_______________Nota iniziale
Questa storia mi è venuta in mente leggendo "La vergine e lo zingaro" di
Lawrence, da cui ho preso il titolo. è un genere nuovo per me, una specie di
esperimento, e non è al livello delle bellissime storie che ho letto in questa
sezione su Notre Dame de Paris. All'inizio ero incerta se pubblicarla o meno, ma
poi ho pensato che se voglio migliorare non serve a nulla tenerla nel mio
computer.
è composta da due "libri", il prossimo devo solo ricontrollarlo... i
personaggi principali sono Clopin, il mio preferito, e un nuovo personaggio. Ho
iniziato a scriverla senza aver letto il libro, è perciò basata più che altro
sul musical e un po' sul cartone del Gobbo di Notre Dame. Alcune cose, dopo aver
letto il libro, le ho corrette, ma l'essenza, diciamo, di Clopin è molto
differente da quella del libro. Ah, Febo... ho deciso di chiamarlo così e non
con con il nome originale, perchè non riesco ad inserirlo in codice
html.
La vergine e lo zingaro
LIBRO PRIMO
Cap. I
Era mattino, all’incirca le dieci. Era una fresca giornata d’inverno del
febbraio dell’anno 1482, ma il tempo era bello e il sole splendeva tra le nuvole
candide, facendo sì che i suoi raggi si estendessero sui tetti di pietra e sulle
strade della città che già fervevano di attività.
Il fornaio era nel suo negozio da ore, ormai, e stava sfornando pagnotte
calde da aggiungere a quelle che aveva iniziato a preparare alle cinque del
mattino, mentre sua moglie, accanto a lui, impastava, il volto un po’ sporco di
farina e il grembiule bianco allacciato in vita.
La sarta stava facendo le ultime varianti all’abito da sposa per matrimonio
che si sarebbe tenuto la settimana seguente, e mentre cuciva delicate perline
sulla scollatura del vestito canterellava tra sé le laude del coro della
cattedrale.
Nella piazza, i mercanti avevano già da tempo sistemato le loro merci sui
loro banchetti di legno, e ora se ne stavano, seduti o in piedi, sotto quel telo
che li riparava, a seconda della necessità, dal sole o dalla pioggia, attendendo
che qualcuno si fermasse per acquistare qualcosa.
Regine Dubois era sveglia da un’ora, emozionata, e si era già abbigliata,
impaziente di uscire dalla casa degli zii in cui lei, sua madre e suo padre
avrebbero soggiornato nell’attesa di trovare una casa tutta per loro. Il
fratello di Regine, Simon, sarebbe arrivato solo la settimana seguente, o quella
successiva ancora, a seconda di quanto tempo ci avrebbe messo per vendere quella
che era stata la loro casetta nel paese in cui vivevano prima.
Erano giunti a Parigi al crepuscolo della notte precedente e durante il
tragitto Regine, intorpidita dal movimento cullante della carrozza, si era
assopita, perciò non era riuscita a vedere altro della città se non il portone
della casa degli zii e uno squarcio della strada in cui vivevano, a malapena
illuminato. Sua zia, Madeline, le aveva parlato molto spesso della sua città,
durante sue visite a casa Dubois, ma Regine non aveva mai potuto vederla con i
suoi occhi, avendo passato la vita intera nel paesino in cui era nata.
E ora non vedeva l’ora di poter uscire.
Si acconciò i lunghi capelli, castani e ricci, in due trecce che, passando
dai lati della testa, andavano ad incrociarsi tra loro dietro la nuca.
Dei colpi alla sua porta –Sei pronta, Regine?- domandò la voce di zia
Madeline, proveniente dall’esterno della stanza.
-Si, zia.- rispose allegramente Regine aprendo la porta. Indossava una
sottana bianca che arrivava a coprirle i piedi e una camicia azzurra che sua
madre le aveva cucito per il suo compleanno l’anno precedente. I suoi occhi
nocciola erano in tutto identici a quelli della zia, ma le due donne erano per
tutto il resto molto diverse tra loro: i lisci capelli di Madeline erano biondi,
quasi argentei, e in contrasto con la figura esile della nipote, non era molto
alta ma in compenso aveva forme abbastanza fiorenti da attirare diversi sguardi
maschili quando girava per il mercato.
Gabrielle, madre di Regine nonché sorella maggiore di Madeline, le attendeva
dinanzi alla porta. I suoi capelli, molto simili a quelli della figlia, erano
raccolti in uno chignon e quasi del tutto nascosti da un’infula bianca.
-Regine, non voglio che ti allontani troppo da noi, mentre siamo fuori.- si
raccomandò Gabrielle con aria rigorosa e un po’ ansiosa quando la figlia e la
sorella la raggiunsero –Parigi è una grande città e può essere pericolosa, per
chi non è abituato a una tale folla. Potresti perderti, o peggio.-
-Certo, mamma.- assentì docile Regine, ma in cuor suo pensava che la madre si
preoccupasse eccessivamente: aveva appena compiuto sedici anni, dopotutto, ormai
era entrata nell’età matura, e invece Gabrielle continuava a trattarla come se
fosse stata ancora una bambina.
Madeline raccomandò alla cameriera di far trovare il pranzo in tavola per
mezzogiorno e mezzo, dopodichè le tre donne uscirono, Gabrielle e Madeline a
capo, l’una accanto all’altra, e Regine un po’ dietro, tra le due signore.
Regine non potè quasi credere ai suoi occhi: le costruzioni erano grandi il
doppio di quelle che aveva visto fino a quel momento, o almeno questa fu
l’impressione che ebbe mentre giravano per le strade di pietra levigata.
E le persone, poi! Non aveva mai visto tanta gente tutta insieme, neanche
quando nel loro paesino era giorno di mercato! Erano soprattutto gruppi di tre o
più donne, alcune con i riottosi bambini per mano, altre, più giovani, che si
guardavano attorno sorridendo, forse per incontrare lo sguardo dell’uomo di cui
si erano infatuate, forse per cercare la stoffa dell’abito da indossare a chissà
che celebrazione. Comitive di giovinetti in calzoni infangati correvano qua e là
giocando a nascondino o ad acchiapparello, e gruppi di ragazzi più grandi o di
uomini stavano seduti davanti alle taverne o girovagavano osservando le ragazze
che passavano. Le guardie, le fedeli spade al fianco, giravano tra la calca, da
sole o in gruppetti di tre, controllando la situazione e parlando tra loro di
chissà cosa, forse di lavoro, sicurezza cittadina, oppure di donne conquistate e
tafferugli vinti.
Era la gente, in effetti, più che la magnificenza della città, ad attirare
l’attenzione di Regine, almeno finché non giunsero a Notre Dame. Lì, la ragazza
si perdette per lunghi istanti ad osservare la splendida vetrata, i demoniaci
gargoyle, i magnifici archi…
-Lassù vive il campanaro di Notre Dame.- rivelò zia Madeline, notando lo
sguardo luccicante di Regine e additando ciò che si riusciva ad intravedere
delle imponenti campane –Io l’ho visto, la scorsa settimana, durante la Festa
dei Folli… un essere ripugnante, si è spinto tra di noi, ed è stato incoronato
Papa dei Folli… e a ragione, oserei dire.- per un secondo, a Regine parve di
scorgere un’ombra muoversi, lassù in alto, riflessa nell’angolo di una delle
gigantesche campane.
Giunsero al mercato, e Regine seguì Madeline e Gabrielle verso un banco di
tessuti.
Di solito Regine si divertiva a osservare le stoffe, immaginando quali abiti
lei e la madre avrebbero potuto realizzare con ognuna di esse, ma quel giorno
non si unì alla madre e alla zia, che avevano iniziato a discorrere con quella
che era probabilmente un’amica di Madeline. Quella città aveva un ché di magico,
e Regine continuò a guardarsi attorno mentre le signore al banco discutevano
sulla qualità di una stoffa giunta dall’Italia, confrontandola con una delle
nuove stoffe inglesi di cui si sentiva tanto parlare.
Alle orecchie di Regine giunse una musica che la spinse a voltarsi. Un uomo,
una donna e una capretta stavano suonando, poco lontano, in un angolo tra la
piazza e un buio violetto secondario. Avevano la pelle di una tonalità
differente rispetto a quella a cui Regine era abituata, ed erano a piedi scalzi.
Regine, ammaliata dalla musica, si avvicinò, senza che le sue accompagnatrici se
ne accorgessero, e notò che stranamente nessuno si fermava ad ascoltare quelle
persone, cosa che al contrario lei fece.
La donna aveva lunghi capelli neri e piroettava, agitando un tamburello
colorato, mentre la capretta le saltellava tra le gambe senza mai intralciarla.
La donna ballava liberamente, senza inibizioni: anche a Regine sarebbe piaciuto
danzare in quel modo.
Ma Regine non diede loro che una breve occhiata, e il suo sguardo si posò
sull’uomo. Doveva avere all’incirca venticinque anni. I suoi capelli, neri,
erano lunghi fino alle spalle e non aveva né barba né baffi, anche se dava
l’impressione di non essersi sbarbato, perché se ne poteva notare un accenno
sulla mascella. Indossava una maglia un po’ troppo larga per lui, blu notte, e i
pantaloni bianchi, sdruciti in alcuni punti, sembrava fossero stati strappati
all’altezza delle ginocchia. Era magro, ma non sembrava debole: l’impressione
che Regine ebbe fu invece quella di forza unita a una grande agilità.
