I'll Follow the Sun – La storia mai raccontata di John Lennon

di Helter Skelter
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10. Wait

Wait, until I come back to your side, 
we'll forget the tears we cried. 
But if your heart breaks, don't wait, 
turn me away.




 

Aprile 1959 – Liverpool.
 
Il sole scendeva pigro dietro l’orizzonte. Gli ultimi raggi della giornata guizzavano attraverso le nuvole pallide, sparendo piano, a mano a mano che il tramonto scivolava via. Tutto era così… immobile. 
Ero illuminata da un tenero sprazzo di luce, ma non c’era calore. Avevo freddo; un gelo che arrivava dritto fino alle ossa. Repressi un brivido che minacciava di liberarsi giù per la mia schiena.
Adesso che ci pensavo, non sapevo nemmeno dove mi trovassi, o cosa stessi facendo. Premuti a terra, lungo i fianchi, qualcosa mi solleticava i palmi delle mani. Qualcosa di morbido, umido. In quell’istante la visuale si allargò e mi accorsi di essere seduta su un prato.  Dei sottili fili d’erba si erano insinuati fra le mie dita.

Un prato? Ma come ci ero arrivata?

«Abbey». Cavolo!

Sobbalzai, colta di sorpresa. Ero sicura di essere sola, che non ci fosse proprio nessuno accanto a me. Il mio cuore avrebbe dovuto prendere a pompare veloce, ma non riuscivo a percepirlo. Cercai di voltarmi piano, ma rimasi bloccata; una mano familiare si posò sulla mia spalla, sfiorando e scorrendo delicatamente sul mio braccio sinistro. Mi girai. Capelli scuri, lineamenti dritti, labbra piene ed occhi seducenti.

Stuart?

Seduto alla mia destra, circondato da una surreale aura di tranquillità, sembrava quasi muoversi a rallentatore. Consapevole o meno, sul mio viso si aprì un sorriso imbarazzato, perplesso ma, al contempo, sincero. Avrei voluto chiedergli cosa ci faceva lì, dove ci trovavamo, ma il suo dito si posò delicato sulle mie labbra, zittendomi prima che avessi l’occasione di parlare.

«Sei la mia musa».

La sua voce produceva uno strano eco, rimbombava nelle mie orecchie, sempre più carezzevole. Il mio cervello si ammutolì. Piano, Stuart mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e cominciò ad avvicinarsi. Sempre di più, lentamente. Il suo volto era a pochi centimetri dal mio, ma non c’era nessuna traccia del suo buon odore, quel fresco aroma che sembrava provenisse direttamente dalla sua pelle. La sua bocca mi attraeva, inaspettatamente desideravo sentirla sulla mia. Non che quel ragazzo non mi facesse alcun effetto ma, ogni volta che mi ritrovavo a pensare a lui, venivo assalita da un inspiegabile senso di colpa. Ogni volta, tranne in quel momento.
Ma quanto ci metteva a colmare il vuoto che ci separava? Avanti, Stuart.

Aspetta, forse ho capito cosa…

«Che cazzata, ragazzina. Lo sapevo». Oddio, ma quando…?

Mi allontanai immediatamente da Stuart, ma lui sembrò non fare una piega. Rimase impassibile, congelato nella stessa posizione di pochi secondi prima. C’era qualcun altro alle mie spalle, qualcuno che aveva assistito all’intera scena. Questa volta non avevo dubbi: tono fermo, accusatorio, basso. Lo avrei riconosciuto in qualsiasi contesto, sempre.
Mi scoprii in difetto, in dovere di giustificarmi. Il cuore iniziò a tamburellare ed il calore, fino a quel momento assente, si concentrò interamente sul mio viso, nelle guance, nelle tempie, nelle orecchie. Incontrare lo sguardo deluso di John mi destabilizzò. Si accucciò alla mia sinistra, sulle ginocchia. Ero circondata, mi sentivo soffocare.

Lo sguardo di entrambi bruciava su di me. Mi fissavano, come stessero aspettando la risposta ad una domanda che non avevano posto. Non a parole, almeno. Ma io la conoscevo perfettamente.

Ingoiai un fiotto di bile; perché adesso la temperatura era così alta? Come mai le mie mani erano talmente bagnate da lasciar sgusciare via l’erba che stringevo sempre più forte fra le dita? E perché, al contrario, la mia gola era secca, arida?

Guardai prima uno, poi l’altro, e ancora. John, Stuart, John, Stuart.

Tutto cominciò a vorticare, i loro volti si confusero, sovrapponendosi. Vedevo le loro bocche muoversi senza udire una sola parola. Le sagome divennero ombre indistinte, scie che si mescolavano attorno a me. I colori caldi sbiadirono fino al grigio, il paesaggio sparì e mi ritrovai nel nulla. Continuavo a girare e girare. Nausea, cazzo, nausea.

Riaprii gli occhi, svegliandomi di soprassalto, prendendo un grosso respiro a pieni polmoni; riaprii gli occhi e la confortante luce che avevo sognato venne rimpiazzata da un vuoto buio; riaprii gli occhi giusto in tempo per fiondarmi in bagno, buttarmi a terra e vomitare.
Ero senza fiato, con i capelli incollati al volto dal sudore e, sicuramente, una febbre altissima. Cercai un po’ di sollievo strofinandomi contro le piastrelle fresche del pavimento, che però sembravano surriscaldarsi ad una velocità impressionante, almeno quanto me.
Detestavo stare male, soprattutto perché non capitava spesso. Avevo una salute di ferro; quella doveva essere solamente la terza, o quarta volta che…

Altro conato.

