Il Velo

di EvilGrin
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«La giusta misura dell’amore, è amare senza misura»

 

Il rumore sordo e ripetitivo di qualcosa di solido e tremendamente piccolo che cade sulla ceramica del lavandino. Un paio di occhi celesti su di un viso chinato sul buco dello scarico, che osserva quel puntino bianco cadere irrimediabilmente tra il freddo ferro. Un sorriso che nasconde mille pensieri, mille persone, piega le labbra in una linea serena, una smorfia che sembra aver trovato la pace. Le palpebre si socchiudono, nascondendo solo per un momento quello che è uno sguardo vacuo, perso in un mare lontano. Il sorriso si estende, mostra una fila di denti bianchi. Lo sguardo si alza verso i vari ripiani di quel mobiletto attaccato al muro. La sinistra richiude lo sportello della specchiera e la superficie riflette in breve la sagoma della ragazza: occhi chiari, lineamenti gentili, capelli castani, mossi, le superano le spalle, seguendo alla perfezione la linea delle spalle, che sembra quasi un quadro perfetto, dipinto con attenta imperfezione. Quei capelli in parte rovinati, la pelle disseminata di qualche lentiggine, la maglia di un pigiama troppo grande, ma con un disegno troppo infantile.

Ma non c’è solo un’immagine, sarebbe stupido fermarsi alle immagini, bisogna saper guardare oltre per poter vedere davvero cosa c’è su quello specchio, cosa c’è al di là della banale, quanto reale, vita. E c’è un uomo, il viso coperto da uno strato di cerone bianco, le labbra messe in evidenza da un rossetto di un rosso acceso, gli occhi contornati di nero, dei graffi trasversali li attraversano ed il naso è buffamente, si fa per dire, coperto da una pallina rossa.

Le dita della sinistra della ragazza si va a posare sullo specchio, in corrispondenza del viso dell’uomo, di quella sorta di clown, le cui palpebre sono riverse all’indietro ed agganciate alle sopracciglia con del fil di ferro, il sorriso è tirato ai lati, la carne quasi deformata da quei ganci che tirano di lato e si aggrappano violentemente ad altra carne, disegnando un’espressione inquietante, che fa sorridere lei, che lo guarda come se lo avesse visto anche da troppo tempo. Come un alito di vento quel sospiro, quel sussurro che viene fuori come uno spirare che avrebbe odore di morte. Dischiude le labbra la ragazza.

 

«Aisling, hai preso le medicine?» prima che qualcosa interrompa quel momento inquietante quanto magico, agli occhi della ragazza. Le dita si staccano dal vetro, lo sguardo si abbassa sul buco del lavandino, sorride, di nuovo, come vivesse in un’eterna bolla, impossibile da penetrare da bolle esterne, lei ed il suo eterno compagno di giochi. Richiude il barattolo delle pasticche, tornando ad aprire la specchiera e riponendo il piccolo contenitore e quando la stessa viene richiusa quello specchio rende nota solamente la realtà: una ragazza di quasi diciannove anni, li compirà il nove gennaio del prossimo anno, i capelli scomposti, dev’essersi svegliata da poco, un paio di occhi chiari ed un eterno sorriso che non sembra quello di una sana di mente, ha quella lieve nota inquietante, che a tratti la fa sembrare anche tenera. Volta le spalle a quello specchio, apre la porta del bagno, trovandosi di fronte una donna con forse più di solo qualche chilo di troppo addosso.

 

«Ho sentito dire che Platone è meglio del Prozac, mamma, provalo, mi pare che ultimamente le uova e la pancetta ti si siano accumulate sul culo e visto che dici che è la depressione…» una voce squillante quella che esce da quelle labbra, il corpo minuto, sottile, che sembra possa rompersi da un momento all’altro, bassa la statura.