All’orecchio sinistro, l’uomo portava due orecchini, uno accanto all’altro, due
semplici cerchietti dorati, molto piccoli. Suonava due piccoli tamburi, dai lati
ornati da simboli colorati, che teneva a tracolla e, percuotendoli
sapientemente, si muoveva a ritmo, sul posto.
L’uomo alzò lo sguardo dal suo strumento e incontrò gli occhi di
Regine.
La ragazza percepì una strana sensazione, un tremore nonostante il
sole riscaldasse piacevolmente l’aria, non appena i suoi occhi entrarono in
contatto con quelli dell’uomo, così neri che distinguere l’iride era pressoché
impossibile.
L’uomo le rivolse un sorriso. Un sorriso orgoglioso, freddo, ma che a Regine
parve sincero e intrigante, le parve regale nonostante fosse un uomo scalzo e
vestito in modo stravagante a regalarglielo, e in qualche modo magnifico.
-Ti avevo detto di non allontanarti, che spavento tremendo mi hai fatto
prendere!- esalò Gabrielle comparendo, seguita da un’altrettanto agitata
Madeline, al fianco di Regine, che non scostò gli occhi dall’uomo, il quale
tuttavia aveva abbassato lo sguardo sullo strumento non appena le due donne
erano arrivate.
-Desideravo solamente ascoltare la musica…- si giustificò Regine, ma la zia e
la madre la sospinsero via –Non devi avvicinarti a questa gente, Regine!- la
redarguì Gabrielle –Sono zingari, rubano, si impossessano del candore delle
vergini e bevono il sangue dei bambini!-
Mentre si allontanavano, Regine indirizzò un ultimo sguardo allo zingaro, che
di nuovo le sorrise nello stesso modo di poco prima, rivolgendole stavolta anche
un cenno del capo, come un lieve inchino.
Regine si voltò decisa, o almeno questo era il suo intento: fin da piccola,
benché nel suo paesino di zingari non ce ne fossero mai stati, la madre le aveva
raccomandato di stare lontana da quella gente, e non sarebbe certo stato il
sorriso di quell’uomo a farla venir meno alle promesse fatte a sua madre.
Capitolo II
-Buon appetito.- auspicò Regine in risposta all’identico augurio ricevuto dai
commensali prima di assaggiare un cucchiaio di minestra che la serva di
Madeline, il cui nome era Corinne, aveva preparato per la cena.
Sedevano tutti a tavola, dopo aver pregato. Regine, accanto alla madre, era
seduta ad uno dei due lati lunghi del tavolo rettangolare, e Madeline era di
fronte a loro. Ai due capi del tavolo, invece, sedevano i due uomini.
Da una parte Pierre Buvette, il coniuge di Madeline, un uomo panciuto con i
capelli chiari e il volto benevolo, o forse solamente sciocco. Più volte Regine
si era domandata cosa mai avesse spinto Madeline a sposare quell’uomo, e forse
troppo soventemente lei e sua madre si erano trovate a negare con poca
convinzione che il matrimonio fosse stato progettato dai genitori di Madeline e
Gabrielle per via dell’abbastanza ingente patrimonio di cui la famiglia Buvette
disponeva.
Dall’altra parte vi era Jean-Louise Dubois, padre di Regine e marito di
Gabrielle. In questo caso, il matrimonio era stata senza dubbio alcuno una
decisione dei genitori, infatti prima i due non si erano mai visti, ma Regine
sapeva che i suoi genitori si amavano, o almeno che con il tempo avevano
imparato a farlo. Jean-Louise era un uomo dall’aria severa, con i capelli
castani un po’ radi sulla nuca, gli occhi color del ghiaccio e la carnagione
così pallida che a volte, durante l’inverno, a Regine pareva grigia.
-Cosa farete domani, mentre io e Pierre incontreremo il suo parente, messer
Frollo?- domandò Jean-Louise alle donne della famiglia.
-Io andrò a trovare donna Antoniette… ti ricordi di lei, Madeline?- domandò
Gabrielle alla sorella.
-Oh, ma certo, la vedo spesso, la moglie di messer Loneant…- ricordò la donna
–Portale i miei saluti. E noi due, cosa potremmo fare, Regine?- domandò poi
rivolta alla nipote, che con aria un po’ assente mangiava distrattamente la sua
minestra.
-Non saprei…- rispose incerta la ragazza, non conoscendo ancora abbastanza
bene Parigi da poter proporre una qualsiasi idea.
-Forse ti andrebbe di tornare al mercato? Questa volta potremmo comprare
qualche stoffa e, nel pomeriggio, lavorare ad un bell’abito per te… ti servirà
qualcosa da indossare, se un gentiluomo deciderà di farti la corte ed invitarti
ad una qualche serata.- propose Madeline, suscitando l’immediata reazione di
Jean-Louise –Non mettere strane idee nella mente di mia figlia, Madeline.-
borbottò con aria austera –Se un uomo, che sia o non sia gentile, pretende di
stare solo con Regine, dovrà prima d’ogni cosa ottenere la mia
approvazione.-
-E quando un gentiluomo l’avrà ottenuta, non vorrai certo che Regine rinunci
a lui perché non dispone di un abito adeguato.- insistette la zia per poi
rivolgersi nuovamente alla nipote –Dunque, vorresti tornare al mercato,
Regine?-
-Oh, si, mi piacerebbe!- gradì Regine. In realtà, non aveva ancora mai
pensato al matrimonio. Ciò era piuttosto strano, visto che l’età da marito era
ormai prossima, ma tuttavia il pensiero di dividere la vita e il letto con un
uomo non l’aveva mai neanche sfiorata. Eppure, desiderava davvero andare al
mercato, il giorno seguente… il desiderio di un bell’abito elegante,
probabilmente, la spingeva ad accettare di buon grado la proposta della zia, ma
si affrettò ad aggiungere alla sua risposta –Se questo non ti contraria,
padre.-
-Puoi andare.- accordò infine l’uomo.
La mattina seguente, Regine si svegliò con una musica nella mente, che non
riusciva ad allontanare. Era una strana musica allegra, e ci volle qualche
minuto prima che Regine associasse tale musica che pareva le risuonasse nelle
orecchie a quella che il giorno precedente lo zingaro suonava ai suoi piccoli
tamburi: era senza dubbio la stessa. Si domandò se lo zingaro, la zingara e la
capretta fossero stati nuovamente al mercato, quel giorno. Non che desiderasse
rivederli, certo, ma era quella musica che bramava di ascoltare di nuovo, quella
musica differente da tutte quelle che Regine aveva mai ascoltato.
Uscirono dopo aver salutato Gabrielle, che sarebbe uscita un’ora dopo.
Madeline e Regine raggiunsero il mercato e subito si recarono al banco di
stoffe dove già erano state il giorno prima. Il mercato era affollato non meno
del giorno precedente, e a Regine parve che ci fossero addirittura più
banchetti.
-Cosa ti sembra di questa?- domandò Madeline mostrando alla nipote una stoffa
lilla e posandogliela addosso come a volerne osservare il contrasto con la pelle
–Questo colore ti dona, a mio parere.-
Tuttavia una stoffa diversa attirò lo sguardo della ragazza –Quella mi piace
molto…- disse sfiorando con un dito la morbida e leggera stoffa blu notte che
aveva scorto.
-Sei così giovane, non preferisci un colore più allegro?- le domandò
Madeline, ma poiché Regine continuava a osservare il tessuto domandò al mercante
–Quanto le devo per tutto il rotolo?-
-Oh, no, zia, non occorre, mia madre mi ha dato qualche soldo…- protestò
Regine, ma Madeline la interruppe –È il regalo che non ti ho fatto per il tuo
compleanno.-
-Allora, comperiamo almeno la stoffa che avevi scelto tu!-
-Non dire assurdità, non sono io che dovrò indossare l’abito, ma tu!- le fece
notare la zia poggiando le monete sulla mano tesa del mercante e ritirando poi
la stoffa –Piuttosto, dobbiamo separarci… devo comprare delle erbe di cui tuo
zio ha necessità, ma si vendono in una zona della città non adatta ad una
ragazzina… Io mi farò condurre da una guardia, ma preferirei comunque che tu non
venissi con me…-
-Oh, certo, come desideri…- annuì Regine.
-Allora, tra un’ora ci incontreremo davanti a Notre Dame, e torneremo a casa
insieme.-
Con questa decisione, le due donne si separarono. Regine si voltò verso
l’angolo della piazza a cui il giorno prima si era avvicinata facendo
preoccupare tanto sua madre. Tuttavia, in quell’angolo non vi era nessuno.
Scrollò le spalle, si voltò e iniziò a spostarsi tra le bancarelle, studiandone
brevemente le merci e soffermandosi un po’ più a lungo, in alcuni casi.
All’improvviso avvertì un guizzo colore familiare e, voltandosi, fu certa di
vedere la donna del giorno precedente, la zingara che danzava: riconobbe la sua
gonna, inoltre portava in braccio, sotto al mantello sdrucito che indossava
calato sul capo, la stessa capretta bianca che Regine ricordava.
Senza porsi la minima domanda sul motivo per cui lo facesse, Regine seguì la
donna con accortezza. Camminarono un po’ per la via principale, ma dopo un breve
tempo la zingara svoltò. Regine si bloccò all’imbocco della buia stradina che la
donna aveva deciso di percorrere, incerta: la madre era stata molto chiara, il
giorno prima, quella era gente pericolosa. E se l’avesse aggredita? Tuttavia
l’incertezza durò un secondo appena e, contro ogni sua abitudine, Regine lasciò
perdere le ansie e seguì la strada della zingara.
