7- la clinica
Il taxi li lasciò a pochi metri dall'ingresso della
struttura medica vera e propria.
Si era immaginato un ospedale freddo, un luogo asettico,
invece era circondato dal verde di un prato molto vasto, una lunga strada
asfaltata violava la natura immobile di quel giardino, e conduceva all'edificio
principale per buona parte del percorso, solo per biforcarsi a metà.
La strada secondaria lo avrebbe portato esattamente alla
struttura per gli ospiti, gli chiarì Elisabeth, senza che l'uomo gli domandasse
nulla.
Entrando in clinica la signora Emily si fece portare la
sedia a rotelle.
Elisabeth rifiutò, sotto lo sguardo assorto e in parte
stupito del signor "Sullivan".
- Non ne ho bisogno, signora Parker-
- Ma Lizzie, tu-
- Le mie gambe funzionano ancora..- e prese lo straniero
sottobraccio, avanzando, cercando di sfuggire lo sguardo addolorato ed impotente
della sua infermiera adorata.
Si preoccupava troppo, per lei...non vedeva che stava
bene?
Quella espressione di sconforto sul volto dell'anziana
donna parve colpire molto il nuovo arrivato, che non tardò di comunicare le sue
perplessità al "boss".
- La tua infermiera è sempre così?-
- Così come?-
- Beh, sembra continuamente sul punto di scoppiare a
piangere-
- Oh, si...è sempre così...da quando sono ricoverata qui-
e gli lanciò un sorriso smorzato prima di condurlo lungo i
corridoi azzurrini dell'edificio.
L'atmosfera era tiepida, ma le persone sembravano adorare
la piccola paziente che camminava tra loro.
E quegli sguardi caldi...divenivano gelidi, colmi di
ripugnanza appena Elisabeth si voltava da un lato e l'uomo restava solo contro
quegli occhi, che lo analizzavano dalla testa ai piedi.
Perchè lo fissavano così?
Perchè poi quei volti sembravano schiarirsi incontrando il
sorriso della giovane Sullivan che li abbracciava tutti con cuore, presentando
l'uomo come suo padre?
Loro lo disprezzavano.
Non era Elisabeth che guardavano sputando giudizi
silenziosi.
Era lui che osservavano.
Era lui che giudicavano.
Non gli piacque quella sensazione.
Avrebbe potuto accettare la diffidenza.
A quella era abituato, lui straniero in quasi ogni
porto...ma il disprezzo, perchè quello sentiva su di sè ad ogni passo, gli era
incomprensibile e sgradito.
-Vieni papà...la mia stanza- e lo fece avanzare di qualche
passo, prima di entrare a sua volta.
Lo vide ammirare l'ambiente.
La camera era come tutte le altre: armadi, mobili, sedie
metalliche di un bianco- grigio talvolta deprimente ma ineccepibile nella sua
funzionalità; un'ampia finestra si affacciava sul piano terra della clinica, ed
era così vicino il mondo esterno che affacciandosi, la piccola Lizzie avrebbe
potuto respirare l'odore di quell' erba costretta a rimanere verde tutto
l'anno, immobile, senza poter crescere e sempre, comunque meravigliosamente
bella, incredibilmente viva.
Le pareti erano bianche, pallide, ma rivestite quasi
ovunque, in ogni angolo da foglietti di carta e tele dipinte.
Il signor Sullivan rimase immobile, in piedi, guardandosi
silenziosamente attorno.
Tanti paesaggi, soprattutto di mare e di colline, alberi
in fiore e cieli azzurri come dubitava esistessero...negò a sè stesso di essere
rimasto incantato da alcuni di essi, per la semplicità e la ricchezza che
comunque esprimevano attraverso tratti che vide via via migliorare, divenire
più netti e precisi di soggetto in soggetto.
Tra tutti quei soggetti, solo un ritratto, uno solamente.
Ritraeva una giovane donna, il suo volto dai lineamenti
longilinei ed indecifrabili, lunghi capelli biondi le incorniciavano il viso, e
due gemme d'ambra sembravano i suoi occhi, disegnati da qualcuno pieno di
talento, senza dubbio.
Lo prese in mano dalla scrivania, dove era poggiato
insieme agli altri schizzi e dei colori di vari tipi, e lo analizzò curioso.
- Bello...chi è questa donna?-
Elisabeth si stava spogliando del suo cappotto, riponendolo
insieme agli altri accessori indossati quella mattina, e non comprese la sua
domanda fin quando non vide l'oggetto del suo interesse.
Fu rapida: quasi glielo strappò di mano, portandoselo al
petto.
In quel momento, l'uomo la vide guardarlo come avrebbe
dovuto sin dal primo momento in cui si erano incrociati.
Come uno sconosciuto...
Un estraneo.
Ma fu solo un attimo.
Subito Elisabeth ripose il disegno sulla scrivania, sul
volto un'espressione mesta e solo un accenno del precedente sorriso.
- Questa è la mamma...-
****
Lizzie si sedette sul letto, togliendosi i mocassini e
cercando le pantofole più comode che si erano nascoste in fondo al letto.
L'uomo si piegò per cercarle al suo posto e nel prenderle
sfiorò con la mano una superficie solida e fredda.
- Cos'è? - domandò lui, tirandosi in piedi e scucendole
un' occhiata diffidente.
- Il mio tesoro...-
rispose lei enigmatica e subito indossò le pantofole, si
alzò e si affacciò circospetta alla porta.
Nessuno in vista.
- Bene...ora dobbiamo programmare la nostra giornata di
domani!-
ed Elisabeth si sedette sul letto con una lentezza che non
aveva mai visto in una ragazzina così giovane.
L'uomo si accomodò sulla sedia della scrivania, trovandosi
faccia a faccia con lei, a distanza di meno di due metri.
- Domani voglio andare in tanti posti...prenderemo un taxi
per tutta la giornata-
- Sarà costoso- inarcò il sopracciglio, lui, tornando a
chiedersi se davvero avesse tutti quei soldi a disposizione.
- Non importa...- esclamò la ragazzina con tono divertito,
- prima di tutto voglio andare al museo-
- Sarà noioso..-
- Per te, forse- ribattè lei, un sorrisetto malizioso
increspava le sue labbra sottili, - poi voglio andare al ristorante...-
- Già va meglio- concluse lui, tirando fuori dalla tasca
un pacchetto di sigarette.
- E poi a scuola-
- Ah, salti le lezioni, eh?- azzardò lui ironico, cercando
una posizione più comoda.
- Non vado a scuola da un anno, papà...studio da sola con
la signora Parker...- l'attenzione non più rivolta all'uomo, ma al sole pallido
che le sorrideva all'orizzonte, irridendola.
- Capisco...e come mai vuoi ritornarci?-
Elisabeth scosse il capo, sollevandolo poco dopo sul suo
interlocutore, un sorriso largo sul viso.
- C'è qualcuno che voglio rivedere...-
Lo straniero annuì appena, e portò la sigaretta alle
labbra, pronto ad accenderla.
- Non si può fumare qui...-
- Non mi vedrà nessuno-
rispose franco, infischiandosene dell'espressione seria
della bambina, che comunque non si mosse.
Aveva appena acceso e inalato la prima boccata di fumo,
quando una donna si fece avanti senza bussare alla porta in parte aperta.
Indossava un camice bianco e la sua espressione lo
rimproverava aspramente, più di qualunque parola urlata o sibilata.
Era imponente nella sua rigidità.
- In questa clinica è vietato fumare-