Capitolo 16
E Se Fuggissimo
Tyranitar
si fece strada a passi pesanti su Levantopoli, travolse senza alcuna esitazione
il laboratorio di Dama Munna, ridusse la Scuola per Allenatori in un cumulo di macerie.
Dulcis in fundo, ignorò le urla disperate di Spighetto, Chicco e Maisello
mentre faceva a pezzi, mattone dopo mattone, la loro amata Palestra.
Una
nera colonna di fumo saliva da ciò che un tempo era stato il Centro Pokémon; le
fiamme divampavano in ogni angolo della città.
«Room, boom, kaboom!» disse Kim, sottovoce. Fece
avanzare il modellino sulla cartina 1:25.000 di Unima e immaginò anche il
Percorso 3 travolto da quell'ondata di distruzione.
Tutto
stava andando secondo i piani di Tyranitar: presto di Unima non sarebbe rimasta
traccia. Chi avrebbe potuto fermarlo, d’altronde? Nardo era già scappato verso
l’Oriente, i Capipalestra si erano dimostrati inutili come al solito e gli
Eroi... beh, loro avevano sicuramente di meglio da fare.
Ma
ecco spuntare dal Bosco Girandola un temibile avversario: la Pure Metal Special
Limited Precious Edition di Pachirisu Shiny! Tyranitar arrestò la sua avanzata,
colto dal più cieco terrore.
«Pachi-pachi-paaaaaa!»
squittì Kim, agitando il piccolo scoiattolo elettrico nella mano destra.
Tyranitar cadde steso su Zefiropoli, sconfitto in un sol colpo.
«Kim,
non solo non mi sei d'aiuto: sei controproducente.» si lamentò Lee, indicandola
col pennarello rosso che aveva in mano. Era seduto a terra accanto alla
cartina, che occupava buona parte del pavimento del soggiorno. «Puoi evitare di
sdraiarti su Sciroccopoli? È uno dei punti focali dell'indagine.»
Kim
gonfiò le guance. «Che noia che sei.» sbuffò, rotolando su un fianco per
spostarsi sulla zona boschiva sotto a Libecciopoli. «Non posso uscire, non
posso allenare Porchetta in casa, non posso guardare la TV... e ora non posso
nemmeno giocare un po' per svagarmi!»
«Scusa
se sto cercando di evitare lo sfratto e vorrei che tu non ti uccidessi nel
frattempo.» Lee si allungò sulla mappa per cerchiare di rosso Torre Cielo e
scriverci accanto un grosso punto di domanda. «Per una volta non potresti, che
ne so, startene tranquilla a leggere un libro?»
«I
libri che abbiamo in casa li conosco a memoria. Gli unici che non ho letto sono
i romanzetti rosa che tieni in fondo all'armadio.»
«Oppure
dormire. Perché non vai a dormire, Kim?»
«Perché
è quello che stavo facendo fino a mezz'ora fa.»
Lee
sospirò, lo sguardo ancora fermo sulla cartina. Si grattò la testa, sospirò di
nuovo, prese il fascicolo di fogli che aveva accanto e ne girò alcuni; anche
quelli erano sottolineati ed evidenziati in vari punti, come il libro di testo
di uno studente annoiato.
Kim
fece leva sul braccio per raddrizzarsi. Sbadigliò. Dire che si era ripresa del
tutto dagli effetti del sedativo da elefanti che le aveva dato Zania sarebbe
stata una bugia: aveva dormito per quattordici ore filate e si sentiva ancora
stanca, come se quelle ore le avesse passate a correre.
Scorse
la cartina con lo sguardo, leggendo distrattamente ciò che Lee ci aveva
scribacchiato sopra: "Iperpozioni x15", "notte", "3,
7, 12", "Revitaliz. Max x20", "perché?"... Per quanto
la riguardava potevano anche essere parole messe a caso, non sarebbe comunque
riuscita a comprendere la logica che le legava.
«Certo
che ne hanno rubate, di Iperpozioni.» buttò lì. Schioccò il collo da una parte
e dall'altra, sperando di costringere il suo corpo a svegliarsi.
«Molte
più Ultraball, in realtà.» disse Lee, quasi sovrappensiero. Finì di scrivere
sulla pagina del fascicolo su cui era concentrato e lo lasciò cadere, insieme
alle sue spalle. Sospirò. «Non ha davvero senso. Quasi un anno di completa
inattività, gli unici a farsi vedere ancora in giro erano quelli del Fan Club
di N, e ora ricompaiono per... rubare nei Pokémon Market?»