Al termine della suddetta stradina, Regine si trovò a muoversi in una piazza
che, pur non essendo delle stesse enormi dimensioni di quella in cui si trovava
la cattedrale, aveva comunque una grandezza considerevole. Abbastanza grande, in
ogni caso, da farle perdere le tracce della zingara.
Regine sentì una musica, ma capì immediatamente che non era la stessa del
giorno precedente. Ciononostante si voltò, e facendolo ne ebbe la conferma: a
suonare era infatti un uomo grasso e baffuto che, seduto a terra, percuoteva con
esuberanza un grande tamburo.
In una parte della piazza Regine notò tre tende. Una era arancione, l’altra
gialla e l’altra ancora celeste. Attorno a queste tende, nella piazza, si
muovevano numerose persone, e nella zona delle tende Regine non faticò ad
individuare alcuni zingari, che girovagavano o ballavano, scalzi. Non erano più
di cinque o sei, più due bambini che stavano per mano ad una di essi.
Regine si avvicinò alle tende, rimanendo però a quella che le parve una
distanza sicura, e si guardò attorno.
-Siete qui per conoscere il vostro avvenire?-
Regine si voltò, intimorita, sentendo una mano che si posava sulla sua
spalla, e si trovò davanti la donna che aveva seguito fin lì.
-Io… come avete detto?- domandò balbettando lievemente per la sorpresa.
-Vi ho chiesto se siete qui perché io vi sveli ciò che vi attende nel
futuro.- spiegò la zingara con un sorriso che a Regine parve benevolo.
-E in che modo potreste farlo?- si accigliò Regine.
-I nostri genitori ci hanno tramandato numerose conoscenze. Volete sapere se
la fortuna vi sarà accanto o mi avete seguita per un altro motivo?- insistette
la zingara. Si era tolta il mantello, e la scollatura della camiciola bianca
lasciava intravedere un medaglione dorato ornato da uno smeraldo.
Regine si domandò se l’avesse rubato ma, tra quel pensiero poco fiducioso e
la frase della donna, si trovò in imbarazzo, poiché in realtà non sapeva che
cosa l’aveva spinta a seguirla.
-Oh, si, sono qui per… conoscere il mio futuro, certo.-
-Seguitemi.- disse la zingara –Il mio nome è Esmeralda. O almeno, è così che
mi chiamano.- aggiunse per poi voltarsi ed avviarsi verso le tende. Regine la
seguì con passo incerto: sua madre non le aveva detto chiaramente di non fidarsi
degli zingari?
Raggiunsero la tenda arancione seguite dalla capretta bianca, che scorrazzava
allegramente strusciandosi alla gonna della padrona come avrebbe potuto fare un
gattino.
Esmeralda fece per entrare nella tenda, ma il velo che fungeva da porta fu
scostato dall’interno.
In quell’istante, lo zingaro che Regine aveva visto suonare il giorno
precedente comparve davanti a loro. Regine notò la sua maglia, e si accorse che
era esattamente dello stesso blu notte della stoffa che lei aveva tanto
insistito per comprare, poco prima, al mercato.
Gli occhi neri dello zingaro incontrarono quelli di Regine, dopodichè l’uomo
si voltò verso Esmeralda e domandò –Non dovresti essere con Carmen?-
Quella semplice frase fece trattenere istintivamente il respiro a Regine. Non
per le parole che lo zingaro pronunciò che, in sé, non avevano nulla di
inconsueto, ma per la voce dell’uomo. Profonda, un po’ roca, con una leggera
inclinazione che faceva comprendere che era uno straniero… ancora una volta,
Regine avvertì un brivido che si sforzò di ignorare.
-Questa fanciulla desidera conoscere il suo avvenire.- spiegò Esmeralda.
Gli occhi dello zingaro si posarono di nuovo su Regine, e parvero studiarle
la mente e l’animo, anziché il corpo –Posso farlo io.- disse infine.
-Tu?- domandò Esmeralda, lievemente sorpresa –Ne sei certo, Clopin?-
Clopin. Clopin. Quel nome risuonò nella mente di Regine come se
l’avesse udito già mille e mille volte, e pronunciato altrettante.
-Certo. Tu và da Carmen.- la incoraggiò Clopin.
Esmeralda si voltò verso Regine –Ti lascio alle sue mani… anzi, lascio a
lui le tue mani.- disse con un sorriso, per poi avviarsi rapidamente verso
la zingara con i due bambini che Regine aveva notato prima.
-Vieni.- Clopin scostò il lembo della tenda e Regine vi entrò, tenendo lo
sguardo basso ma avvertendo comunque quello di lui che seguiva i suoi
movimenti.
-In che modo potete vedere il mio futuro?- domandò la ragazza guardandosi
attorno. L’interno della tenda era caldo e soffocante, opprimente. Regine
respirava a fatica, ma si impose di non darlo a vedere. La luce filtrava
rossiccia attraverso il tessuto arancione, illuminando un tavolo di legno e due
sedie sulle quali erano posti due cuscini scarlatti bordati d’oro.
-Leggendoti la mano.- rispose Clopin, e intanto accese con una candela alcuni
bastoncini che emanarono immediatamente un odore floreale che aiutò molto Regine
a riprendere a respirare normalmente. La ragazza si rese conto che lo zingaro
non le dava del voi, come invece faceva Esmeralda, ma che le parlava come se
fossero familiari. La cosa la contrariò per un secondo, ma le bastò osservare
Clopin per qualche attimo per dimenticare il fatto e dedicarsi alla sua
curiosità –Come si può leggere una mano?- domandò –Non vi sono parole, né
lettere.-
Clopin rise, e anche la sua risata incuriosì Regine: sembrava sinceramente
divertito, si sentì come presa in giro da lui, ma tuttavia non offesa in alcun
modo -Vedi, è questo il motivo per cui noi siamo in grado di conoscere il futuro
prima che esso divenga presente, e voi no.- commentò.
-Cosa intendete?- domandò Regine.
-Siete convinti che solo ciò che già sapete sia reale, e non volete
convincervi che non è così. Nel palmo di una mano sono scritte molte cose, ma il
linguaggio è differente da quello a cui la gente è abituata.- spiegò Clopin
chinandosi per accendere un altro bastoncino.
Regine si stupì: quando sentiva parlare degli zingari aveva sempre pensato
fossero persone rozze ed ignoranti, ma le parole di quell’uomo erano sensate e
lui le usava sapientemente –E voi sapete comprenderlo, questo linguaggio?-
domandò affascinata.
-Certo, anche se non sempre le scritture sono chiare… siediti, e resta
rilassata.-
Regine obbedì. Si sedette su una delle due sedie dai cuscini scarlatti, si
sistemò la gonna verde pallido con un gesto della mano e attese. Clopin fece per
prendere posto di fronte a lei, ma all’ultimo istante parve cambiare idea.
Sollevò la sedia e, portandola allo stesso lato del tavolo a cui sedeva Regine,
le si sedette accanto.
La ragazza lo guardò incuriosita e lui disse –Dammi la tua mano sinistra.-
Regine obbedì e gli porse la mano. Clopin la prese nella sua con un gesto fluido
e gliela voltò con il palmo rivolto verso l’alto. Tenne la mano della ragazza
poggiata sulla sua mentre, con l’indice dell’altra mano, sfiorava il palmo di
lei, tracciando le linee che l’attraversavano con lentezza, nello stesso modo in
cui si muove il dito sotto le lettere di un manoscritto.
Per Regine, fu impossibile evitare di arrossire seguendo i movimenti dello
zingaro.
-Interessante…- commentò Clopin dopo un paio di minuti. Era rimasto in
silenzio, in quel breve tempo, e la sua stravagante voce, così ruvida e pura,
fece nuovamente tremare Regine.
-Cosa c’è di interessante?- domandò Regine, esitante: voleva davvero
saperlo?
-La tua vita è trascorsa sempre regolata da limiti precisi, che non hai mai
immaginato di superare. Ma il tuo animo, Regine…-
-Come sapete il mio nome?- lo interruppe Regine, sorpresa e forse un poco
spaventata che lo zingaro l’avesse indovinato… o davvero l’aveva letto sulla sua
mano, insieme alle altre cose che le stava dicendo?
Clopin le rivolse un sorriso indecifrabile e rispose –Come potrei non
saperlo?-
In quel momento, Regine non desiderò altro se non che lui continuasse a
parlare, per poter nuovamente ascoltare quella voce calda e dura. Dopo qualche
altro attimo di silenzio, Clopin la esaudì –Come dicevo, la tua anima non
rispecchia la vita che hai condotto, e che condurrai ancora per qualche tempo.
Ma non si può rinchiudere il mare dietro a sbarre di regolamenti, e il tuo cuore
è come il mare. Non è tardi per liberare la tua vera essenza. Qualcosa
cambierà.-
-In che modo?- domandò Regine un poco ansiosa.
-Qualcosa, un fatto particolare, ti aiuterà a comprendere ciò che è
importante.- spiegò l’uomo, ma poi si incupì –Non sarà un lieto evento,
tuttavia.- disse –Non è chiaro, questo punto, ma vedo del sangue infangare la
tua vita, Regine.-
-Sangue, dite?- domandò spaventata, nonostante ancora non avesse deciso se
credere o meno alle predizioni dell’uomo.
-Sangue, si… ma dopo, la tua vita continuerà, e ora è riunita con la linea
dell’anima… avrai ritrovato te stessa, e questa è sempre cosa di cui essere
lieti.- la tranquillizzò lo zingaro, alzandosi. Segno che aveva terminato. Le
offrì una mano per aiutarla ad alzarsi a sua volta, ma lei preferì fare da
sola.
-Quanto vi devo?- domandò frugando nella scarsella in cerca di monete.
