Note: Questa
fan fiction partecipa alla quarta edizione di Big Bang Italia
e ha ricevuto un bellissimo gift (Qui
<3) da quella meravigliosa donna che
è sanny_pirate,
oltre ad essere stata betata dalla pazienza fatta persona, dylan_mx.
Ringrazio tantissimo entrambe <3
1
– The storm
A
volte riusciva a capire, anche solo per un
istante, che c’era qualcosa di sbagliato: troppe
preoccupazioni, troppi
pensieri che lo distraevano dal presente. Era lì, seduto, il
suo whiskey davanti
come quasi ogni sera, e lui guardava quel bicchiere, osservava quella
ditata di
sporco sul bordo, una chiara traccia del fatto che la lavastoviglie non
funzionava poi così bene o che la cameriera non aveva
asciugato con attenzione.
Lo fissava con insistenza, ma l’immagine non si imprimeva
nella sua mente. Lo
fissava come se in quel minimo particolare fosse racchiusa
l’essenza del mondo
intero, ma la sua mente non la coglieva, il suo pensiero era lontano
mille
miglia. Perso, completamente perso a cercare.
Ariadne
glielo diceva spesso – lo ricordava ora dopo
così tanti anni – lo
diceva che, anche
quando lui era con lei, in realtà non c’era. Era
distante, sempre più distante
mentre l’onda lo trascinava a fondo, annaspava per
l’aria, l’acqua gli
scivolava addosso e gridava, ma la voce non usciva. Aveva sempre avuto
questa
tempesta dentro, il desiderio inconscio di alzarsi in piedi e gridare a
pieni polmoni,
gridare fino a rovinarsi le corde vocali. Poi si fermava a pensare, a
riflettere sul fatto che forse non valeva poi tanto la pena di alzarsi.
Non era
quello il punto di rottura, poteva reggere ancora un po’,
poteva sostenere il
tutto e non far crollare il castello di carte che aveva costruito con
tanta
cura. Lei non ne aveva colpa, mentre gli altri che ti stavano accanto
forse non
erano poi così innocenti. E lui, invece, poteva solo
biasimarsi per essere nato
sbagliato: le persone normali non si fanno uccidere così
facilmente dalla
realtà.
Pioveva
da giorni, ormai, una pioggia battente che
non accennava assolutamente a smettere. Il Maria’s Bar era
immerso in un
silenzio di tomba, rotto solo dal fruscio delle carte sul legno del
tavolo; il
maltempo aveva dimezzato la clientela e solo dei tristi camionisti e un
paio di
irriducibili frequentatori avevano avuto il coraggio di uscire dai loro
ripari
per annegare le loro preoccupazioni in del buon liquore. A Jigen
piaceva quel
luogo: era tranquillo, intimo, isolato. Poteva fumare senza
preoccupazioni,
nessuno si lamentava del puzzo in quel posto.
Quel
tempo piovoso, invece, gli andava molto meno a
genio. Ariadne amava le tempeste, amava uscire sul balcone a piedi
nudi,
lasciare che il vento le scompigliasse i capelli e urlare con forza
quando il
rombo del tuono esplodeva nel cielo. Lui restava a fissarla, al sicuro
dentro
il loro appartamentino. Lui odiava la pioggia, il bagnato, il freddo;
avrebbe
preferito una poltrona accanto al caminetto, Ariadne al suo fianco e la
sigaretta in bocca. E questo lei lo sapeva, perché dopo aver
gridato al vento
rientrava, bagnata fradicia, si gettava un asciugamano sui capelli e lo
raggiungeva, accoccolandosi accanto a lui. Ora che lei non era
più lì a
confortarlo, la pioggia aveva perso la sua ultima attrattiva.
<
E’ qui per te?> La sua voce si perse nel
vuoto assieme al fumo della sigaretta. Fissò da sotto la
tesa del cappello il
volto della ragazza: giovane, pallida, leggermente inquieta. La paura
era evidente
nei suoi occhi, nonostante lei facesse di tutto per nasconderla. Le sue
dita
giocavano nervosamente con il bicchierino che aveva davanti. Uno sherry.
