I
WILL BE LAURA K
CAPITOLO
1
Mi
chiamo Seamus Mohin Takezawa. Fino a non molti anni fa, mi avreste
estorto questa semplice frase solo se foste stati impiegati
dell'anagrafe o potenziali datori di lavoro. Questo nome da folletto
mi ha sempre causato imbarazzo: in parte perché ero un
ragazzino stupido, poi perché ero circondato da coetanei
altrettanto superficiali. Abitavo a S..., una cittadina ad una
trentina di miglia da Londra, ed ero iscritto al primo anno
dell'università di S., nei pressi del quartiere italiano,
sul
lato ovest della città. Invidiavo con tutto il cuore i miei
amici d'infanzia e i miei compagni di facoltà, sia gli
italiani, sia gli indiani, sia gli inglesi purosangue. Ero certo che
sarei stato fiero delle mie origini se fossero risalite ad un'unica
etnia, ad un'unica cultura, qualunque essa fosse. Invece avevo questo
squallido nome irlandese, una vecchia madre irlandese (era rimasta
incinta di me a 45 anni) e gli occhi a mandorla.
La
mamma si chiama Martha Mohin. La sua famiglia, per quanto ne so, non
era né ricca né povera, per la Dublino di
cinquant'anni
fa, lei era graziosa al punto giusto e com'è naturale un
giorno un uomo le chiese di sposarla. Tutto normale, no?
Già.
Lui si chiamava Ernst Kaufmann... era un operaio tedesco, ebreo non
praticante, di buon carattere. Nonostante le proteste del nonno,
fervente cattolico, si sposarono presto e a quanto pare il loro
matrimonio era molto ben assortito. Non ho mai visto una sua foto, ma
anche così sono sicuro che l'attrazione fisica non
c'entrasse
niente con il loro amore. Comunque, non è che stessero tutto
il giorno a guardarsi negli occhi, perché nel '57 nacque mio
fratello Declan. Dieci anni dopo Ernst morì in un incidente
sul lavoro. Considerato che di queste tragedie ne capitavano spesso
(allora non esisteva l'HCCP), la cosa non avrebbe suscitato tanto
scalpore: ma il sindacato questa volta sollevò un tale
polverone che la fabbrica fu costretta a chiudere - pagando
regolarmente gli stipendi ai dipendenti - finché i
proprietari
non avessero messo in pratica certe elementari misure di sicurezza e
modernizzato un pochino gli impianti.
Mia
madre si tirò su le maniche. Aveva studiato da segretaria, e
trovò un impiego a Blackpool. Oh, si señores,
dall'altra parte del mare. Non si guardò indietro. A
quarant'anni era diventata nientemeno che l'assistente del direttore
generale, ma se le aveste chiesto - chi sei? - vi avrebbe risposto
semplicemente: - la vedova K.
Agli
inizi degli anni Ottanta, la sede della ditta fu trasferita a Londra.
A Martha (che di nuovo non si guardò indietro)
toccò un
appartamento in affitto più che agevolato, ma con un piccolo
difetto che forse avrete indovinato: era a S.! Seppe adeguarsi anche
a questo... non cercò un'altra casa e fece la pendolare fino
alla pensione.
Il
cambiamento.
Le
nuove colleghe, l'atmosfera della capitale.
Gli
uomini. Per la prima volta da quando era rimasta sola, si accorgeva
degli uomini.
Mio
padre, un anonimo uomo d'affari di Tokyo, era capitato a Londra,
nell'ufficio dove la mamma lavorava, e si erano frequentati
finché
lui non era dovuto ripartire. Mesi dopo, quando era tornato per altre
trattative di non so che, aveva scoperto che la signora M. era in
maternità... e aveva fatto due più due.