-Non sei obbligata a lasciare del denaro, se vuoi farlo lascia quanto reputi
giusto.- rispose Clopin. Regine gli diede una manciata di monete che lo zingaro
osservò soddisfatto prima di lasciarle cadere in un sacchetto di pelle.
-Questo è l’unico modo di leggere il futuro?- domandò Regine, in parte
incuriosita e in parte semplicemente desiderosa di continuare ad ascoltare la
voce dello zingaro.
-Questo è il modo che la mia famiglia conosce, ciò che mi è stato
tramandato.- spiegò Clopin. Di solito era restio a parlare di sé, o di ciò che
faceva per vivere, poiché spesso le sue attività non erano di elevata moralità
e, soprattutto, contrarie alla legge, ma tuttavia il futuro di quella ragazza,
chissà perché, lo spingeva a parlare con lei –Altre famiglie conoscono altri
metodi, e se li tramandano di generazione in generazione. Sfere di cristallo,
foglie di tè, carte e molto altro.-
-Perciò, voi vivete sapendo sempre ciò che vi attende.-
-Non è affatto così semplice, Regine.-
Lei avvertì una strana sensazione nel sentire il suo nome pronunciato da
quella voce. La prima volta che lo zingaro l’aveva chiamata "Regine" non ci
aveva fatto caso, troppo sbalordita dal fatto che lui lo conoscesse, ma ora se
ne rendeva conto, ed ebbe come la sensazione che l’uomo avesse quello che in un
certo qual modo poteva essere definito un potere ipnotico su di lei.
-Perché non lo è?-
-Non posso leggere la mia stessa mano, né vedere il mio futuro in una
sfera.-
-Perché no?-
Clopin scoppiò a ridere davanti alla curiosità di quella ragazza –Non vedrei
con chiarezza. La mente degli uomini è estremamente potente, ciò che desidero
che accada offuscherebbe la realtà della mia lettura. Capisci ciò che voglio
dire?-
-Si, credo di si…- rispose Regine avvertendo un moto d’ammirazione verso
quell’uomo, che parlava in modo più saggio che tutti coloro che dall’alto delle
loro onorificenze chiamavano lui e il suo popolo "mendicanti
analfabeti".
Clopin osservò la ragazza. Doveva avere quindici, forse sedici anni, e pareva
di lignaggio nobile, o comunque agiato. Aveva udito il giorno prima quella che
doveva essere sua madre proibirle di avvicinare gli zingari, e invece lei era
lì… cosa l’aveva spinta fino a loro? Il fato? Era stato il destino? Clopin
voleva scoprirlo, ed era per questo che si era offerto si essere lui a leggerle
la mano, nonostante di solito evitasse di farlo. Era infatti già sospettato di
stregoneria, e una profezia negativa troppo reale avrebbe potuto condurlo al
patibolo con estrema semplicità.
D’improvviso, le riflessioni di Clopin furono interrotte dal vivido ricordo
di sua madre. Una settimana prima che la donna morisse, quando lui aveva otto
anni, gli aveva affidato un medaglione.
Dona questo gioiello a colei la cui via è segnata dal sangue…grazie ad
esso, troverà la sua strada…
-Devo andare, ora… mia zia mi starà aspettando…- disse Regine, un po’
imbarazzata dal silenzio che era d’improvviso calato. Fece per andarsene, ma
Clopin la afferrò per un braccio –Aspetta!- esclamò. Sorpresa, lei si voltò
nuovamente verso di lui, che iniziò a frugare nella scarsella che portava alla
cintura.
Ne estrasse una sottile catenina d’oro, dalla quale pendeva un ciondolo di
forma ovale percorso da strisce rosso sangue che andavano ad unirsi a un
minuscolo rubino posto all’esatto centro del pendaglio. Una seconda pietra,
uguale ma ancora più piccola, era posta verso il fondo del ciondolo.
-Tieni.- disse Clopin e, prendendo la mano di Regine, glielo consegnò.
-Ma… cos’è?- domandò Regine esaminando affascinata il ciondolo.
-Appartenne a mia madre.- spiegò Clopin –Ma sei tu che devi averlo… ti
aiuterà a superare la macchia di sangue che sporca la tua via. Segui la strada
che ti indicherà.-
-Io… va bene… quanto vi devo per questo?- si informò frugando già nella
saccoccia.
-Così mi offendi.- la fermò Clopin –Non potrei chiederti soldi per questo, è
un privilegio che mi è concesso poter proteggere il tuo futuro, per quanto è in
mio potere.- prese il gioiello di mano a Regine e, andando dietro di lei, la
aiutò ad indossarlo mentre la ragazza, le guance tinte di rosso, liberava il
collo dai ricci sfuggiti all’acconciatura.
-Ora… sarà meglio che vada…- disse Regine, lasciando ricadere i capelli sulle
spalle.
-Certo.- annuì Clopin, e la osservò allontanarsi ed uscire dalla tenda mentre
una vaga quanto insensata sensazione di solitudine lo avvolgeva.
Regine uscì dalla tenda con il cuore che batteva più rapidamente del solito,
ma la sensazione divenne ansia e preoccupazione non appena vide che il sole era
ormai dritto sopra di lei: era senza dubbio passata ben più di un’ora da quando
aveva lasciato Madeline.
Corse per tutta la strada e le mancò il fiato quando, giunta alla cattedrale,
i suoi occhi videro Madeline in lacrime, con suo padre e sua madre accanto.
Non appena il padre la vide, l’aria preoccupata del suo volto si trasformò in
rabbia furibonda.
Capitolo III
Passarono cinque giorni prima che il padre desse nuovamente a Regine il
permesso di mettere piede fuori dalla casa degli zii. Nel secondo giorno, il
fratello di Regine, Simon, giunse con la moglie a Parigi. Avevano venduto la
casa prima di quanto pensassero.
Simon aveva ventisette anni. I suoi capelli erano castani e mossi, come
quelli del resto della famiglia, d’altronde. Il suo fisico era muscoloso,
atletico, e la pelle era pallida, ma in modo diverso dal grigiore che tingeva
quella del padre: era luminosa, pareva quasi eterea.
La moglie di Simon aveva ventuno anni e il suo nome era Charlotte. I capelli
biondi le arrivavano alla vita, ma da quando era maritata li teneva pudicamente
coperti con una cuffietta abbinata al colore dell’abito indossato. Aveva la
pelle molto chiara e le guance rosee. Una bella ragazza, ed era innamorata di
Simon. Lui, tuttavia, non lo era di lei, Regine lo sapeva bene: il loro
matrimonio era stato voluto dalle loro famiglie, e Regine aveva un rapporto
abbastanza stretto con suo fratello da aver ascoltato le sue confessioni
segrete, che le avevano permesso senza dubbi di capire che lui non avrebbe mai
scelto per sé una ragazza come Charlotte, talmente delicata, religiosa e pudica
che le prime volte Regine aveva creduto fosse una giovane monaca.
-Non mi hanno voluto dire il motivo del tuo castigo.- disse Simon la seconda
sera che passava a Parigi –Cos’avrai mai fatto di tanto grave?-
-Dovevo incontrare zia Madeline, e sono arrivata con più di mezz’ora di
ritardo.- ammise Regine.
-Si saranno preoccupati molto…- commentò Simon –E cosa stavi facendo, per
attardarti così tanto.-
-Giravo.- mentì Regine, senza saperne il motivo –Ero rapita dalla bellezza
della città, mi sarebbe piaciuto… poterla vedere tutta.-
-Vedrai che tra poco papà ti perdonerà… sei la sua unica figlia femmina,
dopotutto, sei la sua favorita.- sorrise Simon.
Dei colpi sulla porta interruppero la loro conversazione, e Charlotte aprì la
porta della stanza fermandosi sulla soglia –Simon, tua zia ci ha preparato un
giaciglio nell’alloggio della servitù.- annunciò la ragazza. Regine ne fu
infastidita, un po’ dall’interruzione e un po’ dal tono della moglie di suo
fratello, allo stesso tempo timido e grato ma anche sdegnato dal dover dormire
negli alloggi della servitù. Nemmeno a Regine, in effetti, andava troppo a genio
Charlotte. Inizialmente, credeva di essere solo gelosa del fratello. Ma con il
tempo aveva compreso che, se fosse realmente stata gelosa, non avrebbe certo
ammesso tanto rapidamente di esserlo. Era passato altro tempo e, il giorno del
matrimonio, aveva concluso che il vero problema era che quella donna non era,
semplicemente, adatta a Simon, e invece lui era costretto a sposarla. E quando
aveva compreso ciò, un altro fatto era divenuto chiaro nella sua mente: non
voleva che ciò accadesse anche a lei. Avrebbe, un giorno, conosciuto un uomo di
cui si sarebbe innamorata, e sarebbe stato l’uomo che i suoi genitori avrebbero
scelto per lei. Così sarebbe stata felice e avrebbe seguito il volere dei
genitori. Non aveva ancora compreso che il cuore troppo spesso non segue i
progetti che il suo possessore fa per lui. Anzi, è giusto dire che, più che
essere l’uomo a possedere il cuore, è il cuore a possedere l’uomo, o la
donna.
Il quarto giorno, durante il pranzo, Gabrielle e Madeline annunciarono che
l’amica che Gabrielle era andata a trovare pochi giorni prima, Antoniette
Loneant, sarebbe andata trovarli. Jean-Louise parve molto felice della notizia,
ma Regine incontrò lo sguardo di Simon e notò qualcosa di strano: sembrava
seccato, o forse solamente preoccupato per qualcosa.