<
No, lui non sa che sono qui. Non può
saperlo.> Un altro silenzio, un’altra boccata di fumo.
<
Ne sei sicura? Il tuo amico potrebbe aver
parlato.> C’era una nota di dolore negli occhi di
Shiho Miyano, una ferita
ancora aperta che Jigen non poteva ignorare. Lasciare il suo
“amico” era stato
il passo più difficile, il prezzo più alto da
pagare per ottenere la sua
libertà. Shinichi Kudo era di certo un ragazzo sveglio, ma
era anche
terribilmente coraggioso, tanto da finire per essere avventato:
l’ultima
caratteristica che doveva avere se voleva sopravvivere
all’Organizzazione.
Sherry
lo sapeva, conosceva bene quel cocciuto di un
detective e i metodi utilizzati dai suoi ex-colleghi non le erano certo
estranei: aveva preso la decisione più saggia. Una pillola,
una semplice
capsula bianca che tenesse lontano il ragazzino da lei e dai guai,
cancellando
ogni ricordo della scienziata dalla sua memoria. E così
aveva fatto anche con
tutti gli altri del loro gruppo, tutti quelli che conoscevano la sua
vera
identità. Aveva curato il suo piano in ogni minimo
particolare e poi era
sparita in Europa, dove sperava che non l’avrebbero mai
trovata.
<
Non è possibile. “Il mio
amico”… non ricorda
più niente. Ho preso le mie precauzioni, Jigen. Sono certa
che non può aver
scoperto che mi trovo qua. Dev’essere una
coincidenza.> Pareva più un
tentativo di convincersi da sola che una certezza matematica;
l’uomo la fissò a
lungo da sotto l’ombra del cappello, la sigaretta ridotta
ormai a un mozzicone.
<
Se lui scoprisse dove ti trovi…>
<
Verrebbe a cercarmi. – Shiho represse un
brivido – Sono certa che sarebbe al settimo cielo.> Si
portò alle labbra il
drink, nel tentativo di annegare in un gesto meccanico la paura che
cominciava
a farsi sentire con più insistenza.
<
Se lui mi trovasse… – continuò lei,
guardando
di sottecchi l’uomo – te ne occuperesti tu?>
Jigen dovette frenarsi per non
ridere, ma la bocca gli si storse ugualmente in un mezzo sorriso.
<
E’ da pazzi volersi mettere contro un uomo come
Gin. Se proprio ci dovessimo incontrare, preferirei non averlo come
nemico.>
Fu la volta di Shiho di lasciarsi andare ad un sorriso sarcastico.
<
Perché tu credi di poterlo avere come amico?
Non fare l’idiota, Jigen. Alleati con Gin e appena gli
volterai le spalle ti
troverai una pallottola in testa.> L’uomo
sputò il mozzicone di sigaretta
nel portacenere e si portò alle labbra il suo amato whiskey;
gli seccava
ammetterlo, ma la ragazzina aveva perfettamente ragione.
<
Chiunque sia al di fuori dell’Organizzazione è
un nemico. Va usato se utile, va eliminato appena non serve
più.> continuò
imperterrita Miyano, abbassando la voce e lanciando
un’occhiata attorno a sé.
La
scarsa clientela del Maria’s Bar era ben poco
interessata ai discorsi di quella stravagante coppia, ma la ragazza era
sempre
cauta quando nominava l’Organizzazione: c’erano
occhi e orecchie ovunque e lei
rischiava troppo in quei momenti.
<
Per cui ti conviene pensarci bene prima di fare
un passo falso: non avrai un’altra
possibilità.> concluse con voce tetra e
ingollò d’un fiato quel che rimaneva del suo
drink. Jigen studiò con finta
attenzione il proprio bicchiere.
<
Tieniti fuori dalla faccenda e mi farai un
grosso favore. Non ho tutta questa fretta di rivedere il nostro comune
amico.