L'andò a
trovare e lei gli sbatté la porta in faccia, dicendogli che
il
suo senso del dovere non sapeva dove metterselo: ma quando vide che
faceva sul serio, gli permise di starle vicino. Lui riuscì a
trasferire i suoi affari a Londra e hanno vissuto più o meno
insieme per venti anni. Papà ha cinque anni meno della
mamma,
cioè sessantacinque. Di recente è tornato a stare
in
Giappone. Non che me ne importi più di tanto. Che lui mi
voglia bene, lo so, ma non basta. Ha sempre odiato Declan, e se un
tempo condividevo i suoi sentimenti, ora me ne vergogno con tutto il
cuore. La mamma soffriva tantissimo per questo nostro atteggiamento,
naturalmente. Ma cosa potevo avere io, un ragazzetto bruno, dal
fisico minuto, con la passione per lo skate e il rischio totale, con
un elettricista in sovrappeso ex studente alla yeshivah,
e che
in più abitava a C...? Non avevamo né lo stesso
cognome
né avevamo mai vissuto insieme. Così con mio
padre mi
divertivo a prenderlo in giro, e se passava a trovarci me ne restavo
in camera mia a chattare o andavo dove mi pareva.
E,
ovvio, ero anche geloso di lui, perché mia madre lo adorava
talmente... Ho sempre avuto l'impressione, da quando ero molto
piccolo, che mi considerasse già un adulto, o comunque che
pensasse che non avessi bisogno di lei perché avevo un
padre,
io. Non so se fossi nel giusto, ma in casa mia respiravo quell'aria,
e non riuscivo a non pensarci. Una volta lo chiesi a papà:
"La
mamma pensa che Deke sia ancora un bambino?" "Se è
per questo crede ancora di essere in Irlanda". Era una frase
fatta, perché mio padre (me ne accorgo adesso) non poteva
sentire la differenza tra un inglese e un irlandese, lui che viveva
in Occidente da meno di dieci anni. Ma dalle sue parole ricevetti la
conferma dei miei pensieri: la mamma non mi voleva veramente bene,
almeno non quanto ne volesse a Deke, e non amava davvero
papà,
almeno non quanto aveva amato il signor Kaufmann. Cominciai a capire
che i fatti non corrispondono quasi mai alla volontà. La
mamma
era affettuosa, ma non per questo provava vero affetto; mio padre
aveva un carattere più tranquillo, meno espansivo, ma ero
sicuro di poter contare su di lui.
Adesso
ho capito che, se le cose non sono come le vedi, non sono neanche il
contrario di come sembrano. La verità sta in qualche punto
imprecisato nel mezzo, o fuori dalla visuale, e quando la si trova
è
sempre tardi.
Ricordo
che una volta, andavo in quarta o quinta elementare, mi beccai
un'infezione alla gola e dovetti restare a letto per varie settimane.
Era la prima volta che mi sentivo così male, per quanto ne
so.
Ed ero anche parecchio giù di morale. Mio padre, la sera,
tornava dal lavoro con un ghiacciolo e restava a leggermi qualcosa, o
giocavamo a dama. Ma per quasi tutto il giorno ero solo,
perché
mia madre era sempre al telefono con Deke.
La
ditta per cui lavorava mio fratello era in crisi, e le prospettive a
breve termine erano due: chiudere i battenti, o venire "risucchiata"
dalla multinazionale con cui aveva l'esclusiva, perché a
quest'ultima pare non convenisse più darle l'appalto alle
solite condizioni. Nel secondo caso per i dipendenti, in apparenza,
non ci sarebbe stato nessun problema, ma Deke la pensava in modo
diverso. La mamma era così preoccupata per questa situazione
che a me non pensava affatto. Almeno così sentivo allora,
così
mi ricordo. Poi, in qualche giorno, tutto andò a posto: sia
per quanto riguardava il lavoro di Deke che la mia salute - ma dentro
di me rimase qualcosa, come una piccola voce, che mi ripeteva "sarai
sempre il secondo per lei".
L'unico
colpo di testa di mio fratello, in tutta la sua vita, era stato
lasciare a metà gli studi. Ci era stato costretto: aveva
capito di essere fondamentalmente ateo, e non si era mai visto un
rabbino ateo. Così era diventato un tecnico elettricista e
si
era iscritto al NCP. Questo non mi faceva ridere, perché era
un atto di ribellione, anche se la mia idea del ribelle tipo era
molto diversa per il mio cervellino da videogames, e la politica mi
interessava solo quando c'era da fare casino in piazza. Nel
duemilauno avevo diciott'anni, i capelli lunghi, i vestiti stracciati
e le tasche rifornite di erba. Mi ero iscritto da poco
all'università
ed ero già indietro con gli esami in maniera preoccupante.
Mi
facevo chiamare Shin: un nomignolo per lo meno coerente con i miei
lineamenti.
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