Antoniette arrivò a casa loro alle quattro del pomeriggio. Chissà per quale
motivo, Regine aveva dato per scontato che la donna e suo marito, messer
Loneant, non avessero figli. Invece scoprì in quel momento che ne avevano due,
che erano andati a trovarli insieme alla madre. Uno dei due figli aveva dieci
anni, e il suo nome era Gerard. L’altro figlio aveva invece ventisei anni, la
barba perfettamente rasata e un fisico molto simile a quello di Simon, robusto,
dalle spalle larghe e i muscoli ben allenati. Il suo nome era Enrique.
Jean-Louise presentò personalmente Enrique a Regine, tessendo all’uno le lodi
dell’altra e viceversa. Fu così che Regine venne a scoprire che il ragazzo era
una delle guardie della città, e che lavorava sotto un certo capitano Febo, uno
dei più attivi di Parigi, a quanto dissero gli uomini.
-Fin da quando era un bambino…- raccontò donna Antoniette, con aria
orgogliosa -…Enrique ha sempre detto di voler combattere per proteggere la
serenità della nostra città.-
-E chi la minaccia?- domandò Regine, un po’ ingenuamente ma allo stesso tempo
con un lieve sarcasmo per il tono pomposo che la donna usava.
-Ladri, tagliaborse, mendicanti e gitani… quando non sono tutti racchiusi
nella stessa persona.- rispose la signora con uno sguardo compassionevole
rivolto a Regine –Certo, non sarete abituata a questi problemi, venendo da un
paesotto di ingenui campagnoli…-
Regine avvertì immediatamente l’impulso di ribattere, per difendere il suo
"paesotto di ingenui campagnoli" e sé stessa, ma fortunatamente Enrique bloccò
le sue parole –Purtroppo è un problema sempre crescente.- disse –Certamente ci
aiuterebbe trovare la Corte dei Miracoli, e magari scovare quel loro re…-
-Hanno un re?- domandò Regine, ed Enrique sembrò divertito anziché scocciato
da quell’interruzione –E cos’è la Corte dei… Miracoli, avete detto?-
L’uomo fu lieto di risponderle –Hanno un re, si, ma ancora non siamo riusciti
a comprendere chi sia…- ammise –Mentre la Corte dei Miracoli, avete detto
giusto, è il luogo in cui si rifugiano… solo loro sanno dov’è situata, e pare
che coloro che vi capitano per caso siano perduti… il re dei gitani li manda
alla forca, così dicono. Anche per questo devono essere eliminati, capite?-
Regine si accigliò per un secondo: trovava terribile che gli zingari
uccidessero coloro che entravano nella loro Corte, e non riusciva a figurarsi il
gitano conosciuto pochi giorni prima cooperare a un simile atto -Ma è
terribile.- commentò –E voi, combattete contro di loro? Siete mai stato ferito?-
domandò, incuriosita dal mestiere del soldato: come si poteva passare la vita in
un susseguirsi di battaglie e sangue?
-Enrique è un uomo onesto e valoroso, non trovi?- domandò Gabrielle alla
figlia non appena gli ospiti se ne furono andati.
-Credo si possa definire tale.- concordò Regine, anche se qualcosa la
turbava, in quell’uomo. Le pareva che con troppa leggerezza parlasse di
eliminare zingari e mendicanti, e per qualche motivo questo le dava un senso di
inquietudine.
Il giorno seguente, Antoniette tornò nuovamente a trovarle. Stavolta c’era
solo Enrique con lei, Gerard era rimasto con la governante. Il pomeriggio passò
come quello precedente, e le conversazioni furono incentrate principalmente sul
coraggio di Enrique in chissà che situazione rocambolesca e sulla bravura di
Regine nel cucire e nel cucinare. Regine si sorprese di ciò, ma evitò di fare
alcun commento in proposito, anche quando la sera stessa Madeline le domandò,
esattamente come aveva fatto sua madre il giorno precendente, cosa pensasse
dell’uomo.
Il giorno seguente, finalmente, Jean-Louise, felice del fatto che Simon
avesse trovato un lavoro come guardia e per qualche altro motivo che però Regine
non conosceva, le annunciò che poteva uscire. Jean-Louise, Pierre e Simon,
tuttavia, erano impegnati, quel pomeriggio, e Gabrielle e Madeline sarebbero
andate a casa di Antoniette. Proposero a Regine di accompagnarle, anche se
Enrique quel pomeriggio aveva il turno di guardia, ma lei rifiutò l’invito
spiegando che, dopo tutti quei giorni, desiderava restare un po’ all’aria
aperta.
Così, alle cinque, uscì di casa da sola. Aveva preso per un istante in
considerazione l’idea di farsi accompagnare da Charlotte, ma l’istante era
passato e l’idea era stata scartata rapidamente. Non era una bella giornata.
Aveva da poco finito di piovere e minacciava di tornare a farlo presto, a quanto
si poteva comprendere dai nuvoloni neri che ricoprivano il cielo. Non era giorno
di mercato. Quelle due condizioni facevano sì che in strada non ci fosse la gran
folla che Regine aveva ammirato tanto nelle sue prime due uscite in quella
città.
Girovagò, guardandosi attorno come se fosse stata alla ricerca di qualcosa.
Non sapeva cosa fosse, o forse fingeva di non saperlo e in fondo sapeva di
desiderare ancora di ascoltare la musica degli zingari, e magari veder ballare
quella ragazza… la invidiava, in un certo senso, perché anche Regine amava
ballare, ma sapeva che quando era lei a muoversi seguendo la musica non
trasmetteva quel senso di libertà che invece la Esmeralda esprimeva. Forse
perché quella gitana poteva dirsi davvero libera, nonostante la minaccia del
patibolo fosse sempre ad un passo da lei e dai suoi compagni. Regine, invece,
aveva una vita tutto sommato tranquilla, ma aveva anche delle regole, e non
poteva far altro che rispettarle.
Le tornò in mente ciò che Clopin le aveva detto. La sua anima rifiutava in
segreto quei regolamenti, e lei avrebbe presto fatto altrettanto. Non vedeva
l’ora che ciò accadesse, da una parte, soprattutto perché il comportamento dei
genitori riguardo ad Enrique le dava una strana sensazione, una sorta di timore.
Ma d’altra parte temeva che quel momento giungesse, per via della macchia di
sangue di cui lo zingaro le aveva parlato, e anche per il modo in cui la sua
vita sarebbe cambiata.
Immersa nei suoi pensieri, Regine si risvegliò d’improvviso nel sentire
qualcosa di strano. Era il rumore di un passo che rompeva il silenzio. Ma non
era tanto il rumore a coglierla impreparata, quanto piuttosto quel silenzio che
non aveva avvertito prima. Si rese conto di essersi attardata davvero troppo,
spersa tra quei suoi pensieri: il sole era ormai tramontato del tutto e la sua
compagna notturna già faceva capolino dai tetti.
Regine si guardò attorno, ma non c’era anima viva. Quello che aveva sentito
era probabilmente un gatto, che lei avrebbe dovuto ringraziare, visto che
l’aveva fatta tornare in sé e, forse, se fosse tornata immediatamente a casa suo
padre non si sarebbe infuriato nuovamente. Fece ancora qualche passo, poi un
rumore giunse nuovamente alle sue orecchie. Sollevò da terra il bordo della
gonna marrone e accelerò il passo, sentendosi improvvisamente nervosa.
-Cosa fate in giro tutta sola, a quest’ora tarda?-
Regine si immobilizzò, il suo corpo pietrificato dal terrore. L’uomo che
aveva pronunciato quella frase era comparso davanti a lei, bloccandole l’uscita
dalla stradina in cui si trovava. Lei si voltò, ma anche dietro di lei vi era un
uomo che la bloccava, e che disse –Dovreste essere a casa, è piuttosto tardi.-
Aveva una barba castana e il suo capo era calvo.
-Non si sa mai che persone potreste incontrare.- l’altro uomo, i cui capelli
biondi cadevano fino alle spalle, si avvicinò a lei e fece per allungare una
mano nella sua direzione. Regine d’impulso balzò indietro, e ciò permise
all’altro uomo di afferrarla per le braccia e attirarla brutalmente verso di sé.
-Invece siete stata fortunata e avete trovato due gentiluomini…- commentò il
biondo passandole senza delicatezza la mano sul volto –Può darsi che, se sarete
gentile, non vi uccideremo, dopo.- la mano, spostata sul fianco della ragazza,
fece per slacciare il nastro che le legava la gonna. Senza riflettere, Regine
iniziò a scalciare e tirare per cercare di sottrarsi ai due –Lasciatemi andare,
lasciatemi!- gridò con quanto fiato aveva in corpo.
Un dolore acuto alla spalla sinistra la zittì, e bloccandosi si rese conto
che l’uomo calvo aveva estratto un coltello e, dopo averle provocato una ferita
alla spalla, glielo teneva ora puntato al collo.
-Capite, è nel vostro interesse lasciarci fare.- disse il biondo
riavvicinandosi a lei e poggiandole nuovamente la mano sul fianco.
Il terrore si impossessò di lei, raggelandole il sangue e il respiro. La mano
dell’uomo le toccò la pelle fredda sotto la camiciola, ma l’impulso di muoversi
fu bloccato dal freddo metallo della lama premuto contro la gola.
-Mi diverto un po’ io, poi toccherà al mio compare. Credete di farcela,
madamigella?- ghignò il biondo, e le sollevò la gonna con prepotenza.