Se tutto andrà come deve andare, farà quello per
cui è venuto e se ne andrà
come se niente fosse. E noi non dovremo più pensarci.>
Se
Shiho fosse stata in pericolo, sarebbe
intervenuto in sua difesa. Aveva troppi debiti con la scienziata per
lasciarla
al suo amaro destino, anche se il gioco dell’Organizzazione
non lo attirava
minimamente. Sperava solo che niente andasse storto e che le loro
strade non
fossero costrette a incrociarsi nuovamente.
*
Le
folate di vento facevano tremare le finestre in
continuazione, un rumore che dava terribilmente sui nervi a Vodka. Si
aggirava
senza sosta nella microscopica cucina del bilocale in cui si erano
sistemati,
sussultando un poco ad ogni tuono, gettando occhiate preoccupate fuori
dalla
finestra. Gin era stufo del suo comportamento infantile, ma non aveva
neanche voglia
di riprenderlo: non era sua madre e non aveva intenzione di diventarlo
ora.
Osservò
con un certo distacco i documenti appoggiati
sul tavolino di fronte a lui: il volto dell’uomo era
paonazzo, i baffoni
coprivano buona parte del volto e gli occhietti cerulei erano resi
più grandi
da un paio di spessi occhiali. A vederlo così non pareva
proprio un cuor di
leone. Bé, che lo fosse o meno, non sarebbe cambiato nulla
comunque.
La
ragazza, invece, era completamente diversa: aveva
fissato l’obbiettivo con uno sguardo che Gin vedeva molto di
rado, ma che non
mancava mai di mandargli il sangue alla testa. Erano gli occhi decisi,
seri,
cinici e disincantati da vecchi guerrieri, pronti a smantellare la
realtà, a
sopravvivere a qualsiasi prezzo, a guardare la morte in faccia. Anche
la sua
Sherry aveva quegli occhi.
Gettò
per l’ennesima volta un’occhiata al suo nome:
Erika Lenher. Sorrise: non le sarebbe bastato quello sguardo per
sopravvivere,
una bomba non fa differenza tra un vecchio codardo e una giovane
combattente.
Presto se ne sarebbe resa conto.
Spense
la sigaretta e fissò la pioggia scrosciante
contro il vetro. Già, se ne sarebbe resa conto.
*
<
Non capisco proprio perché tu mi abbia
convocata a quest’ora! Guarda che ho una vita sociale, io, e
non ti permetterò
di mandare a monte il mio appuntamento così.>
Che
Fujiko avesse un appuntamento di vitale
importanza era più che evidente: Jigen era quasi certo di
non averle mai visto
addosso così tanti gioielli e capi di lusso. La preda doveva
essere un qualche
riccastro raffinato, così preso dalle sue curve da non
badare a quella voce
terribilmente petulante, voce che gli stava facendo venire un terribile
mal di
testa.
Era
chiaro anche che la vita sociale di Lupin era
morta diverso tempo prima, visto che il suo telefono rimaneva
misteriosamente
silenzioso e lui non indossava altro che un paio di boxer e una
canottiera. Se
l’avesse trovato a farsi una granita alla birra, avrebbe
capito che aveva
toccato il fondo della depressione, com’era successo qualche
anno prima.
<
Ma come, cherì! Non saresti venuta se non fossi
certa che il tuo Lupin ha in mente un qualche colpo bello grosso,
no?> A
dispetto del suo abbigliamento, l’umore del ladro
più famoso del mondo era
ottimo. Bastò quello per attirare l’attenzione
della donna.
<
Di che si tratta?> Jigen si sentì lo sguardo
della donna su di sé, quasi non si fosse accorta prima che
lui era lì. Avrebbe
preferito continuare ad essere trasparente piuttosto che attirare
l’attenzione
di quella vipera.
<
Oh, Jigen, sapevo
che non mi avresti voltato le spalle!
C’è un bel tesoro che ci aspetta lì
fuori, tutto tutto per noi!> Lupin pareva pronto a spiccare il
volo per
l’eccitazione, ma mai quanto Fujiko.
