che non fossi
tornata a casa quella notte, perché lui ed Emilia avevano
avuto più o meno la stessa idea.
La nostra personale verità mi si apriva davanti. Per qualche
attimo riuscii a gettare un’occhiata dall’alto sul
confuso labirinto dei rapporti umani. Capii che Emilia da un lato e
Luís dall’altro avevano sbloccato una situazione
che molti avrebbero definito morbosa.
Anche se ora mi sembra di avere già tanto, la vita di noi
sognatori della Guinda non è mai facile. Luís
è stato in cassa integrazione per diversi mesi
l’anno scorso, e da quando insegno informatica nelle aziende
sto spesso tutta la settimana fuori città o dove mi mandano,
spesso senza un preavviso ragionevole. Ultimamente passo il fine
settimana a lavorare in redazione, perché Antonio
è sempre a casa con Emilia e la loro bambina. Non so come
spiegarlo, ma per assurdo mi sembra di… respirare meglio.
É perché entrambi abbiamo costruito una famiglia
con la persona che amiamo, e per quanto il nostro rapporto sia
importante, non c’è più nulla di
ossessivo.
Tranne che nella mente del nostro sindaco. Continua a far tagliare
alberi, questa volta al parco. Tre alla settimana. L’altro
giorno sono andata a chiedere in Comune il perché:
sostengono che fossero pieni di parassiti. Uno spunto per
Luís che ha scritto un articolo sui ricchi parassiti della
società.
Verrà un giorno in cui dovrò di nuovo fuggire tra
i campi per sentire sotto i piedi il rumore delle foglie secche e
goderne il turbinio nel vento. Ed è nell’aria il
momento in cui in questo Paese giornali come il Guinda risulteranno
fuorilegge.
Eppure non è solo questa la mia preoccupazione. Penso spesso
a quando il signor Guillen non ci sarà più e
Luís sarà costretto, a meno di passare per
stupido, ad accettare l’eredità. Provo a
fantasticare quante cose potremo permetterci, e che potrò
finalmente gettar via la pillola. Allora non ci importerà
più di trasmettere le nostre idee agli altri,
perché le avremo lasciate da parte – ci saremo
chiusi in un piccolo mondo tiepido e luccicante.
Questi timori concreti e contrastanti mi uniscono alla vita. Quando
scrivo per il giornale, come quando creo un racconto o una poesia, non
ho più paura di usare le parole sbagliate, di essere
fraintesa… non lascerò che le nostre parole
restino inespresse - finché ci saranno fogli o foglie su cui
scrivere, ed energia in noi.
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