Nascosi il viso fra le braccia, ancora accasciata a terra. Quando fui certa che il peggio fosse passato, mi costrinsi ad alzarmi, scendere in cucina e prendere un bicchiere d’acqua per placare il tremendo bruciore che grattava per tutta la gola. Ignorai la fitta alle tempie che mi procurava anche solo compiere il minimo movimento, la debole protesta dello stomaco ad ogni nuova sorsata e, quando non so come, riuscii a ritornare sotto le coperte, ringraziai qualsiasi divinità celeste avesse deciso di assistermi.

I muscoli erano indolenziti, le ossa fragili ed avevo un saporaccio sulla lingua. Che schifo. Mi mossi fra le lenzuola, sistemandomi su un fianco. Poi ricordai.

Un sogno. Era tutto un sogno!

Sgranai gli occhi, per quanto mi fosse possibile. Senz’altro era dovuto al mio stato delirante, non c’erano altre spiegazioni.

John e Stuart. No, no, no! 

Non avrei dovuto pensare a nessuno dei due. Primo perché… e secondo perché…
Ma che ore erano? Non riuscivo a distinguere se fuori fosse notte o meno, però ora una pallida luce sembrava filtrare attraverso le tendine chiuse della finestra, rischiarando appena la stanza. O magari lo stavo solo immaginando.
La testa scoppiava. Dovevo disattivare il cervello, spegnerlo. Sembrava bastasse solamente lo scricchiolio dei miei pensieri ad aumentare la dolorosa pulsazione alle meningi. Annullare tutto, smetterla di pensare.

Stuart; ero la sua musa. John lo sapeva. 

Cavolo, forse sarebbe stato più difficile di quanto sperassi. E, fra dolore, confusione, pensieri e lenzuola bagnate dal mio sudore, rimasi così; incapace di riaddormentarmi veramente, ma nemmeno pienamente cosciente di quello che accadeva attorno a me. Mi rimaneva solo pregare. 
Fa che passi presto.
 
 


Qualcuno armeggiava sulla mia fronte. Ne sentivo il tocco piacevole sulla pelle, dita forti che si assicuravano che stessi bene. Chissà quanto tempo era passato.
Non ebbi la forza di aprire gli occhi, le palpebre erano saldamente incollate fra di loro ma, se non altro, il mal di testa era quasi completamente sparito. Mi divincolai, strusciando le guance sulla stoffa fresca del lato del cuscino che non avevo utilizzato.

«Abbey?»

«Mh» mugugnai a bocca chiusa, facendo salire un lamento basso e gutturale.

«Ti senti un pochino meglio?» Riconobbi l’inflessione tesa nella voce di mio padre. Non era abituato a gestire situazione simili, lo sapevo bene. Di solito era la mamma che si occupava di me quando ero malata. Che si occupava di tutto.

Il materasso traballò, abbassandosi sotto il peso di papà. Solo in quel momento realizzai del panno umido che mi stava sistemando sulle tempie per far scendere la febbre. Azzardai ad aprire un occhio. Quel suo gesto così naturale mi fece sorridere ed ebbi un’improvvisa voglia di abbracciarlo. Quel burbero e scontroso uomo che per sua figlia si scioglieva come neve al sole.

Neve? Cavolo, che sete.

Con le braccia protese in avanti, alzai il busto dal letto troppo velocemente. Un capogiro mi colpì come un fulmine, diretto, stordendomi ed addormentando leggermente le mie palpebre. Debole e pesante. Mio padre aveva l’aria corrucciata, seguiva ogni mio movimento con eccessiva apprensione, come temesse di sbagliare o farsi sfuggire qualcosa. Prontamente, mi sorresse per le spalle, evitandomi di ricadere indietro sul cuscino.

«Stai bene?»

Annuii, cercando di riprendermi. Lui non sembrò esserne molto convinto, ma era la verità. Avvertivo qualche crampo allo stomaco, sì, ma probabilmente era solo la fame. E la febbre era scesa quasi del tutto, il calore non era più così insopportabile. Mi misi seduta, portandomi la coperta fin sotto il mento. Solo quando mio padre rivolse lo sguardo alle sue spalle, mi accorsi che non eravamo soli.
Paul se ne stava poggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto, mordendosi il labbro inferiore. Si fissava le scarpe, spostando gli occhi meccanicamente da una all’altra.
Provai a salutarlo, ma riuscii solamente a tossire. Mi schiarii la gola, provocando una fitta al centro torace. Storsi un po’ il naso.

«Ciao» mormorai flebile, alla fine.

Finalmente mi guardò, rivolgendomi un tenero sorriso imbarazzato. Dovevo essere in condizioni davvero pessime; i capelli erano ridotti ad un unico groviglio indistinto e sapevo di avere delle occhiaie da far paura.
Papà si alzò dal letto, portandosi via la pezza ormai asciutta. Senza dire una parola si avviò verso Paul, gli batté un paio di volte la mano sulla spalla ed uscì aggiungendo «Ti do cinque minuti, non di più».

Rimanemmo qualche istante ad ascoltare il rumore dei passi di mio padre allontanarsi giù per le scale. Quando non ci fu nient’altro che silenzio, Paul si avvicinò e si sedette accanto a me. Mi spostai di qualche centimetro per fargli spazio. Teneva una mano nascosta nella tasca del giubbotto, e l’altra penzoloni lungo il fianco. Mi fece sorridere.