Kim
alzò le spalle. «Magari si annoiano. È plausibile, ad Unima non succede mai
nulla.»
«Hanno
qualcosa in mente. Richiamare l'attenzione su di sé in questo modo è troppo
stupido anche per loro, deve esserci un motivo.» Lee si rigirò il pennarello
tra le mani. Sfilò appena il cappuccio con il pollice, lo rimise a posto, lo
sfilò di nuovo. Sospirò. Se l’avesse fatto un’altra volta, qualcuno avrebbe
bussato alla porta per chiedere di piantare in giardino un cartello: “Valle dei
Sospiri”. «Se il loro vero obiettivo fosse ottenere un certo tipo di oggetti, li
ruberebbero in blocco. Svuoterebbero i Grandi Magazzini, non farebbero il giro
dei Pokémon Market di Unima.» Si sporse nuovamente sulla cartina ed indicò
alcune città col pennarello. «Mistralopoli, Ponentopoli, perfino Spiraria...
Tutti questi spostamenti sono un inutile spreco di tempo ed energie. In più,
fanno sempre lo stesso giro, come se non si preoccupassero di venire
catturati.»
Kim
si coprì la bocca con la mano, mentre un altro sbadiglio le allargava la cassa
toracica. «Non sarà proprio questo, allora?»
«Che
cosa?»
«Il
motivo.»
Lee
inarcò un sopracciglio, stranito. Probabilmente si stava chiedendo quale misterioso
effetto avesse avuto su di lei il connubio tra sedativo ed antidolorifici.
«Voglio
dire.» spiegò Kim, chinandosi anche lei sulla cartina. «La cosa è molto più
semplice di quello che sembra: se pensi che i furti non abbiano senso, allora
non ce l'hanno. Ma se invece i loro movimenti seguono una qualche sorta di
schema,» fece scorrere l'indice da Libecciopoli a Sciroccopoli, «è quella la
strada che devi seguire. Chi se ne frega delle loro motivazioni per fare questo
o quello? Il nostro compito è catturarli.»
Lee
rimase a fissarla per qualche secondo, come se si fosse incantato.
«Catturarli...» ripeté a fior di labbra. «Se fossero ladri normali non
vorrebbero farsi catturare... eppure...» spostò lo sguardo sulla mappa, da una
città all’altra. Aprì la bocca, la richiuse, morse il cappuccio del pennarello.
Se il suo cervello fosse stato una macchina, di sicuro in quel momento lo si
sarebbe sentito ronzare. «È una trappola.» disse, spalancando gli occhi. Lasciò
cadere a terra il pennarello, si alzò in piedi e guardò la cartina come se
avesse scoperto che si trattava di quella di Hoenn anziché di Unima. «Ma certo,
ma certo, come ho fatto a non arrivarci prima? Che idiota.»
Senza
aggiungere altro, si fiondò in camera sua.
Kim
sbatté le palpebre un paio di volte. «Eh?»
Qualcuno si è divertito
a fare casino con gli ingranaggi del mondo. pensò. Ormai niente funziona più come dovrebbe,
nemmeno le persone.
Lasciò
Pachirisu e Tyranitar nei pressi di Zefiropoli e seguì Lee in camera, dove lo
trovò intento a stipare magliette in un borsone da viaggio.
«Che
stai facendo?» chiese, allibita.
Lee
non si disturbò nemmeno a guardarla, troppo impegnato a decidere tra una polo
azzurra e una camicia. Vinse la polo. «Non vedi? Faccio i bagagli.» mise alcune
felpe nella borsa e le schiacciò con le mani in modo che ci entrassero. «E
adesso vai a scegliere i tuoi vestiti preferiti e lo fai anche tu, da brava.»
«Ba...»
Kim rimase qualche secondo a bocca aperta, incerta se chiedere spiegazioni o
cercare la cinepresa di Candid Camera tra i libri sulle mensole. «Bagagli,
bagagli per dove, perché?»
«Dobbiamo
andarcene, e possibilmente prima che torni N.» dichiarò Lee, continuando a fare
avanti e indietro tra l’armadio e il letto, su cui aveva appoggiato il borsone.
«Non ho voglia di dovermi liberare di lui, farà un sacco di storie.»
«Ma
che...?»