Un tonfo sordo, e Regine sentì la stretta dell’uomo calvo cedere e la sua
figura imponente, dietro di lei, cadde a terra. Prima che Regine avesse il tempo
di comprendere, il biondo le afferrò il braccio gettandola rudemente contro il
muro. Regine vi sbatté contro, scivolò e un dolore alla caviglia la fece
crollare a terra. Solo allora fu in grado di alzare lo sguardo.
L’uomo biondo era già in netto svantaggio. Clopin lo colpiva con il bastone
di cui era armato, senza dargli tregua, e l’uomo cercava di proteggersi con le
braccia. Lo zingaro lo bloccò rapidamente contro il muro, ma in quel momento il
calvo si rialzò e lo attaccò, armato del suo pugnale. Clopin si voltò
abbassandosi con agilità per schivare il colpo, e con una bastonata colpì il suo
assalitore nello stomaco, mandandolo a terra. Si voltò verso il biondo, ma era
ormai fuggito, e il calvo si affrettò a fare lo stesso, piegato in due dal
dolore. Lo zingaro allora si voltò verso Regine, ancora seduta a terra, e le si
avvicinò con rapidità. La gonna della ragazza era sporca e strappata in più
punti, i capelli stavano crollando dall’acconciatura. Si teneva una mano stretta
sulla caviglia e la macchia di sangue sulla spalla si andava allargando,
assumendo strane forme. Teneva gli occhi sbarrati, asciutti da qualsiasi
lacrima, e respirava a fatica.
-Vieni qui…- sussurrò Clopin, e delicatamente la sollevò prendendola in
braccio. Camminarono per qualche tempo, superarono Pont Saint-Michel e Regine si
trovò in breve tempo seduta sulle lenzuola rosse di un letto in una strana
stanzetta illuminata da una candela in cui non vi era altro che il letto su cui
era seduta. Clopin le dava le spalle, e stava preparando qualcosa in una ciotola
di legno usando il contenuto di alcune boccette che aveva estratto dalla
scarsella.
Entrambi erano in silenzio.
Clopin si voltò verso di lei e si avvicinò, sedendosi di fronte alla ragazza,
sul letto. Nella ciotola che teneva in mano Regine intravide una sostanza
trasparente e piuttosto compatta.
-Non sarà piacevole.- la avvertì Clopin, la cui voce potente era ridotta a un
sussurro –Ma è necessario, o la ferita si infetterà.-
Regine annuì, ma nel farlo i suoi occhi si poggiarono sul braccio dell’uomo e
notò una grande piaga che dal gomito andava al polso, e che aveva un aspetto non
molto sano. Strano che non l’avesse notata nei loro precedenti incontri… ma se
quella pozione aveva un effetto simile, Regine si disse che avrebbe di gran
lunga preferito un’infezione.
Clopin notò il suo sguardo e sorrise –Non temere, è un trucco.- spiegò, e in
un secondo la piaga scomparve dalla sua pelle. Regine annuì e abbassò lo sguardo
sulle sue mani. Clopin con un movimento fluido le scostò i capelli e le slacciò
il laccio della camiciola, scoprendo poi la spalla ferita –Non è profondo come
temevo.- disse, e le sue dita lievemente callose cosparsero la lacerazione di
uno strato di quell’intruglio. Al bruciore improvviso che seguì, Regine
trattenne il fiato e le sue dita si strinsero sul lenzuolo.
-Dove ci troviamo?- domandò, tentando di non pensare al dolore.
-Dalla Falourdel.- rispose Clopin, e Regine sobbalzò, sbarrando gli occhi:
dalla mezzana del ponte! Madeline le aveva parlato di alcuni fatti accaduti lì,
donne non sposate ingravidate, amanti che approfondivano il loro rapporto oltre
i limiti che la Chiesa consentiva…
-Non avere paura.- la acquietò Clopin –Era il luogo tranquillo più vicino di
cui fossi a conoscenza. Non voglio farti del male.- ma le parole dello zingaro
non calmarono affatto la ragazza, che tornò con la mente a ciò che era accaduto.
Le lacrime le solcarono le guance, il corpo venne scosso da singulti. Senza
pensare, Clopin la attirò a sé, la strinse tra le sue braccia, le sfiorò i
capelli e la schiena, mentre lentamente i singulti di Regine si calmavano.
-Sono… arrivato in tempo? Non ti hanno fatto nulla, vero?- domandò Clopin in
un sussurro separandosi da lei e scostandole dal volto una ciocca di capelli.
Regine scosse la testa –No, siete… siete arrivato in tempo.- disse con voce
tremante, e Clopin tornò a respirare –Ti porto a casa. Sei in grado di
camminare?- Di nuovo, Regine annuì, ma non appena i suoi piedi toccarono il
pavimento una scossa di dolore dalla caviglia dilagò lungo tutta la gamba,
costringendola a ricadere sulle lenzuola rosse.
-Ti porto io.- Clopin la sollevò e uscirono dalla stanzetta buia. Regine lo
guidò fino a casa, ma alcune volte si trovarono in luoghi sconosciuti e Clopin
dovette portarla in posti a lei familiare così che ricordasse la strada. Lo
sguardo dello zingaro spesso vagava verso la spalla di Regine, dove la macchia
di sangue aveva smesso di allargarsi. Clopin trattenne il respiro, ricordando
pericolosamente a sé stesso l’immagine del poeta Gringoire quando l’ispirazione
lo coglieva. Ma ciò che aveva compreso era troppo importante per lasciarsi
distrarre da tali pensieri.
-Oh, cielo! Al rapimento! Fermatelo!- gridò una voce di donna rompendo il
silenzio della notte, impedendo a Clopin di parlare. Regine, che aveva tenuto
fino a quell’istante gli occhi bassi sul suo ventre, alzò lo sguardi e nel suo
campo visivo entrò un gruppetto di persone, formato da tre uomini e tre donne,
che correvano verso di loro, gli uomini davanti, uno dei tre un po’ più rapido,
e le donne dietro, le gonne sollevate da terra per agevolare i movimenti.
-Andatevene.- disse Regine in tono incalzante, rivolta a Clopin. Aveva
infatti riconosciuto quelle figure nonostante il buio, erano Gabrielle,
Madeline, Charlotte, Jean-Louise e Pierre, e l’uomo più avanti era Simon.
-D’accordo.- disse Clopin, ma nel frattempo Simon li raggiunse –Lasciatela,
subito!- ordinò estraendo la spada dal fodero –Lasciatela, o ve ne farò pentire,
parola mia!-
Regine si voltò verso Clopin, e vide nei suoi occhi la voglia di accettare
quella sfida. Lo scongiurò con lo sguardo di non raccogliere la provocazione, e
nel frattempo suo padre e suo zio raggiunsero Simon mentre le donne si fermavano
un poco indietro.
-Vi prego, obbedite, mettetemi giù…-
-Se è ciò che vuoi, lo farò.- Clopin osservò con noncuranza la spada che gli
era stata puntata contro, si chinò e delicatamente poggiò Regine a terra per poi
prendere una delle sue mani tra le sue –Forse comprenderai anche tu… se ciò
accadrà prima di un nostro nuovo incontro, sappi che anche io ho capito, e
tornerò.- disse, e avvolgendosi nel manto di stracci che usava come mantello
scomparve nel buio.
-Stai bene?- domandò Simon inginocchiandosi preoccupato accanto a lei. La
spada cadde a terra con un clangore metallico. Regine annuì, più concentrata
sulla frase di Clopin che sulla domanda del fratello. Cos’era che doveva
comprendere che lui aveva già compreso? Era come se nelle sue orecchie
risuonasse ancora quelle enigmatiche parole che le sembravano tanto cariche di
significati e che, tuttavia, ancora non riusciva a comprendere.
In quel momento però il padre la riportò alla realtà –Chi era
quell’uomo?-
-Non conosco il suo nome.- mentì Regine abbassando lo sguardo a terra per far
si che nessuno cogliesse la menzogna dal suo sguardo.
-Ma era uno zingaro, non è forse vero?- si intromise Pierre in tono
autoritario.
-Io… credo che lo sia, si.- ammise Regine intimidita.
-Giri di notte, e ti lasci tenere tra le braccia da un lurido zingaro?-
sbraitò Jean-Louise rosso in volto per la rabbia.
-Mi sono ferita, e Clopin era l’unico che potesse riportarmi a casa…- Regine
si interruppe di colpo vedendo l’espressione del padre e rendendosi conto del
grave errore commesso: aveva pronunciato il nome di Clopin pur avendo detto di
non conoscerlo.
-Figlia mentitrice!- strepitò l’uomo –Proteggere un lestofante! Come osi
disonorare così la nostra famiglia!-
-Io… non è il suo nome, è che… quando gli ho chiesto chi era, lui mi ha detto
di chiamarlo così…- cercò di mentire Regine mentre un timore nuovo e sconosciuto
le nasceva nel cuore, un timore che non era dovuto alle grida del padre, alla
sua rabbia, ma a qualcosa di più grave e temibile di cui neanche lei conosceva
l’esatta natura.
-Ascoltami bene, Regine, perché non lo ripeterò: pretendo che tu stia
lontana, da oggi in avanti, da quella gente… hanno malattie, vivono nella
sporcizia… adoratori del demonio, ecco ciò che sono, anzi, sono demoni loro
stessi!-
Regine dovette combattere contro sé stessa, mordersi la lingua, per non
rispondere a suo padre. Perché se avesse parlato, l’avrebbe oltraggiato,
l’avrebbe contraddetto, e l’avrebbe fatto con un vigore che non aveva mai
pensato di possedere, che anzi non le appartenevano di certo. Abbassò lo
sguardo, spaventata dalle sensazioni nuove che provava e dalla mano del padre
che, per impartirle meglio l’insegnamento, si era alzata e che la colpì sulla
guancia. L’uomo rientrò poi in casa e il resto della famiglia lo seguì, con
Simon che aiutava Regine a camminare.