«Ero venuto a prenderti per le prove, ma…» iniziò, spiegando la sua presenza.

«Le prove! Me n’ero completamente dimenticata».

Erano giorni che pregavo John di farmi assistere, e alla fine nemmeno me ne ricordavo. Valutai di andare comunque, coprendomi bene. Feci per alzarmi, ma Paul mi fermò, posando una mano sulla mia gamba.

«Dove credi di andare?» mi ammonì.

«Mi vesto, ci metto poco».

«Mettiti giù, Abbey. Non puoi uscire».

«Hai fatto tutta questa strada, come minimo adesso devo venire con te» protestai, suonando sicuramente come una bambina testarda e lagnosa.

«Ero di passaggio».

«No, non è vero. Te l’ha chiesto John di passare a prendermi».

«Stai buona».

Non replicai. Per qualche strana ragione la sua voce assunse un tono quasi severo, mi ricordò molto quello di Lennon. Decisi di rimanere zitta e fare come diceva. Non potei fare a meno di adombrarmi.
In un secondo la sua espressione cambiò; si fece accigliato e pensieroso. Si piegò leggermente oltre il letto, sbilanciando il peso. Lo vidi rigirare la mano nel giubbotto ed estrarne una piccola busta di carta spiegazzata color avorio.

«Ehm, tieni» e me la porse, senza guardarmi.

«Cos’è?»

«E’ da parte di tua madre».

Lo guardai perplessa, inarcando un sopracciglio, ma lui non se ne accorse. Come mai aveva una lettera per me, di mia mamma?

«Io… ho incrociato il postino fuori casa, prima. Ho pensato che magari non volevi che tuo padre la leggesse».

Alzò lo sguardo, incontrando i miei occhi. Sembrò quasi scusarsi, ma non ne aveva alcun motivo.

«Grazie» dissi sincera, piacevolmente sorpresa da quella sua piccola premura. Paul era sempre così attento ad ogni dettaglio, sempre a preoccuparsi per gli altri. Che ragazzo straordinario.
Presi la lettera dalle sue mani e la aprii un po’ titubante, preoccupata da quello che avrei potuto trovare scritto. In fondo, da mia madre ci si poteva sempre aspettare di tutto. Scorsi le parole in fretta; erano poche, indispensabili. Quando arrivai ai saluti senza cattive notizie, mi resi conto di aver trattenuto il respiro.

«Va tutto bene?» Paul non aveva smesso un secondo di studiare la mia espressione, in cerca di un qualche segno. Voleva sapere cosa fosse successo, ma mai avrebbe avuto il coraggio di chiederlo apertamente. Gli sorrisi per tranquillizzarlo.

«Mamma torna per qualche giorno, tutto qui».

Mi allungai e nascosi la lettera sotto il letto, accanto al posacenere. Lui annuì, grattandosi la nuca, e si alzò.

«Sono contento, Abbey».

«Sì. Sì, anche io». In realtà ero turbata, inquieta. Senza ragione, poi.

Sbadigliai improvvisamente, senza aver il tempo di poter portare la mano davanti alla bocca. Uno sbadiglio prorompente, esausto. La mia smorfia dovette essere veramente buffa, perché Paul scoppiò a ridere ed io, completamente imbarazzata, desiderai essere inghiottita dalle coperte. Se non altro avevo riacquistato un po’ di colorito. Era davvero bello però sentire la sua risata, così cristallina.

«Tuo padre ci aveva concesso cinque minuti, meglio non sfidare la sua pazienza. Ed io sono già in ritardo» disse, con quella che aveva la parvenza di un saluto.

«D’accordo. Grazie, Paul».

Sorrisi, e lui fece altrettanto. Mi scompigliò ulteriormente i capelli, facendomi l’occhiolino. Ecco un’altra abitudine che aveva ripreso da John. O forse ero solamente io che mi sorprendevo a pensare a lui un po’ troppo spesso.

«Riposati, alle prove verrai la prossima volta» si congedò, avviandosi verso l’uscita. Raccolse la custodia della sua chitarra – che fino a quel momento non avevo notato – e, dopo avermi rivolto un ultimo cenno del capo, sparì oltre la porta, lasciandomi di nuovo sola con i miei pensieri.

Tornai sotto le coperte con uno sbuffo. Mi ritrovai a fissare le piccole crepe del soffitto senza davvero vederle. Cosa stava succedendo? Io e John avevamo passato tutta una vita insieme, come mai proprio ora le cose dovevano complicarsi? E che cosa diavolo significava quel sogno? Stuart mi intrigava, non potevo negarlo. Il suo fascino mi aveva catturata fin da subito; quella sua aria misteriosa, i suoi movimenti lenti e cadenzati. Ma c’era dell’altro fra di noi? Avrei voluto che ci fosse? La giornata trascorsa nel suo studio avrebbe dovuto dirmi qualcosa.

Mi rigirai su un fianco ed il mio sguardo cadde sul comodino, dove erano stati lasciati un bicchiere pieno ed una piccola compressa bianca. La ingoiai di getto, buttandole dietro un rapido sorso d’acqua. Scese faticosamente per la mia gola infiammata, raschiando. Dopo qualche minuto ancora la sentivo lì, come fosse rimasta incastrata. Bevvi poi tutto d’un fiato, vinta dall’arsura. Mi arresi; chiusi gli occhi e feci finta di ignorare quella fastidiosa sensazione, addormentandomi fra mille dubbi, il mal di stomaco, una lettera sotto il letto ed una maledetta pasticca che proprio non ne voleva sapere di scendere giù.
 