Kim
sentiva il cuore batterle forte in gola. Fino ad un minuto prima Lee stava
lavorando per fare in modo che non venissero sbattuti fuori da quella casa, e
ora voleva andarsene? Che storia era?
Confusa,
seguì con gli occhi il frenetico andirivieni dell’amico.
Tre
paia di jeans a caso, via nella borsa. Il pigiama verde e quello con il motivo
ad Oshawott che gli aveva regalato sua madre, via nella borsa. I calzoncini da
ginnastica, la maglietta con la scritta consumata “PkMn Trainer”...
Amava
quella casa almeno quanto lei. Non l’avrebbe mai lasciata così, non era da lui.
Lee
aprì un cassetto e prese tra le braccia più calzini che riuscì, pronto a
rovesciare anche quelli nella borsa quasi piena.
Era
la loro vita. Avevano appena concordato di continuare a viverla come avevano
sempre fatto. Non gliel’avrebbe lasciato rimangiare.
«Frena
frena frena, mettiti in standby per un secondo.» Kim
si frappose tra Lee e il borsone. Al suo tentativo di girarle comunque intorno,
gli prese il viso tra le mani. «Spiegami.» ordinò, perentoria.
I
calzini rotolarono a terra con dei tonfi leggeri.
Lee
la guardò negli occhi, strinse le labbra. Le prese le mani e le tenne tra le
sue per alcuni secondi, prima di lasciarle. «Kim, cerca di seguirmi, ti prego.»
Aveva uno sguardo cupo, preoccupato, stanco.
«Ormai non ci sono dubbi: qualcuno sta cercando di ucciderci.»
Kim
aveva già raccolto nei polmoni l’aria necessaria a rispondere, ma la lasciò
andare d’un fiato. Corrugò la fronte. «Come?»
«Se
c’e una cosa che ho imparato bene e a mie spese, è che quando troppe
coincidenze accadono tutte insieme vuol dire che non sono affatto coincidenze.»
disse Lee, chinandosi a raccogliere i calzini. «Pensaci: l’attacco dei Vullaby,
Zania che ci mente, il Rotom, e adesso il Team Plasma che saccheggia
allegramente Unima come a dire: “Venite a prenderci, non stiamo assolutamente
tramando qualcosa!”.» scosse la testa, si rialzò e lasciò cadere le calze nel
borsone. «È tutto collegato. Anche se sembrano eventi isolati, c’è qualcuno che
tira i fili; qualcuno che vuole liberarsi di noi.»
Quello
che stava dicendo Lee aveva senso. Beh, quasi tutto.
«Ed
è questa la tua soluzione, scappare via?»
«È
l’unica cosa che ci resta da fare. Possiamo accamparci nella foresta a
sud-ovest per qualche settimana, finché le acque non si saranno calmate.»
spiegò Lee, prendendo un altro paio di magliette dal letto per infilarle nella
borsa. Sorrideva, eppure Kim non trovò in quel sorriso la minima
rassicurazione. «Certo, sarà un po’ scomodo, ma ce la caveremo. Basterà-»
Ne
aveva abbastanza. Tutto quel blaterare era andato fuori tempo massimo.
«Leeroy
McFaid.» disse, prendendolo per il collo della maglietta. «Da quando sei
diventato un tale smidollato?»
Lui
rimase a fissarla con lo sguardo di un baccalà che osserva la rete da pesca
avvicinarsi: disorientato e vagamente stupido.
«Il
Lee che conosco io» continuò Kim, tagliente, «non direbbe mai che scappare dai
problemi è una maniera di risolverli. E sai perché?» lo lasciò andare, senza
però smettere di guardarlo negli occhi. «Perché è stato lui ad insegnarmelo.»
Lei
era sempre scappata dai problemi. Lei preferiva
raggomitolarsi in un angolo, piuttosto che affrontare ciò di cui aveva paura. Lei e sempre lei. Per questo Lee
esisteva: per ripeterle che ce l’avrebbe fatta, per assicurarle che le avrebbe
coperto le spalle, per prometterle che se un problema fosse stato davvero
troppo grande per lei, allora beh, l’avrebbero risolto insieme.
«D’accordo,
forse qualcuno sta cercando di farci fuori. E quindi?» disse, convinta. «Noi
siamo forti. Abbiamo fatto il giro di Unima partendo da casa con due soldi,
abbiamo battuto la Lega, abbiamo salvato
il mondo, accidenti...» sorrise. «Non ci chiamano Eroi per nulla, sai.»