-Stai bene?- le domandò il fratello, e Regine annuì, sentendosi male per
questo: mentiva, di nuovo.
Capitolo IV
Regine prese la camiciola bianca che sua madre le porgeva.
Era chiusa in casa da cinque giorni, ormai, e ne comprendeva il motivo. Era
tornata a tarda sera, accompagnata da uno zingaro, e non solo: non era la prima
volta che faceva un ritardo, e inoltre aveva mancato di rispondere a una domanda
del padre, pur conoscendone la risposta. E queste, si ripeteva spesso, erano
solamente le colpe di cui suo padre era a conoscenza. Se avesse saputo che era
stata dalla Falourdel…
-La macchia di sangue non vuole saperne di andarsene.- disse Gabrielle, e
uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
Regine non aveva potuto uscire, in quei giorni, ma le era stato concesso di
ricevere visite, e ne aveva ricevute. Enrique, con la madre Antoniette e con il
fratellino Gerard, o anche solo, era più volte passato a casa degli zii, si
poteva dire una volta al giorno: farlo più soventemente sarebbe stato fuori
luogo. Si era dimostrato preoccupato per la salute di Regine, e si era informato
ad ogni visita delle condizioni della spalla e della caviglia, nonché del modo
in cui la ragazza si era procurata tali ferite. Regine sentiva di dover tenere
per sé ciò che era realmente avvenuto, perciò raccontò di essere inciampata,
tagliandosi contro una cassa, e che Clopin (stavolta si curò di non pronunciare
questo nome) l’aveva trovata e l’aveva riportata a casa.
-Siete stata fortunata.- aveva commentato Enrique quando lei gli aveva
raccontato l’accaduto –La mia opinione è che lo zingaro che avete incontrato
avesse una qualche azione per cui chiedere perdono al suo dio pagano, e che
abbia perciò compiuto una buona azione verso di voi per guadagnarsi il perdono…
avrebbe potuto andarvi peggio, nessuno sa cosa facciano gli zingari con le donne
che rapiscono.-
Regine aveva pensato spesso alle criptiche parole di Clopin, in quei giorni,
ma non aveva concluso alcunché. Si era perciò spesso trovata con la figura agile
e sottile dello zingaro che girovagava per i suoi pensieri, e ogni volta,
inevitabilmente, se ne impossessava, invadendola, facendole rivivere quella
lotta abile e sciolta, ma al contempo furiosa, contro i due uomini, le cure che
le aveva prestato dalla Falourdel… tutto si confondeva in un vortice di immagini
e profumi che si impossessavano di Regine per diversi minuti, per poi
abbandonarla e lasciarle una sensazione di abbandono.
Clopin svoltò nella via buia alla sua destra, il mantello di stracci stretto
attorno a sé contro il freddo, i piedi nudi, in mano un sacchetto contenente il
guadagno di quella giornata, tra elemosina e furti. In quei giorni, ciò che
riusciva a guadagnare era molto meno del solito, ed era ovvio che ciò era da
attribuire alle soventi scomparse di Esmeralda: di certo ai ragazzetti la sua
musica interessava solo se la ragazza ne seguiva il ritmo con le sue danze. E
ora, Clopin si ritrovava a suonare e mendicare senza nessuno con cui parlare, e
i suoi pensieri andavano spesso alla ragazza che aveva così spesso incontrato in
quei giorni.
Si raschiò via la finta piaga che aveva posto sul braccio e continuò a
seguire la strada verso la Corte, mentre nella sua mente tornava col pensiero a
Regine. Già dal loro primo incontro, quando l’aveva vista mentre suonava davanti
a Notre Dame, gli era rimasta nella mente, e aveva da subito saputo il suo nome,
senza che occorresse domandarglielo. Vagando con il pensiero rivolto alla
ragazza, Clopin si trovò senza rendersene conto con la fredda lama di una spada
puntata alla gola.
-Lasciarsi catturare così, zingaro… che umiliazione.- commentò il
soldato.
-Capitano Febo… sarebbe sì un onore essere catturato da un abile guerriero
come voi, eppure…- una nube di fumo, e Clopin scomparve per ricomparire al fondo
della strada –Eppure, devo declinare il vostro gentile invito.- concluse.
-Siete zingaro, e stregone, dunque!- berciò Febo –Guardie, a me!-
Clopin iniziò la sua fuga, i soldati alle spalle.
Regine voltò la pagina e il suo dito scorse sotto le lettere per aiutarla
nella lettura. Enrique, quel pomeriggio, le aveva donato una delle prime Bibbie
stampate a Norimberga, e dopo aver cenato Regine aveva immediatamente iniziato a
leggerla, illuminata da una candela posta sul tavolinetto di legno della sua
stanza.
Un rumore la distolse dalla lettura, e si voltò verso la finestra. Fece per
gridare, ma la mano dell’uomo che era si introdotto nella sua stanza le bloccò
le parole.
-Aspetta, ti prego, non gridare.-
Regine, ancora tremante, annuì, e Clopin spostò la mano.
-Ma cosa fate qui?- domandò regine alzandosi in piedi e ringraziando di
essere rimasta vestita.
-Sono in fuga da alcune guardie.- spiegò l’uomo, e il suo sguardo si posò
sulla Bibbia –Sapete leggere?-
-Si… voi no?-
Clopin scosse la testa, portando nuovamente lo sguardo scuro sulla sua ospite
–Posso rimanere per qualche attimo, così che le guardie passino avanti?-
-Ve lo devo, voi mi avete salvata.- acconsentì Regine –Non vi ho ancora
ringraziato per ciò che avete fatto.-
-E non devi farlo. L’unica cosa che ti chiedo è di pensare a… ciò che ti ho
detto. L’hai fatto?-
-Lo fatto.- disse Regine –Davvero, ma… non sono riuscita a capire, per quanto
ci provassi.-
-Non mi stupisce, dopotutto, che tu non abbia capito.- commentò Clopin
sorridendole e portandola a percepire quel brivido che le era ormai familiare.
Regine si poggiò con la schiena al muro, imbarazzata –Cosa volete dire?-
-Chi non vuole vivere la propria vita, spesso non è in grado di comprenderne
i segni.-
-Io… io amo la mia vita!- ribatté Regine, che si sentiva per qualche motivo
obbligata a giustificare sé stessa a quell’uomo.
-Oh, certo.- concordò Clopin facendo un passo verso di lei –Tu ami la tua
vita, ma ancora non hai il coraggio di viverla fino in fondo.-
-State forse dicendo che temo di vivere?- domandò Regine con un senso di
inadeguatezza e al contempo di offesa per le parole e la vicinanza di
Clopin.
-Sto dicendo che sei giovane, e…-
-E che non sono una zingara.- lo interruppe Regine con un moto di rabbia
pensando a quella zingara, Esmeralda, che forse era la sposa, o la donna, di
Clopin –Ma immagino che voi sappiate vivere la vostra vita, e con chissà che
gran virtù!-
Il sorriso di Clopin divenne appena più serio, il suo sguardo si fece più
profondo, e si avvicinò ancora, gli occhi incatenati a quelli di Regine, che lo
fissava a sua volta, rossa in volto.
-Io semplicemente non temo di andare contro a ciò che mi viene imposto, se…-
l’uomo s’interruppe e sfiorò il volto della ragazza mentre il suo mantello di
stracci cadeva a terra, alla sua schiena.
-Se?- domandò Regine in un sussurro, e allo stesso modo lo zingaro le rispose
–Se sono la passione e l’amore a guidarmi.- e attese appena di terminare la
frase per avvicinarsi ancor più a lei, unendo le loro labbra, baciandola con
delicatezza e passione, facendole mancare il respiro mentre un turbine di sensi
li avvolgeva, tenendo i loro corpi ancora più vicini. Regine chiuse gli occhi,
abbandonandosi alle sensazioni che l’uomo le donava, sfiorando il suo petto
robusto con le mani mentre lui la stringeva sempre più. Infine, Clopin
interruppe quel bacio, separò le loro labbra, tenendo la fronte contro quella di
Regine e le mani sui suoi fianchi mentre i loro respiri affannati spezzavano il
silenzio che li avvolgeva.
Regine rabbrividì mentre un fiume di sensazioni fluiva in lei. Voleva che le
mani di Clopin rimanessero sul suo corpo, che la sfiorassero ancora, che le sue
braccia la stringessero, che le loro labbra si incontrassero di nuovo… come
poteva volerlo? Non vi era matrimonio che potesse unirli, sua madre ne sarebbe
morta, suo padre l’avrebbe rinnegata… eppure, nonostante ciò, sapeva di
desiderarlo.
La spiegazione di ciò che provava le trapassò fulminea la mente e Regine
sbarrò gli occhi, terrorizzata: quello zingaro l’aveva stregata, era vittima di
un sortilegio!
Con tutta la forza che riuscì a trovare spinse l’uomo lontano da sé –Come
osate?- gridò –Andatevene, come vi permettete? Non osate mai più toccarmi!-
-Regine, ascolta, non capisci? La macchia di sangue, è il…- Clopin si
avvicinò nuovamente, ma lei scattò lontano, di lato –No, no! Non parlatemi di
macchie né di sangue né di nient’altro, non è che stregoneria, e voi siete il
diavolo!-
Clopin rimase un istante in silenzio, come per assimilare quelle parole,
guardandola con occhi adirati. Si accostò a lei, la afferrò per un braccio
attirandola a sé e la baciò, un bacio duro e rapido, dopodichè la fisso dritta
negli occhi, tenendole il polso –Credevo foste diversa dalla vostra gente, ma ho
commesso un errore. Sarete sempre schiava delle vostre paure.- disse –Vi
saluto.- aggiunse, e raccattando il suo mucchio di stracci uscì dalla finestra
da cui era entrato con un agile balzo.