 
 
«Hey, bell’addormentata?» Un respiro caldo sulle guance.

Era stato un sonno tranquillo il mio, senza sogni. Ero finalmente riuscita a riposare serenamente, a recuperare le energie. Almeno fino a quel momento.
Mi stiracchiai con calma fra le lenzuola, inarcando la schiena, tendendo le gambe e portando le braccia in alto per rilassare i muscoli ancora rigidi. Quando aprii gli occhi, trovai il viso sorridente di John a pochi centimetri dal mio, in piedi accanto al letto e chino su di me.
Fece appena in tempo a scansarsi; mi alzai bruscamente, in un riflesso incondizionato, rischiando di colpirlo. Ero seduta, con la schiena premuta contro la parete dietro di me ed il cuore in gola dalla sorpresa. Intorno a me aleggiava il suo odore. Tutto sapeva di lui.

Oddio, ti prego, non dirmi che è un altro sogno.

No, ripensandoci non avevo poi tutta quella fantasia.

«Che… fai? Che ore sono?» domandai, roca. Avevo la bocca impastata dal sonno, secca per la sete, e lo stomaco che brontolava per la fame.
John mi guardava stralunato, come fossi io quella matta. Indossava una camicia bianca sgualcita, aperta sopra una semplice canotta dello stesso colore. I polsini sfacciatamente sbottonati, le maniche sugli avambracci. La scollatura lasciava intravedere la parte superiore del suo petto, scoprendone la rada peluria chiara ed una sottile catenina dorata che pendeva dal suo collo. Mi costrinsi a guardare altrove, controllando il respiro.

La penombra grigia della sera inondava la stanza; probabilmente avevo passato l’intera giornata a dormire. Mi stropicciai gli occhi, ancora per metà intontita, avvertendo immediatamente una fitta alle tempie. Cavolo, la febbre stava salendo di nuovo.

«Le otto, credo. Ti ho chiamata, mi ero stufato di aspettare». Rilassato e disinvolto. Ma si era completamente rincitrullito?

«Cosa, aspettare? John, ma da quanto sei qui?»

Suonai stridula; la gola era ancora troppo indolenzita e gracchiante.

«Un’ora, più o meno. E poi stavi anche cominciando a russare, quindi…» concluse con un sorriso furbo, arricciando il labbro inferiore in una smorfia divertita.

In un attimo, il motivo della sua visita era già passato in secondo piano. Spalancai la bocca, indignata. Io non russavo affatto! Con le poche forze disponibili, afferrai il cuscino sotto di me e glielo lanciai, centrandolo – con enorme soddisfazione – in pieno viso. Si scompigliò, strizzando gli occhi e sbuffando.
Scoppiai a ridere, incurante del fastidio al petto che mi provocava quella risata. Risi a perdifiato, contenta che John fosse con me a risollevarmi l’umore. Avevo il respiro soffocato dai singhiozzi.

«Ma come siamo violente». Abbozzò una risata, alzando le sopracciglia.

Si piegò a terra in modo stanco e strascicato, con le braccia penzoloni, afferrando il cuscino per poi pormelo in attesa che lo rimettessi di nuovo al suo posto. Ma io, senza accennare a muovermi, rimasi a fissarlo con un sorriso ingiustificato finché lui, con un soffio rassegnato, non me lo sistemò personalmente dietro la schiena, chinandosi verso di me.

«Va bene, lo ammetto, me lo meritavo».
 
Prima di allontanarsi, però, mi lasciò una tenera carezza fra i capelli, non arruffandoli come suo solito.

«Allora, che ci fai qui?»

«Non è ovvio, ragazzina?»

Il suo sguardo si illuminò, accendendo gli occhi di una strana scintilla. Sporgendosi verso la scrivania, recuperò dalla sua giacca un sacchetto di carta marrone. Lo vidi strusciare i talloni l’uno contro l’altro e liberarsi in fretta delle scarpe, che caddero sul pavimento con un tonfo sordo.
Non ebbi nemmeno il tempo necessario per ragionare e lasciarmi andare alla curiosità; venni sballottata a destra e sinistra dall'improvviso movimento del materasso e mi ritrovai John seduto di fronte, con le gambe incrociate ed il sorriso smagliante di un bimbo che vuole giocare. Portò il sacchetto a mezz'aria fra noi due, agitandolo impaziente; un fruscio, come una piccola marea che si agitava, urtando ora una sottile parete di carta, ora l’altra. Lo guardai confusa srotolarne lentamente il bordo piegato più volte su se stesso. Dal suono, sembravano tanti piccoli mattoncini che si scontravano. Il rumore della carta spiegazzata accompagnava i miei pensieri, accrescendo il mio mal celato disinteresse. John sembrava assorto, concentrato.

«Ti ricordi quella volta che mi sono fatto male alla gamba, da piccolo?» Fissò i suoi occhi radiosi nei miei.