«Ma che dici? Non sono ingrassata, sarà una tua impressione, lo tengo sotto controllo il peso e ricord…» la voce sfuma a mano a mano che i passi allegri e sereni di quella giovane figura, la portano verso la propria camera, semplice: un letto ad una piazza e mezza, una scrivania, qualche libro sparso in giro, dei peluche che hanno quasi più anni di lei e cianfrusaglie varie ed eventuali. Sul letto, però, c’è seduto lo stesso clown di poco prima. Non se ne va il sorriso dalle labbra della ragazza, che chiude la porta e sfila la maglia del pigiama. Un seno non eccessivamente grande, anzi, la pelle chiara, con qualche lentiggine qua e là; le costole si intravedono appena giusto quando si piega per sfilare anche i pantaloni, rivelando, stavolta, un semplice intimo blu, uno slip. Gli occhi di quel clown si posano su quell’essere umano.

Apre l’anta dell’armadio, sfilando un reggiseno, una maglia ed un paio di pantaloni. Fuori piove, come sempre a Dublino, si sono trasferiti nella capitale perché potessero avere tutto a portata di mano e la madre aveva trovato facilmente lavoro per altro. Si piazza davanti allo specchio, vede riflesso quell’uomo, sorride, di nuovo.

«Vedo me» dice «Guardo te e vedo me, non mi sembra una cosa normale, ti pare?» porta le mani sopra il reggiseno, a sollevare appena quei piccoli seni «Ce le vuoi mettere le mani qui, eh? Non fare quella faccia, lo so che sotto quel cerone sei un maiale bastardo» una risata cristallina quella che sussegue, senza risposta alcuna da parte dell’uomo, che tiene il volto girato in direzione di Aisling. I capelli dell’uomo sono corvini, ricadono ai lati del viso, sino a sfiorarne le spalle. Una camicia celeste, stropicciata e lacerata in più punti ed un paio di pantaloni neri, i piedi scalzi, nient’altro, quello che ha di strano è unicamente il trucco. Infila i pantaloni la ragazza, chiudendo la zip ed infilando anche la maglia, una semplice maglietta lunga, bianca, con la stampa a colori della bandiera del Regno Unito sopra. Si va a sedere al fianco di quell’uomo tanto strano e si allaccia le scarpe, in silenzio stavolta. Solo quando si rialza riprende a parlare.

«Perché indossi quello stupidissimo costume da coniglio?»

«Non indosso un costume da coniglio.» una voce bassa, rauca e cupa, come fosse eternamente rattristato o crucciato per qualcosa, l’esatto opposto di Aisling.

«Lo so, ma c’è un film ed in quel film c’è un ragazzo come me, solo che io non morirò tra ventotto giorni e tu devi farmi notare che io indosso uno stupidissimo costume da umana…» suggerisce, ma non arriva niente in risposta, se non il silenzio di quel volto e di quel sorriso tirato, tremendamente macabro, di fronte al quale Aisling riesce ad essere… serena.

«Verrà il silenzio della morte e quel giorno dovrai dirmi il tuo nome, morte mia» sussurra lei, prima di prendere lo zaino con un qualche libro di scuola dentro, ha saltato un anno, due li ha persi ed a conti fatti si ritrova ancora agli inizi.

 

Scende a passi pesanti le scale, sino ad arrivare in cucina, ci sono le uova sui piatti ed una fettina di pancetta, pane, formaggio e persino qualche tramezzino avanzato dalla sera precedente. Sua madre è già seduta, i piatti sono due. Il padre è morto due anni prima, per questo è caduta in depressione, diagnosticata solo negli ultimi mesi ufficialmente.

Sposta rumorosamente la sedia, sedendosi a sua volta e prendendo a mangiare.

«Aisling»

«Sì?»

«Devo dirti un paio di cose.»

«Sono stata adottata? Lo so, ho trovato i documenti qualche anno fa, ma se vuoi faccio finta di niente e mi fingo sorpresa, ci posso aggiungere qualche effetto scenico come la rottura del piatto o qualche urlo da adolescente con gli ormoni impazziti, scegli.»