<
Un tesoro?! E quanto? Quanto?> Jigen li
avrebbe volentieri lasciati lì in preda a quei loro momenti
di pazzia totale,
in cui il suo collega faceva il misterioso e la ragazza provava ogni
tecnica
per scoprire quel che voleva sapere, ma fuori la pioggia continuava ad
abbattersi sul mondo e lui ne aveva abbastanza d’inzupparsi.
La
cifra che mandò Fujiko in visibilio catturò anche
la sua attenzione: era un bel gruzzolo, non c’era dubbio. Ma
aveva come il
presentimento che non sarebbe stato affatto facile metterci le mani
sopra.
<
Il tesoro della famiglia Lenher è tanto antico
quanto sconosciuto. Il suo ammontare e il suo nascondiglio sono stati
celati
accuratamente per secoli, tramandati di generazione in generazione: ora
basterà
recuperare questo piccolo segreto da questo pacioso signore o dalla sua
bella
figliola.>
Jigen
osservò le due foto che Lupin teneva in mano:
l’uomo pareva un gran codardo, ma la ragazza… di
nuovo si disse che non sarebbe
stata una passeggiata. Gli vennero in mente Shiho e quelli
dell’Organizzazione:
un brivido gli attraversò la schiena, ma non disse nulla. Il
ladro più famoso
del mondo e la sua infida partner stavano già festeggiando
per la riuscita
dell’impresa.
Si
allontanò dall’appartamento di Lupin con un gran
senso di nausea; fuori la pioggia continuava imperterrita a scrosciare
e lui
aveva una gran voglia di prendere a calci qualcosa. Forse dopo si
sarebbe
sentito meglio.
<
Ti dai agli appuntamenti galanti, Jigen?> La
voce suadente alle sue spalle lo fece fermare di botto, mentre con un
fruscio
di costosi abiti Fujiko gli arrivò affianco e gli pose una
mano sulla spalla.
L’occhiata in tralice che le lanciò non
bastò a fulminarla.
<
Che intendi?> borbottò controvoglia: era
già
abbastanza irritato per conto suo senza che quella stramaledetta donna
ci
mettesse lo zampino. Lei sfoderò uno di quei sorrisi
maliziosi che in genere
riservava solo alle sue prede e Jigen sentì lo stomaco
contrarsi.
<
Oh, non far finta di niente… –
ridacchiò prima
di superarlo con la sua andatura ondeggiante – Sono sicura
che non è tuo,
questo profumo da donna che hai addosso.> Si voltò un
istante, il sorriso
che le aleggiava ancora sulle labbra. < Ma se ti secca,
farò in modo che
rimanga un segreto.>
L’uomo
la guardò sparire nel buio del corridoio e ci
mise un po’ per capire a cosa si riferiva: aveva addosso il
profumo di Shiho.
Doveva essergli rimasto appiccicato ai vestiti dalla loro conversazione
al
Maria’s Bar. Scosse la testa: solo un’infida serpe
come Fujiko avrebbe potuto
percepire un odore così debole, lavato dall’acqua
e coperto dal puzzo di
sigaretta. Si allontanò a sua volta, borbottando improperi
contro la donna.
Sulla spalla sentiva ancora la leggera pressione della sua mano.
*
<
Questo tempo d’inferno non accenna a cambiare,
eh?>
La
voce del tassista era allegra, nonostante il
continuo martellare sul parabrezza e la visibilità ridotta
al minimo. Anche la
musica che passava alla radio era alquanto vivace: davvero un riparo
confortevole, quei quattro sedili. Peccato che fosse già
giunto a destinazione.
<
Sono 15 euro.>
Glieli
porse senza commentare e scese dal taxi: la
pioggia si abbatté contro il suo cappuccio rialzato come una
tempesta di
sassolini. Presto, probabilmente, sarebbe sopraggiunta la grandine.
Sorrise, il
dente d’oro che brillava nell’oscurità:
era un tempo perfetto per cacciare.
Sarebbe stato un vero divertimento.
Accarezzò
il manico del coltello che teneva al
sicuro nella sua tasca e, senza indugiare un secondo di più,
si mise in cammino
verso un riparo sicuro. I fari del taxi che si allontanava illuminarono
per un
istante la figura slanciata di Crazy Mash.
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