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Epilogo ~
Il fiato si frantumò nei polmoni.
Francia alzò la testa di scatto, la bocca aperta in
un ansimo continuo; boccheggiò alla ricerca di aria, la testa ondeggiò, gonfia
e oleosa, mentre le palpebre faticavano a rimanere aperte, pesanti e impregnate
di stanchezza.
Lamelle di luce si srotolavano alla sua sinistra,
ciondolando tra grumi più o meno densi di ombra; sotto i polpastrelli una
consistenza molliccia, la bocca un impasto metallico di alcool e nausea, le
narici sfrigolanti di…dolci?
-Mon Dieu-
balbettò e passò una mano sulla fronte fino al mento, risalì a stropicciare gli
occhi con le dita e strinse forte la radice del naso. Annusò una, due, tre
volte.
Alla fine si arrese.
Era proprio profumo di dolci, quello.
Il perché o il come un simile odore l’avesse colto
in quella particolare circostanza non aveva ancora una spiegazione precisa, né
avevano risposta le domande fondamentali dell’uomo. Dove mi trovo? Cosa ci faccio qui? e Dov’è lo champagne?
Visto che rimanere in mezzo ad un nulla pastoso e
incomprensibile non sembrava la soluzione migliore, Francia si decise ad
alzarsi; fece leva con le mani sui cuscini del divano –almeno una cosa era
riuscita a riconoscerla- e si tirò in piedi. Il braccio destro si tese subito
all’indietro per cercare un appiglio stabile e le dita si strinsero attorno
allo spigolo di un tavolino.
L’esile filo di una mappa cominciò a tracciarsi
faticosamente tra la polvere accumulatisi nella testa. Nella sala che stava
ormai svelando i propri contorni alla luce crescente, Francis riconobbe una
credenza colma di servizi da the di fattura pregiata, tre librerie una accanto
all’altra, qualche libro impilato ai loro piedi e che non avevano trovato posto
sui ripiani, una poltrona di velluto rosso su cui era abbandonata una tela da
ricamo ancora da concludere, e un televisore incastrato tra un vaso piuttosto
kitch di rose rosse ed una riproduzione in ceramica della regina Vittoria.
Il gusto, se tale si poteva chiamare, era
inconfondibile. Tuttavia, a Francia sembrava di non avere ancora abbastanza
pezzi tra le mani per costruire un quadro completo della cosa. Si mosse in
avanti e la coperta di patchwork che aveva sulle spalle, e di cui si era
accorto solo in quel momento, si accasciò sul tappeto indiano; un’altra coperta
lo fissava dai suoi cinque o sei strati mollemente afflosciati tra loro,
proprio ad un angolo del divano.
-Arthur- chiamò, piano, la voce che bubbolava nella
bocca ancora addormentata -Arthur, dove sei?-
-In cucina!-
E da come chiocciò
la risposta, Francis capì che chiunque
sarebbe potuto essere in cucina, tranne Arthur. La conferma la ebbe quando, al
posto dell’inglese, trovò ad armeggiare dinanzi ai fornelli un..confetto, sì,
non gli venne in mente aggettivo migliore per descriverlo. I capelli mossi
parvero avere uno sbuffo castano chiaro quando il loro proprietario alzò la
testa dal forno aperto; gli occhi azzurri, immensi, inghiottirono guance e
zigomi tanto si allargarono nel vederlo entrare, e il sorriso si arrampicò su
ogni singola lentiggine, risultando ancora più grande.
Il confetto fece un passo in avanti. Francia uno
indietro.
-Francis, sei sicuro di stare bene?-
-Dove sono?-
Anche se la riconosceva, sì, la cucina. Sapeva perfettamente di essere a casa di
Inghilterra, glielo dicevano i manuali di cucina disposti sulle mensole, la calamita
a forma di Big Ben sul frigorifero panciuto, la foto della Regina Elisabetta
che quella stessa calamita contribuiva a tenere su, e la piccola lavagnetta
magnetica su cui era scritto, a lettere aggraziate, il promemoria Call Kate.
Pur tuttavia, era la presenza di quell’altro a farlo dubitare. Quell’altro stonava nel complesso della casa,
fuori luogo in quella stanza come nel giardino o perfino nella strada,
totalmente estraneo al concetto stesso di Arthur
Kirkland, Inghilterra.
-Sei a casa mia- cinguettò l’altro, sollevando una torta tutta glassa e riccioli di panna –Guarda!
Questa l’ho fatta per..-
-Questa è casa di Arthur-
Il confetto sbatté più volte le palpebre, il sorriso
si ammosciò sul mento piccolo e tondo.
-Io sono Arthur- mormorò.
Francia scosse la testa e serrò una mano a pugno.