Annuii, sforzandomi di ricordare; era un’estate di tanto tempo prima, e il dottore aveva costretto John al riposo forzato per una settimana, a causa di una brutta caduta. La versione ufficiale era che si era fatto male giocando con Pete Shotton giù a Strawberry Field.  In realtà, era caduto scappando dal mercato dopo aver rubato una mela. Ma quello Mimi non lo aveva mai scoperto. Mantenendo quel piccolo segreto, ero andata a trovarlo tutti i pomeriggi ed ogni volta, per farlo stare meglio, portavo…

Scattai, ridestandomi dai miei pensieri. Un flash; sapevo esattamente cosa fosse quel pacchetto. Mi aprii in una sorriso spontaneo, abbandonandomi alla piacevole convinzione che l’affetto che ci legava fosse una cosa meravigliosa, sincera e naturale. Come lo era respirare. John mi fece l’occhiolino ed io lo abbracciai di slancio, scivolando via dalle coperte.

«John, mi hai portato le caramelle!»

«Sì, ragazzina». Fece una faccia buffissima, una delle solite, portando il mento verso l’alto in una ridicola parodia di un sorriso. Le guance gli si gonfiarono, rosee e paffute.

Ridemmo insieme e, prima che se ne potesse accorgere, mi appropriai di pacchetto improvvisamente invitante. Diedi una veloce sbirciata oltre il bordo, accostandolo direttamente all’occhio destro. Erano proprio le stesse gelatine, quelle alla frutta, di tutti i colori. Non resistetti; infilai dentro la mano fino al polso e frugai per prenderne qualcuna.

«Quelle rosse sono le mie, ti avverto!»

«Basta che a me lasci le gialle Lennon, lo sai».

Ne afferrai una manciata, offrendone a John con il palmo aperto. Lui le studiò scrupolosamente, con le sopracciglia corrucciate in una smorfia concentrata. Si decise poi per tre alla fragola ed una all’arancia. Io mi accontentai delle poche rimaste; gialle e verdi. Mimammo una specie di brindisi, facendo scontrare le nostre caramelle, sorridenti. Con la mano libera, scansai i granelli di zucchero volati leggeri sul letto e mi persi a fissare John, che già aveva divorato metà delle sue. Dalla espressione compiaciuta e sognante dovevano proprio essere buone.
Ecco, stavo bene. Molto più che bene.  

Mi rabbuiai; una repentina fitta allo stomaco mi rammentò che forse  non era proprio una buona idea mangiare certe schifezze nella mia condizione.

«Che c’è?» mi domandò lui, ancora con la bocca piena ma già intento a rituffarsi sulla busta delle sue adorate caramelle. Suonò davvero comico, sputacchiando piccoli pezzettini rossi da tutte le parti. Forse nemmeno il piccolo Harrison era mai stato tanto famelico. Mi strappò una sorriso.

«Mi sai che non è il caso» spiegai indicando il piccolo confetto giallo e riposandolo all’interno della bustina «sai, con lo stomaco e tutto il resto».

Sgranando gli occhi, John ingoiò in fretta e si fece vicino a me, in ginocchio.

«Non dire cavolate, sono per te. Starai meglio!» Quasi urlò.

Non era arrabbiato, direi più preoccupato. Aveva quella nota di urgenza nella voce, una sorta di impazienza, che non lo fece suonare irritato.

«Avanti, dai».

Mescolò fra le decine di gelatine stipate strette una sull’altra e ne pescò una piccola gialla, posando poi il pacchetto accanto a lui. Avvicinandosi ulteriormente, la sua mano sinistra finì sul mio ginocchio, fungendo da appoggio, mentre l’altra con la caramella viaggiava direttamente verso la mia bocca.
La situazione scivolò rapida fuori dal mio controllo. Entrambi eravamo due maschere serie ed imperscrutabili, traditi solamente dai nostri respiri. Troppo irregolari, troppo.

Trattenni il fiato involontariamente, le labbra serrate, strette, immobili. Seguivo la scena con occhi che non sembravano i miei, come osservassi il tutto da una differente prospettiva.
John mi sorrise rassicurante nella timida penombra della camera. Era arrivato ormai a pochissimi millimetri da me. Riuscivo a sentirne l’odore, mentre le sue dita mi sfioravano impercettibilmente il labbro superiore. Tabacco, soprattutto, misto a quello della caramella al limone.

Stavo scoppiando; schiusi la bocca per prendere una grossa boccata d’ossigeno, ma il respiro si bloccò.
Arrivò prima il gusto agrodolce della gelatina, il lento sfrigolio dello zucchero sulla lingua, e poi il brivido lungo la schiena. Una lieve scossa mi fece contrarre il petto. Mi ci volle qualche istante per metabolizzare.

John mi aveva appena imboccata.

La sua mano restava lì, sospesa sulle mie labbra appena aperte. Lo carezzavo con i miei sospiri, lenti e caldi. Aveva assottigliato gli occhi, ma mai spostato lo sguardo dal mio. Le sue iridi riflettevano una flebile luce che proveniva lontana fuori dalla finestra.
Complice la vicinanza, notai piccoli dettagli che, nel buio, non ero ancora riuscita a cogliere; le sue guance erano chiazzate da un sottilissimo strato di barba, fresca e morbida; aveva l’aspetto un po’ sbattuto, stanco, come le occhiaie che contornavano il suo volto; i capelli erano un disastro, i boccoli della frangia alzati e scomposti. Allora perché continuavo a pensare che fosse bellissimo?  La pelle chiara, il naso dritto, gli zigomi appena pronunciati.
John si inumidì incerto le labbra. Totalmente non previsto. Ero rapita dallo scorrere fluido della punta della sua lingua, inebriata da quel movimento.