Regine rimase immobile, lo sguardo nel vuoto, l’animo dolorante per il tono
freddo che la voce dell’uomo, quella voce che l’aveva sempre affascinata, aveva
assunto. Il cuore le batteva rapido e potente, ma la sua mente razionale
mantenne il controllo.
Si ripeté che aveva fatto la cosa giusta, finché non se ne convinse.
-Lo vedo bene che qualcosa ti turba.- disse Simon alla sorella. Erano passati
due giorni dalla sera in cui Clopin l’aveva baciata, ed era con Simon in cucina.
Ogni qual volta che Regine entrava nella sua stanza si fermava con gli occhi
puntati sulla finestra. E ogni volta vedeva con gli occhi del ricordo la figura
dello zingaro che le si avvicinava, e sentiva le mani di lui su di sé.
-Mi sento bene.- menzognera.
-Menti, e lo sai. Parlane con qualcuno, Regine, qualcuno che ti possa
aiutare.-
-Non ho bisogno di alcun aiuto, Simon. Mi sento bene.- ripeté Regine, quasi a
voler convincere sé stessa.
-Credo di sapere ciò che ti preoccupa.-
Regine diede di scatto le spalle al fratello, fingendo di spellare una patata
–Sai cose di me che non conosco nemmeno io, dunque.-
-Si tratta di Enrique, vero?-
-Enrique?- domandò Regine, un timore improvviso le fece battere il cuore
–Cosa c’è in Enrique che potrebbe preoccuparmi?-
-Cosa pensi di lui?-
-Perché me lo chiedi?- domandò Regine per guadagnare alcuni attimi.
-Perché nessun altro te lo chiederà, d’ora in avanti.- rispose Simon, cinico
come lo era diventato quando il suo fidanzamento con Charlotte era divenuto
matrimonio.
-Che vuoi dire?- la domanda era retorica: già da giorni Regine aveva compreso
il motivo delle visite continue di Enrique e la felicità dei suoi genitori.
In quell’istante, l’oggetto dei loro discorsi fece il suo ingresso in cucina,
accompagnato dalle due famiglie al completo. Per la prima volta Regine vide
Serge, il padre di Enrique. Aveva i capelli dello stesso biondo del figlio, ma
corti e radi sulla nuca. Il suo sguardo severo contrastava con l’aspetto bonario
che gli veniva conferito dal fisico grassoccio.
Dopo saluti e convenevoli, tutti si sedettero al tavolo rotondo, e
Jean-Louise prese parola rivolgendo alla figlia un sorriso benevolo, per la
prima volta dall’incidente –Oggi, Regine, è un giorno molto importante per te,
anzi, per tutti noi. Oggi, questo giovane valoroso è venuto a chiedere la tua
mano, e io l’ho concessa.-
Non fu un tuffo in un lago ghiacciato, né un fulmine in una giornata di sole.
Preparata a quel momento, Regine sorrise, nascondendo la tempesta che portava
nel cuore.
-Solo se voi mi vorrete, Regine.- aggiunse Enrique.
-Come potrei rifiutare?- fu la più compiacente risposta che Regine fu in
grado di dare.
-E sia, il fidanzamento è ufficiale!- annunciò allegramente messer Serge –E
presto la vostra unione sarà portata di fronte a Dio!- Enrique guardò Regine,
raggiante. Simon le rivolse uno sguardo compassionevole e solidale.
Nei giorni seguenti, Regine ed Enrique trascorsero insieme molto più tempo, a
volte persino soli. Regine si trovava bene con lui, era un uomo onesto, un
soldato coraggioso. Anche suo fratello, che era un suo sottoposto, lo
confermava, nonostante tutto.
Una voce solitaria, il cuore di Regine, continuava a opporsi, gridava, ma
Regine era in grado ormai di soffocare quella voce portando la mente verso il
matrimonio imminente. Dopo qualche giorno, Jean-Louise diede a Regine il
permesso di uscire di casa, e lei ed Enrique si recarono al mercato. Non più
abituata alla folla, non appena giunsero al mercato Regine si sentì spersa.
-State bene?-
-Certo.- Enrique, tuttavia, le prese la mano, e lei lo lasciò fare,
sorridendogli. Da quel momento camminarono mano nella mano, discorrendo con
tranquillità.
D’improvviso, come un’eco di un lontano passato ormai dimenticato, una musica
familiare giunse alle orecchie di Regine. Si volto lentamente, come in un sogno,
e ai suoi occhi comparve prima di tutto la capretta bianca. Danzava sola,
saltellando, senza la Esmeralda ad accompagnarla. Timorosa, Regine si voltò
ancora verso la sorgente della musica, e lo vide. Seduto a terra, i tamburi tra
le gambe, la camicia blu notte un poco aperta sul collo lasciava intravedere il
petto che lei aveva sfiorato giorni prima, i pantaloni bianchi erano sporchi al
fondo.
-Questa musica è molto bella, non trovate?- commentò trasognata.
-Voi dite? Strano che vi piaccia, è musica gitana, primitiva…- commentò con
sprezzo il suo accompagnatore.
-Gradirei molto poterla ascoltare meglio…potremmo avvicinarci di più? Non
dovreste arrestarlo, vero?-
-Oggi sono a riposo, rendervi felice è il mio unico obbligo. Se lo
desiderate, avviciniamoci.-
Regine sorrise –Lo desidererei molto…- disse, avvertendo una spinta nel
cuore, mossa dal desiderio improvviso di vendetta. Non poteva perdonare quello
zingaro, non poteva ignorare quel controllo che esercitava su di lei, quel
timore per la vita di lui che l’uomo la costringeva a provare con la sua
malvagia stregoneria… se una piccola parte del cuore del gitano ancora non era
stata offerta al demonio, e se quella parte di cuore fosse stata davvero legata
a lei, allora lei gliel’avrebbe spazzata, come lui aveva spezzato la sua purezza
con quel bacio: gli avrebbe mostrato il suo amore per il soldato che le stava
accanto e avrebbe spezzato così le catene che la tenevano legata allo
zingaro.
-Allora, avviciniamoci.- acconsentì Enrique, seppur con qualche dubbio. Così
andarono verso il gitano e la capretta.
Regine lasciò la mano di Enrique e lasciò cadere qualche moneta nel cappello
nero con cui lo zingaro raccoglieva le elemosina -Dov’è la donna che danzava per
voi?- domandò, al solo scopo di far notare la sua presenza all’uomo.
Clopin sobbalzò sentendo la voce di Regine, e continuando a percuotere i suoi
tamburi posò lo sguardo su di lei. Il cuore di Regine prese a battere con la
stessa potenza degli strumenti dello zingaro quando la voce di lui le giunse
nuovamente alle orecchie –Mia sorella non può danzare, poiché solo l’asilo di
Notre Dame la protegge dalla forca.-
-Capisco.- Regine indietreggiò di un passo raggiungendo Enrique, il quale di
nuovo le prese la mano. Per lunghi attimi Clopin non poté respirare, mentre gli
occhi di Regine fissavano i suoi come una muta sfida. Dopo alcuni secondi,
l’uomo sciolse l’intreccio dei loro sguardi per posare il suo sulle mani unite
dei due.
-La mia promessa sposa gradisce molto la vostra musica. È un peccato che
essendo ciò che siete non possiate suonare al nostro matrimonio.- disse
Enrique.
Clopin fece un accenno d’inchino come ringraziamento, ma in realtà respirava
con fatica. Mai, nemmeno udendo Esmeralda costretta a pronunciare la richiesta
d’asilo per salvarsi dall’accusa di aver ferito il capitano Febo, aveva provato
una tale rabbia cieca. Le sue mani desideravano impugnare il bastone e far
tacere quel soldato, il suo sangue gli ordinava di afferrare Regine e portarla
via con sè, lontani da Parigi. Ma il suo corpo obbedì alla sua mente ancora
razionale, e continuò a suonare. Non potè tuttavia trattenere la sua lingua –Che
il vostro matrimonio sia protetto dal Dio in cui credete. Se lo vuole il fato,
che siate felici.- disse –Ma se non è destino,
allora che le nozze siano impedite… ANAGKH.- aggiunse in un sussurro appena
percepibile.
-Cosa borbottate, zingaro?- ringhiò Enrique, e con un calcio rovesciò i
tamburi di Clopin –Una maledizione nella vostra lingua?-
-Tutt’altro, un augurio.- ribatté calmo, almeno nel volto, Clopin, alzandosi,
recuperando i tamburi e avvolgendosi nei suoi stracci –Un augurio, per voi e per
la vostra purissima sposa.- con un passo, lui e la capretta scomparvero
nel buio di una stradina secondaria.
-Venite, andiamocene.- Enrique la guidò nuovamente verso il mercato, la mano
di Regine nella sua, e lei lo seguì, confusa, agghiacciata ed irritata. Con
l’intento di liberarsi dalla catena che la incatenava al ricordo dello zingaro,
aveva permesso che lui la legasse a sé con una catena di diamante che non poteva
spezzare.
_________Nota di Herm90
Fine del primo libro. Sarò molto felice se mi lascerete qualche recensione,
positive ma anche negative, in particolare se costruttive. In ogni caso, tra
poco pubblicherò la seconda parte, che sarà più breve si
questa.
|