-Non- sibilò –Tu n’es pas Arthur. Dov’è ?
Cosa gli hai fatto ?-
Qualcosa, tutto,
sembrò incrinarsi nel corpo dell’altro.
Una sensazione muta che gli gonfiò il petto, tirando il gilet rosa e i bottoni
della camicia bianca; il farfallino azzurro ebbe un brivido e si inclinò, accartocciato
su se stesso. La bocca divenne una linea dura, le labbra si serrarono, nere,
contro il volto pallido. Gli occhi divennero uno specchio entro cui Francis
potè vedere il proprio riflesso sconvolto.
Un sussulto.
Specchi.
Come quelli che aveva trovato attorno al corpo di
Arthur, laggiù, tra la polvere e il buio e sbavature di gesso bianco. Sette
specchi dalla superficie opaca e Arthur così, in mezzo a loro, disteso con un
braccio a coprire il Macbeth , il cappuccio calato sul volto, le dita lunghe,
sottili, artigliate al foglio ingiallito, il corpo un ammasso amorfo sotto il
mantello di lana pesante. L’aveva chiamato. Aveva sussurrato, mormorato,
bisbigliato il suo nome, scosso quelle spalle d’improvviso esili e
insignificanti, baciato le labbra livide e piccole, fredde. Il volto di
Inghilterra era bianco come cera e come cera sembrava sciogliersi e ricomporsi,
agglomerati vitrei di mille facce diverse che si mescolavano sui tratti
affilati e sorprendentemente eterei: nel percorso tra la stanza con gli specchi
ed il salotto, per quei pochi passi che Francis l’aveva tenuto a sé e gli aveva
fatto poggiare la tempia contro il petto e l’orecchio sopra il cuore perché il
solo battito potesse restituirgli calore e colore, per quei pochi passi, sì,
aveva visto troppi volti sul viso di Arthur e nessuno era il suo. Simile ad un
canale mal sintonizzato, in cui l’immagine faticava a trovare il proprio posto,
occhi, sopracciglia, bocche, zigomi, fossette, tasselli di un puzzle troppo
complicato e per nulla accordati tra loro continuavano a sovrapporsi, nella
disperata ricerca di senso.
Ma quando aveva posato quel corpicino sul divano,
oh, com’era indifeso e minuscolo! Un bambino, quasi e lui, Francis, si sentiva
senza forze, impotente mentre gli sollevava la coperta fino alle spalle e gli
baciava la fronte e guardava, fissava, osservava i frammenti cominciare a
bloccarsi, ecco uno sfarfallio di lentiggini sotto l’occhio, i capelli sempre
più chiari, un’espressione di dolce e inquietante pace che pervadeva ogni tratto
essenziale di Arthur, la fronte si distendeva, le dita perdevano rigidità, si
era fatto di nuovo profondo il respiro…!
Francia non ricordava altro, però. S’intravedeva
appena mentre prendeva la mano di Inghilterra tra le proprie, s’inginocchiava
accanto al divano e finiva per posare la testa sul suo petto. Si era
addormentato così, sopra di lui, a proteggerlo da qualcosa di cui nemmeno
conosceva il nome.
-Non..- si
portò una mano alla bocca, il braccio che cozzava contro lo stipite della porta
di cucina. Torse gli occhi verso l’altro.
L’altro gli
restituì un tranquillizzante sorriso compassionevole e si fece avanti di un
passo.
-Io sono Arthur- ripeté, con voce carezzevole -L’Arthur
che tu hai voluto, l’Arthur dei tuoi desideri. Davvero non mi riconosci,
Francis? Sono l’Arthur che ami e che ti ama, e che non ha paura di dirlo e di
mostrarlo al mondo. Ti amo, Francis, ti amo, ti amo e ti amo ancora..! Ma come..?-
piegò la testa di lato -Non sei felice? Io ti amo, Francis! Non mi hai sentito?
Posso gridarlo più volte, se vuoi! Cantarlo, scriverlo, qualunque cosa!- lo
sguardo si addolcì, le guance furono sfiorate da un tenue rossore –Dimmi tu
quello vuoi, sono qui solo per te-
-Arthur non me lo avrebbe mai detto- Francia sentì il
fiato mancargli nei polmoni -Arthur si sarebbe amputato il braccio destro,
strappato la lingua piuttosto di ammetterlo. Arthur non l’avrebbe mai
dichiarato con così tanta veemenza.- scosse il capo, con un sorriso –Arthur
avrebbe continuato a violentare fornelli e dolcetti, invece di sfornare simili
prelibatezze- indicò la torta che l’altro
teneva in mano -Oh, è bella, molto bella, per carità. Ma preferisco quelle di
Arthur, perché quando Arthur cucina in realtà mi sta invitando ad uscire.