Oh, cazzo… 

Tentai di deglutire, incontrando però solo la gelatina che, ancora a metà strada per la mia gola, si bloccò prepotentemente. Tossii imbarazzata e mi affrettai a scansarmi, decisa ad interrompere quella… cosa. Puntando decisa le mani sul materasso, indietreggiai, ponendo la giusta distanza fra di noi. Non sarebbe finita bene.
Anche John parve riprendersi. Si guardò intorno, fece un sorrisino incerto e si schiarì la voce.

«T-te l’avevo detto che erano buone».

Silenzio, lungo, assordante.

Lo stomaco ormai era andato, chiuso. Qualcosa mi soffocava, – e non era la maledetta! – schiacciava tutti i miei pensieri. Le orecchie piene del battito sordo del mio cuore.
John guardò le caramelle storcendo il naso, come ne avesse mangiate tante da star male. Dopo quella sera avrei sempre associato il gusto del limone ad un confine da non sorpassare, una linea oltre la quale è pericoloso spingersi senza rimanerne incolume.

Limoni, uguale, pericolo. Attenzione! Alla larga! Vattene, scappa. Ora.

Cominciai distrattamente a mordicchiarmi un’unghia. Che situazione ridicola, avevo voglia di… ridere. Fu una risata isterica, che sorse dallo stomaco accompagnata dal sapore di quella dannatissima gelatina. Mi guadagnai un’occhiataccia da parte sua, dubbiosa, ma ben presto l’aria tornò rilassata e sgombra. Almeno quel poco che bastava a non asfissiarci più.
Tornai sdraiata, ormai fuori dalle coperte, mentre anche gli ultimi singhiozzi di spegnevano. John mi raggiunse con una strana ombra in viso; stanchezza, mi dissi. Mi guardò per un attimo eterno, e poi si sforzò di fare qualcosa di molto simile ad un sorriso.

«Abbey» soffiò, pianissimo.

«Mh?»

Occhi negli occhi, incatenati. Cosa vuoi dirmi, John?

Un sospiro, non so bene di chi. Forse il mio, o forse il suo. O magari quello di entrambi, a fondersi in uno solo.

«Niente».

Si scansò troppo presto; inarcò il bacino, facendosi strada con la mano nella tasca dei pantaloni. Ne estrasse una sigaretta mezza spiegazzata ed un accendino. Con pollice ed indice percorse la lunghezza della sua Gauloises, quasi in una carezza, per lisciarne le grinze. Portarsela alla bocca ed accenderla fu un’unica fluida mossa.

«E’ passato un pochino? Ti senti meglio?» Sbuffò il fumo dal naso, le labbra sottili ridotte a due linee parallele.

La sua domanda interruppe il vorticare frenetico degli ingranaggi del mio cervello, per fortuna. Mi limitai ad annuire debolmente. In punta di dita tracciai disegni invisibili sulla coperta, per tenermi impegnata.

«Come sono andate le prove?» La buttai lì, per cambiare discorso e distogliere la mia mente. Un discorso vago, informale, anonimo.
«Benissimo. Me la sono squagliata dopo dieci minuti».

Fuori si era fatto sempre più buio, il sole era un lontano ricordo; avvolto dalla pigra luce della brace rossa della sigaretta, riuscivo giusto a distinguere i contorni del viso di John. L’odore pungente del tabacco mi pizzicava le narici, gradevolmente.

«Ho subito pensato alle caramelle». Parlò, ma sembrò più una riflessione espressa involontariamente ad alta voce. «Ci credi che ho girato tutta Woolton per trovarle?»

Si era voltato verso di me. Non lo vedevo distintamente, ma ne percepii il movimento appena accennato. Sorrisi, invasa da un piacevole calore.

«I ragazzi salutano, comunque».

Chissà perché la mia mente corse a Stuart, in automatico. Rotolai su un fianco, rivolta verso John.

«Non c’era bisogno che li mollassi per venire qui».

«Avresti fatto lo stesso per me».

«Certo. Ma io potevo benissimo aspettarti, sai».

«Non dovresti ringraziarmi, piuttosto? In fondo ti ho guarita». Se la ridacchiò mentre un’altra boccata di fumo scendeva giù fino ai suoi polmoni. «Dottor Lennon» borbottò fra sé e sé, gonfiando il letto. Voleva solo sentire come suonasse, ma non si trattenne dal sogghignare.
Gli allungai una leggera gomitata nel fianco, ma non mi arrischiai ad abbracciarlo. L’equilibro era sottilissimo, un filo costantemente testo che rischiava di spezzarsi al minimo tocco. Era così difficile, specialmente se tutto quello che desideravo era stringerlo forte e sentirlo vicino. Mi limitai, da lontano.

«Grazie, John».

«Quando vuoi, ragazzina. Saranno sempre gli altri ad aspettare, non tu».

Le nostre voci suonarono entrambe troppo profonde, inadatte ad uno scambio così rilassato. Fuori posto, ecco.
Un ultimo respiro profondo e John schiacciò la sigaretta nel posacenere sotto il letto, sbilanciandosi con il braccio oltre il materasso. Uno stropiccio. Inavvertitamente, sfiorò con il dorso della mano la carta liscia della lettera che avevo, poco prudente, nascosto lì accanto. Lo sentii irrigidirsi mentre, con il solo ausilio del tatto, cercava di immaginarsi cosa fosse quella superficie.

«E’ di mamma, è arrivata stamattina» lo aiutai «nulla di grave».