«No, immaginavo lo sapessi, ho trovato gli stessi documenti sparsi in giro… Comunque, devi andare da tua zia.»

«Perché?»

«Devo essere ricoverata per un’operazione all’ernia e non posso starti dietro… e sai che ti serve, tua zia conosce un dottore fantastico, dice che ti troverai benissimo, giusto per poco tempo, è una cosa da nulla, un paio di settimane e sono a casa, ma nel mentre valla a trovare, ci terrebbe anche a vederti.»

«Ad Amsterdam? Ma lo sai dov’è? Sono solo due settimane, so badare a me stessa»

«No, non posso accompagnarti dalla dottoressa e tu devi andarci, inoltre tua zia ha già preso appuntamento, dopodomani parti, quindi oggi pomeriggio fai la valigia, ok?»

Uno sbuffo, la posata fa un rumore sordo sul piatto, dal quale sono state tolte le uova, ma è rimasta la pancetta che, probabilmente, finirà con il mangiare la madre.

«D’accordo, però prendo questi per pranzo» afferma, afferrando un paio di tramezzini ed uscendo dalla cucina.

 

[2 giorni dopo]

 

«Voi stesso potete plasmare e animare il gioco della vostra vita a volontà, dipende da voi. Come la pazzia in un certo senso elevato, è l’inizio di ogni sapienza, così la schizofrenia è l’inizio di tutte le arti, di ogni fantasia.»

 

Il fischio dei treni in arrivo riempiono l’aria, le scritte rosse sui tabelloni cambiano per ogni treno che si ferma o parte. Gli occhi azzurri alzati verso quelli. Partenze. 06:27, non un minuto di più e non uno di meno, nessuna scritta arancione segna minuti di ritardo. Le labbra dischiuse, l’aria calda del respiro che si scontra con quella fredda dell’esterno. La pioggia che cade instancabile su quelle terre. Una giacca a vento verde acido ed un paio di pantaloni rosso scuro, aderenti su quelle gambe sottili, anche troppo; degli anfibi di stampo tipicamente maschile ai piedi, con i lacci che scivolano a terra ad ogni passo, di pochissimo. Un borsone nero ed un trolley blu scuro, i bagagli che ha dietro.

 

«Odio prendere l’aereo e per prenderlo devo anche sorbirmi il viaggio in treno, ti pare giusto? Voglio dire, sono solo una ragazzina, perché devono sballottarmi a destra e sinistra? E poi sono sicura che zia non sarà troppo contenta di vedermi. L’ho sentita quando parlava di me con la mamma, sai? Ha detto che sono matta da legare.» una risata cristallina e serena quella che esce dalle labbra della minuta figura dell’Irlandese «Lo so io cosa vuole la vecchia battona.» silenzio intercorre tra quell’ultima frase e l’espressione rimane sempre serena, non muta mai, così come di rado sbatte le palpebre quando guarda i cartelloni, attende piuttosto che le arrivino le lacrime agli occhi prima di chiuderli e tornare a fissare. «Credo che mia madre stia per morire. Lo sento, tu hai mai sentito la morte? È così pressante, come si fa a non sentirla? E vederla, io vedo te, per esempio e sono convinta che tu sia una faccia di quella morte, che mi insegue…mi insegue, ma non riesce a prendermi, perché mi piace giocarci, tu ti diverti con me?» non giunge risposta dal clown lì vicino, di nuovo solo il rumore delle persone che passano, l’acqua che cade, le imprecazioni di questa o quella persona «Abbiamo perso il treno» constata alla fine, abbassando lo sguardo solo adesso dal tabellone delle partenze. «Il prossimo c’è fra un paio d’ore, quindi adesso andiamo a fare pranzo, che ho fame, poi andiamo dalla cara, vecchia e grassa zia.»

 

«A volte Dio uccide gli amanti perché non vuole essere superato in amore.»





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