Quando mi caccia via, mi sta chiedendo di rimanere. Quando mi nega i suoi baci,
anela le mie carezze.- chiuse gli occhi, ripensando al tocco di Inghilterra sul
viso –Arthur è maestro del non detto e della reticenza.- un istante di silenzio
-E in fondo lo preferisco così-
L’altro
sgranò gli occhi, lanciò via la torta, gli si gettò addosso, gli afferrò le
braccia, lo scosse, gridò. Francis avvertì le sue dita affondare nel tessuto
spiegazzato della camicia, il filo della lama gelido contro la pelle.
-Ma io ti ho detto che ti amo!- urlò di nuovo –Era
questo che volevi, no?- alzò gli occhi liquidi, tremuli di lacrime -Qualcuno
che non ti facesse più soffrire, che non ti ferisse più, che fosse qui per te e
solo per te, che ti dicesse quanto ti amasse e ti volesse bene e avesse bisogno
della tua presenza! E’ per questo che gli hai detto di cambiare, di trovare un
incantesimo! Lo hai portato a tanto per avere finalmente qualcuno adatto a te! Lo
hai detto per avere me!-
Francia gli prese con dolcezza le mani e lo
allontanò. Un sorriso gli sollevò le labbra.
-Mon petit,
davvero non comprendi?- chiese, passandogli una mano fra i capelli -Arthur mi
ferisce ogni giorno, ma quelle ferite è lui stesso a bendarle. Quando mi chiama
nel mezzo della notte è perché è me
che vuole sentire. Tra tutti. E sì che ci sono persone ben più forti per
trascinarlo via da una bettola o per fronteggiare un hooligan ben piazzato e
molto poco sobrio, così come altri apprezzerebbero meglio il liquore
appiccicaticcio che mi fa bere ogni volta che usciamo la sera-
Gli occhi dell’altro rotearono verso il basso, le
labbra si sporsero come quelle di un bambino imbronciato.
-La troppa dolcezza, ahimè, mi risulterebbe
stucchevole- continuò Francis, prendendogli il mento tra le dita e invitandolo
ad alzare il volto verso di lui -Preferisco lottare cento notti pur di sentirlo
chiamare un’unica volta il mio nome. Per un istante, darei un’esistenza intera.
Io voglio combattere per averlo, per
tenerlo stretto, per sentire la sua voce o il calore del suo corpo.
-Sono malato, mon
petit. Ed è Arthur l’unica mia cura-
-Dunque..- l’altro
gli strofinò la fronte contro il petto -Non mi amerai mai?-
Francia chiuse gli occhi, un sospiro scivolò lento
in gola; gli cinse le spalle con le braccia, poggiandogli il mento sulla nuca.
-Non, mon
petit. Mi spiace averti costretto ad essere qualcun altro. Torna da me,
Arthur. Con le tue sopracciglia indecenti, la tua ironia da quattro soldi, col
tuo sguardo tagliente. Con la tua voce, il tuo respiro, il tuo cuore che batte
per me e per me solo. Torna da me-
Un piccolo tremito da parte dell’altro. Francia lo strinse più forte.
-Mi permetterai di rivederlo, mon petit? Farai questo per me?-
Ci furono alcuni minuti di silenzio, in cui l’altro non disse una sola parola: si
limitava a tremare, il respiro accelerato, la presa alle braccia di Francia
tanto forte che questi poteva avvertire il sangue fermarsi sotto quei
polpastrelli inzuccherati.
-..Lo farò- rispose, infine.
-Merci.
Non lo dimenticherò-
Ancora silenzio e Francia si chiese perché, ancora,
l’altro non lo avesse lasciato
andare. Perché rimaneva? Doveva far tornare Arthur, andarlo a prendere ovunque
fosse, riportarlo da lui in modo da sfotterlo su quanto, anche con incantesimo,
i gusti orrendi rimanessero fondamentalmente gli stessi.
-E' un pugnale, questo, che vedo davanti a me, l'impugnatura verso la
mia mano? Vieni, lasciati afferrare. Non ti prendo, ma ti vedo ancora-
pigolò con un mormorio strozzato.
Francis corrugò la fronte.
-Per quale motivo stai recitando il
Macbeth?- chiese, un brivido che gli pizzicava freddo la schiena.
-
Non sei percettibile al tatto, fatale visione, come lo sei alla vista?- continuò l’altro e il tono si fece più freddo,
glaciale -O sei soltanto un pugnale della
mente, una falsa creazione costruita dal tuo cervello oppresso dalla febbre?-
-Mon petit, penso sia mio dovere informarti che mi stai spaventando-
E non era una bugia, né uno scherzo. La medesima sensazione
che l’aveva spinto a correre fino a Londra era tornata a sgocciolare nello
stomaco, crescendo, aumentando, addensandosi fino a sbocciare nel torace con
tanti petali rattrappiti, tentacoli di terrore che s’attorcigliavano al
costato.