Un lieve tremolio mi avvertì che aveva annuito, tornado al suo posto. Seguì un attimo di silenzio, un’assenza di rumori totale. Non c’era imbarazzo, eravamo solo immersi nei nostri pensieri. Probabilmente avrei dovuto riflettere di più sulle mie parole, e su quelle di mia madre. Al momento non gli diedi il giusto peso, ma come avrei potuto?
Proprio mentre stavo per riaprire bocca, John si alzò. Fu talmente veloce che, il tempo di distinguere la sua figura nel buio, e si era già rinfilato le scarpe.

«Noi due dovremmo fare qualcosa». Le sue parole mi lasciarono di stucco. A cosa si riferiva? A quale riguardo avremmo dovuto fare qualcosa? Intendeva noi, noi? Non sapevo cosa rispondere, non volevo; avrei fatto una figuraccia delle mie, non riuscendo a tenere a freno la lingua.
Era alle prese con un laccio, tentava di annodarlo faticosamente, procedendo alla cieca. Rialzandosi, si passò una mano fra i capelli. Magari li stava solamente ravvivando, come avevo fatto io tante volte per lui. Si avvicinò, per vedermi chiaramente. Perché non accendeva semplicemente la luce?

«Qualcosa di folle. Io ho un po’ di soldi da parte, e tra poco è anche il tuo compleanno».

«Cioè?» A volte faticavo davvero a stare dietro ai suoi ragionamenti contorti. Ero pronta a scommettere che fosse un’idea balenata così dal nulla, senza capo né coda.
Aveva recuperato la sua giacca, abbandonata malamente sullo schienale della sedia lì accanto. Dopo un attimo di riflessione si illuminò, sistemando una delle maniche che si era girata al rovescio. Riconobbi immediatamente la sua espressione da “colpo di genio”. Non sarebbe andata a finire bene, per niente.

«Un viaggio. E’ perfetto, che ne dici?»

«Un viaggio? Sul serio? E dove?» chiesi, sfidandolo. La sua euforia si sarebbe spenta entro un paio di giorni, sicuro.
 
«E che ne so! Non troppo lontano, però, che il budget è limitato. Che si spenda poco e si beva tanto, unica condizione» finì, fin troppo serio. Sospirai, mascherando una risata.

Riflettendoci però – e sorvolando sulla sua follia – non era poi così male come proposta. solo qualche giorno, magari. Ci saremmo divertiti sicuramente. Ma mio padre? Avrei potuto lasciarlo?

«Ci penso» concessi, ancora altamente perplessa, mentre lui si infilava la giacca.

«Aspetta».

Sporgendosi ancora verso di me, posò teatralmente una mano sulla mia testa. Mi sovrastava, facendomi sentire minuscola. Era proprio quella la sua intenzione. Corrucciò le grandi sopracciglia, scurendosi in volto, e arricciò le labbra.

«Sei sicura di avercela l’età per bere, eh ragazzina?» mi prese in giro, caricando la voce in modo grave e basso. Mi afferrò per le spalle, ormai mi conosceva fin troppo bene. Risi, ma mi divincolai, spingendo con le braccia contro il suo torace. Era davvero incorreggibile; la presa non accennava a diminuire. Maledetto Lennon.

«Lasciami, John!» Biascicai fra i singhiozzi.

«Lo prendo come un no. Pazienza, berrò io per te… oltre che per me». Schivò abilmente le mie manate, ben attento però a mantenere il contatto saldo e resistente. Mi arresi con uno sbuffo, mettendomi buona e calma. Tanto alla fine avrei bevuto comunque, avevo sempre bevuto. E poi neanche lui era ancora maggiorenne. “Io sono un uomo grande e grosso, so insultare pesantemente e tirare pugni. Farei di tutto per una birra; quando si dice l’amore.” Maledetto Lennon.  

Lui scosse la testa divertito dalla mia faccia contrariata e mi schioccò un sonoro bacio sulla fronte. I miei muscoli si distesero involontariamente a quel contatto.
Non disse o fece nient’altro. Si avviò verso la finestra, scostò le tendine e aprì il vetro. Quando sentii la preoccupazione montare, John era già con mezza gamba di fuori. Sgranai gli occhi e quasi inciampai nei miei stessi piedi per la foga di raggiungerlo e fermarlo. Lo afferrai prontamente per un braccio, ignorando il capogiro causato da quello scatto fulmineo.

«Che diavolo fai?!»

Mi guardò con sguardo innocente. Ah, non avrebbe fatto passare me per la pazza stavolta.  

«Credevi davvero che fossi passato per la porta?»

«Bhè, sì».

Sghignazzò, aggrappandosi al cornicione.

«Tuo padre non mi avrebbe mai lasciato in camera tua tutto questo tempo».

«Quindi hai pensato bene di rischiare l’osso del collo?»

«Si fa quel che si può». Mi sorrise sornione, portando anche la seconda gamba oltre il davanzale. Poggiava i piedi sulla piccola tettoia dell’ingresso. Era un bel salto fino a giù.

Strizzò l’occhio con fare rassicurante, voltandosi poi di spalle ed accingendosi ad ostentare un’agilità che non ero proprio sicura possedesse.

«Ciao, ragazzina».

«Stai attento» sussurrai debolmente, portando le mani a coprirmi gli occhi. Sentii una risata soffocata, un tonfo sordo e riacquistai la visuale giusto in tempo per vederlo allontanarsi con disinvoltura. Camminava a ritroso, ancora volto verso di me. Un’ombra stagliata contro la città, una sagoma scura ed innocua.
Sospirai con il cuore in gola, per riprendere fiato. Lui alzò la mano in segno di saluto un’ultima volta ed accelerò il passo, dandomi le spalle. Rimasi alla finestra per un bel po’, finché John non fu inghiottito dalle strade deserte di una Liverpool ancora ignara. Maledetto Lennon. 
 