Lee
si morse un labbro. «Sì, ma metti...» la prese per le spalle, stringendola come
se vi si stesse aggrappando per non cadere. «Metti che contro due eroi mandino
un esercito. Che faremmo in quel caso?»
«Un
esercito di quanti? Fino a un centinaio penso che-»
«Non
siamo onnipotenti, Kim.» Negli occhi di Lee c’era la preoccupazione di chi
conosce bene la forza della tempesta in arrivo e sa altrettanto bene cosa
rischia di perdere. «Non m’interessa se finirò per farmi male. Ma se andiamo
avanti per questa strada, non so per quanto ancora sarò in grado di...»
Kim
lo abbracciò. Strinse le braccia intorno a lui e spinse la fronte contro il suo
petto, impedendogli di dire un’altra parola. Sapeva dove voleva arrivare, e
quel discorso non le piaceva affatto.
«Dove
sono?» chiese, di punto in bianco.
«Eh?»
«Io.
Dove sono.»
«Beh,
così è troppo facile. Sei qui davanti a me.»
«E
come fai a dirlo?»
Lee
ridacchiò. «Ti vedo.»
«Banaaale.»
«Uhm...»
Lee sembrò rifletterci su per qualche secondo. Di solito era molto bravo a capire
che cosa voleva da lui, e infatti le mise una mano sulla testa. «Tanto per
cominciare, sei bassa come Kim.»
«Ehi!»
«Permalosa
come lei...» continuò, alzandole il mento con la mano. «...e, sì, con lo stesso
identico broncio.»
Kim
arricciò le labbra. «Te l’hanno mai detto che sei proprio antipatico?»
Lee
sorrise, per nulla toccato. «Hai i suoi stessi capelli, che non vedono un
parrucchiere da più di tre anni...» disse, guadagnandosi un’altra occhiataccia,
«le sue stesse guancette morbide, che non fa altro che gonfiare,» ne sfiorò una
con le nocche, «e per finire, direi che pesi proprio quanto lei!» concluse,
sollevandola per i fianchi. Kim sentì il fiato mancarle per un secondo, mentre
delle familiari vertigini le assalivano lo stomaco. Si aggrappò al collo di Lee
con un breve strillo, pregando di non cadere. Lui si sbilanciò – probabilmente
più per farle credere di essere pesante che per effettiva mancanza di
equilibrio – e finì seduto sul letto.
«Fiu...»
disse, sorridendo. «Eccome se pesi come
Kim, forse anche un paio di chili in più.»
Lei
gli strinse nuovamente il collo, questa volta con l’intento di fargli male.
«Beh,» disse, per riportare il discorso sul binario che le interessava, «direi
che abbiamo appurato che sono qui e sono io.»
Lee
annuì. «Senz’alcun dubbio.»
«Prossima
domanda: ho l’aria di volermene andare?»
«Da
come mi sei appiccicata, direi proprio di no.»
«Oh,
quindi sei un ragazzo perspicace.» rise Kim. «Ultima domanda. Non è facile,
quindi pensaci attentamente prima di rispondere.» appoggiò il mento alla sua
spalla. «Che cosa si può mettere tra me ed il posto in cui voglio stare?»
«Niente.»
Lee rispose senza la minima esitazione, come se avesse avuto la risposta sulla
punta della lingua prima ancora di sentire la domanda. La strinse piano a sé.
«E va bene, hai vinto. Restiamo.»
«Evviva!»
esclamò Kim, rischiando di strozzarlo.
«Ma
devi promettermi una cosa.» Lee la prese per le spalle e l’allontanò un poco,
per guardarla in faccia. «Okay?»
Kim
intrecciò le dita dietro al suo collo, restia a lasciarlo andare così presto. «Ti
ascolto.» sorrise.
Lo
sguardo di Lee era mortalmente serio. «Promettimi di non dirlo più.»
«Che
cosa?»
«“Io
sono io”.»
Il
sorriso di Kim vacillò. Quindi era quella la questione. Gira che ti rigira, era
sempre quella.
Deglutì.
«Lo...
lo prometto.» lo lasciò andare e si alzò in piedi in fretta, quasi rischiando
di cadere nel processo. Si ridipinse il sorriso in volto. «Quindi, dove si va a
combattere il Male stavolta?»
Lee
ricambiò il sorriso. La preoccupazione non aveva lasciato il suo volto, ma
sembrava un po’ più rilassato. «Si va al mare.»