-Ti vedo ancora,
in forma palpabile, come questo che ora snudo.-
Il filo del coltellaccio scivolò
lentamente lungo il braccio, al gomito la punta incespicò appena contro una
piega della camicia; il tessuto si lacerò con un gemito ben udibile e i muscoli
di Francis s’irrigidirono, il sangue ghiacciò nelle vene.
-Smettila- intimò, mentre tentava
di divincolarsi -Smettila, ora-
- Mi guidi nella direzione che stavo prendendo- la voce dell’altro era ora un tintinnio di
derisoria soddisfazione, tanto che non fu difficile per Francis immaginare un
ghigno a deformargli le labbra -E uno
strumento come questo stavo per usare-
Uno strattone, un altro ed un altro
ancora, ma non gli riusciva di liberarsi. Quelle dita pallidicce lo tenevano
inchiodato, le unghie rosicchiate affondavano nella carne, strappavano lampi di
dolore che saettavano veloci e crepitanti tra i nervi.
-Basta..!- si tirò indietro,
ansimò, boccheggiò, reclinò il capo, gonfiò il torace, torse la bocca, digrignò
i denti, il respiro accelerò, brividi sulle braccia, sulle gambe, nel cuore,
nell’animo, le ginocchia piegate, molli e quelle mani, quelle mani e quel
coltello che non lo lasciavano andare, lo tenevano avvinto ad un terrore
paralizzante.
- I miei
occhi sono diventati i buffoni degli altri sensi- l’altro sollevò finalmente gli occhi, accesi di dolce follia. Lo
accarezzavano con languido delirio, disegnavano lenti il profilo di un corpo
scomposto, delineavano con cura i contorni vischiosi di una pozza di sangue -Oppure valgono non più di tutti gli altri.-
Il coltello abbandonò il gomito e si inginocchiò a baciare il
fianco in punta di lama. Uno schiocco di lucidità, Francis capì che era quello il momento adatto per fuggire.
Alzò di scatto il braccio destro, chiuse le dita a pugno,
mirò al volto dell’altro, a quel
sorriso distorto e malato, alla lingua che scivolava leziosa sulle labbra, alle
guance accese di sanguigno piacere.
Un palpitare d’oro sul filo del coltello.
- Ti vedo ancora,
e sulla tua lama e sul manico gocce di sangue…-
Francis sgranò gli occhi.
Bianco e rosso.
-Che
prima non c'erano-
Il fiato si frantumò nei polmoni.
.: Fate spesso il mio
sangue, sbarrate l'accesso e il passo alla compassione,
affinché nessuna compunta
visita dei sentimenti naturali
scuota il mio feroce
proposito o interponga una tregua
dalla sua attuazione. :.
{ Lady Macbeth } –
.:
Fine :.
Note
Finali
I-I FEEL LIKE A MONSTEEEEER----! *Canta*
Bhè, dai. Forse mostro mostro no. Perché, in teoria, ci
sarebbe un seguito. Ho già immaginato il tutto, scene comprese, anche per far
capire perché proprio la scelta di 2p!Arthur e di quale potrebbe essere la sua
storia. Per cui, il seguito c’è. Devo solo pensare se e come scriverlo.
Fino a quel momento…FEEEEEEEL LIKE A MONSTEEEEER----!
Ma passiamo ai ringraziamenti!
Ringrazio The Naiads,
jei90, RuKiA e Cosmopolita per
aver recensito!
Ringrazio RuKiA e TheAkaiBookFrog per aver messo la
storia tra le preferite!
Ringrazio Shania
per aver messo la storia tra le ricordate!
Ringrazio The Naiads, veda94,
Mothy, jei90, Maysilee e Black Air per aver messo la storia tra
le seguite!
E infine ringrazio
tutti voi, La Nymphe Blonde,
Chaska, Belarus, The Naiads e Cosmopilita
DanielleXD263, Amaerise,
Belarus, Prof, Seia, Soffice_Salice, _Lenalee_, jei90,
RuKiA, Shania, veda94, Mothy, Maysilee e Black
Air.
E ovviamente, coloro che mi hanno dato l’ispirazione per
questa fan fiction: Nipotah <3,
Figlia Ele, Figlia Rei, Lavi e Becca
e un’afosa giornata d’Agosto. A voi, tutto questo è dedicato <3
Vi voglio davvero bene :D
A
presto!
Nemeryal~
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