 


Erano passate da poco le undici e ormai anche la radio non era più di molta compagnia. Sentivo solo il gracchiare incessante della fine delle trasmissioni ed il russare cadenzato di papà. Dopo una frugale cena, ci eravamo sistemati sul divano, ma ben presto il sonno aveva preso il sopravvento. Su di lui. Come era ben prevedibile, quella notte la stanchezza era una cosa che non avrei contemplato, neanche lontanamente.

Mi ero appena alzata per porre fine a quel brusio fastidioso, quando dei ticchettii squillanti spostarono la mia attenzione sulla piccola finestrella accanto all’entrata. Non mi sorprese più di tanto. John, ancora con l’indice premuto sul vetro appannato dal suo alito caldo, mi faceva cenno di raggiungerlo fuori. Nessun sorrisino, niente di niente.

Esitai un attimo, ma non era il caso di invitarlo dentro. Con un’ultima occhiata, afferrai il grande cappotto di papà dall’appendiabiti e, tenendo una mano ben salda sulla serratura, abbassai la maniglia della porta senza il minimo rumore, per non rischiare di svegliarlo.
Trovai John seduto a terra, sul piccolo gradino prima della soglia. L’aria era decisamente gelida ed umida, condensava il fiato in piccole nuvolette bianche e piene. La sentivo sulle gambe, nelle narici, e sulla punta delle dita, ma soprattutto la vedevo sulle spalle di John, troppo poco coperte solo da quella leggera giacca scura.

Mi sedetti accanto a lui, coprendo istintivamente entrambi con la spessa e calda stoffa del giubbotto di lana sgraffignato in casa. Sentii John rabbrividire, per stringersi ancora di più a me. Quando i nostri occhi si incontrarono, lessi nel suo sguardo una strana inquietudine, un’ombra scura e pensierosa. Aprii la bocca, ma la sua espressione mi zittì all’istante.

«Ho… rotto con Cyn».

Qualsiasi cosa avessi detto in un momento simile sarebbe suonata stridente. Un banale mi dispiace non sarebbe servito a nulla, men che meno avrebbe celato quello sbagliatissimo senso di gratitudine e sollievo che pian piano nasceva in me, assumendo consapevolezza e forma. Mi limitai ad appoggiare la testa sulla sua spalla, in una muta promessa di affetto. Prima di potermene rendere conto, il mio naso era arrivato a sfiorare il suo collo. Quella sera odorava solo di John. Niente sigarette, niente dopobarba. Solo un lieve sentore di ghiaccio, e poi nient’altro che la sua pelle. Sospirò contro di me, ed io capii che un altro piccolo tassello stava cadendo.

C’era una domanda che solleticava la mia mente da mesi; ogni volta che minacciava di uscire l’avevo sempre arrogantemente rinchiusa in un cassetto, gettando la chiave in angoli dimenticati del mio cervello. Ogni volta, e quella si ripresentava più forte di prima, più potente e concreta.

Ma quella sera la voglia di lottare contro me stessa mi aveva abbandonata.

Sarebbe davvero così sbagliato?
 





 





 
Pensavate di esservi liberati di me, eh ? :)  Lo so, è una vita che non aggiorno.
La verità è che sentivo di essermi un po’ lasciata andare nello studio. Ho deciso di prendermi questo piccolo periodo di pausa in cui dedicarmi completamente alle cose giuste della vita. Niente distrazioni.

Mi dispiace, ma sappiate che non sparirei mai. Che ci crediate o no, i personaggi di questa storia sono i miei migliori amici e non potrei mai separarmene. Spero di essere riuscita a riscattarmi almeno un pochino con questo nuovo capitolo. Non è particolarmente carico e denso di avvenimenti, ma esplora la mente e la psicologia di Abbey, facendo luce suoi sui sentimenti. Il sogno all’inizio è una parte che mi piace particolarmente, ed è fondamentale per riuscire ad entrare nella logica dei pensieri di questa ragazza.

Ah, il capitolo è anche lungo oltre il doppio di quelli che pubblico di solito. Normalmente mi mantengo sull’ordine delle duemila parole, questo sfiora le seimila. Sono sempre un po’ restia in questi casi, ho paura di annoiarvi o dilungarmi troppo. Ma stasera mi devo far perdonare. Spero comunque che scorra e non sia pesante. Aspetto i vostri pareri con ansia :)


Mi scuso anche per la mia assenza in generale, per non aver recensito o letto nulla di vostro in questi giorni. Cercherò di mettermi in paro :)

Detto questo, le recensiste ! I_me_mineweasleywalrus93Jane across the universeMagicalMysteryJane e marshallb siete delle donne fantastiche, mi scaldate il cuore e io vi amo ♥  Ci tengo a ringraziare anche tutte le 15 meravigliose persone che tengono la mia storia fra le preferite, e le 11 che la seguono. Davvero non mi aspettavo di poter riscuotere tanta approvazione :’)

Stasera ho la chiacchiera facile, mi sono dilungata fin troppo anche qui ! 
Spero di riuscire a tornare ad intervalli regolari, tempo e studio permettendo.
Un grandissimo bacio dalla vostra Giulia !

( Correte in Edicola, Revolver è a dir poco fantastico )





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