CAPITOLO
15
betato da quella santa donna di nes_sie
L’ultimo
giorno di lavoro prima delle vacanze natalizie fu un caos. C’erano
pratiche da
archiviare ovunque, la fotocopiatrice era impazzita e noi stagisti
venivamo
mandati a destra e a manca neanche fossimo stati ad una maratona.
Yuki
era sudata e appiccicosa, infatti di tanto in tanto cercava di
tamponarsi le
chiazze di sudore sulla camicetta con dei fazzolettini profumati. Gli
altri
soci dello studio avevano passato troppo tempo a bighellonare, ed ora
ci
ritrovavamo in ritardo con alcune archiviazioni da fare entro la fine
dell’anno
corrente. Il Tribunale le aveva richieste e così eravamo stati
avvertiti che
quel giorno sarebbe stato l’ultimo per la scadenza di quei contratti.
«Clarck contro
Van Bier va fotocopiato e inserito nella banca dati,» mi disse
Geoffrey, l’avvocato penalista che alle volte prendeva anche le veci di
Mr.
Abbott.
«Faccio
subito,»
dissi, aggiungendo il plico alla pila che mi portavo dietro da quella
mattina.
Per
fortuna ero riuscita a prepararmi in tempo, sfiorando il record, e mi
ero
diretta in ufficio quasi correndo. Appena entrata era scoppiato il
putiferio.
Avevo
avuto pochissimo tempo per respirare, visto che le scadenze andavano
rispettate
obbligatoriamente, così non ero nemmeno passata nell’ufficio di James
per salutarlo.
Più volte avevo posato la mano sul pomello della porta, ma ero stata
sempre
bloccata da qualcuno che necessitava il mio aiuto.
L’intera
mattinata passò in questo modo e anche gran parte del pomeriggio. Verso
l’ora
del the, noi assistenti ci ritrovammo nel salottino relax con le gambe
gonfie e
il fiatone, completamente distrutti.
«Dovrebbero
pagarci di più,»
si lamentò uno.
«Non ho sudato
tanto nemmeno alla finale di Badminton al circolo,» borbottò un
altro.
«Per me
dovreste ringraziare di essere stati almeno presi,» intervenne
Yuki, tirando fuori l’ultima salviettina rinfrescante del pacchetto. «Questo è uno
degli uffici più importanti di Londra e c’è chi farebbe carte false pur
di
entrare.»
Roteai
gli occhi verso l’alto, sventolandomi con un volantino. L’idea di
tornare a
casa era allettante, soprattutto visto che l’indomani sarebbe stata la
Vigilia
di Natale, ma quando ricordai che casa di Simone era diventata il
ritrovo della
famiglia Sogno allargata, mi passò la voglia.
Ero
felice di riavere la mia migliore amica con me, su questo non
discutevo, ma
avevo bisogno dei miei spazi e quelle feste si stavano trasformando in
una
specie di incubo.
Niente
più privacy, niente più segreti.
E
niente più risvegli come
quello di questa mattina.
La
gola mi si seccò tutta insieme e annaspai in cerca d’aria. La stanza
divenne
improvvisamente più calda, così aumentai la forza con cui muovevo il
volantino.
Lo sguardo scuro di Simone era come se fosse tatuato per sempre nella
mia
memoria, perfetto.
Sentivo
ancora la sua lingua sulla mia pelle, i suoi baci delicati e quel suo
respiro
caldo che mi aveva solleticato l’orecchio. Non avrei dovuto farmi
distrarre da
certe fantasie, soprattutto in quel periodo stressante; eppure da
quando avevo
lasciato perdere la storia con James, Simone era subentrato come uno
tsunami.
«Ven, stai
bene? Sei tremendamente rossa in viso. Forse dovresti prenderti il
pomeriggio
libero,»
mi suggerì Matt, ed io tentai di nascondere quell’evidente imbarazzo.
«Sì certo,
sono solo accaldata!»
mi affrettai a scusarmi.
Avrei
dovuto essere più accorta, soprattutto quando si trattava di mettere a
nudo la
mia vita privata. Dovevo tenere a mente che sia per colpa di Simone che
di
Jamie, il mio praticantato era sospeso su un filo sottilissimo che
rischiava di
spezzarsi da un momento all’altro.
Se
soltanto uno di questi individui avesse sospettato qualcosa, avrei
finito per
tornarmene a Roma con il primo volo disponibile.
D’improvviso
la porta della sala ricreazione si aprì e James fece il suo ingresso
senza indossare
la giacca, con le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci.
«Lì fuori è
una giungla!»
sorrise, rivolgendomi uno sguardo sincero.
Il
resto degli stagisti annuì convinto, mentre all’interno della saletta
calò un
silenzio imbarazzante intervallato unicamente dallo sventolio del mio
volantino.
Feci
di tutto per evitare di incrociare lo sguardo di James, soprattutto
quella
mattina che ero ancora piuttosto vulnerabile. Da quando ci eravamo
ufficialmente lasciati, dopo essere stati insieme di nascosto, non
avevo perso
tempo e quel tira e molla con Simone era andato sempre più peggiorando.
Il
pensiero che Celeste potesse scoprire ogni cosa mi terrorizzava.
Non
tanto perché mi avrebbe potuta giudicare, in fondo si trattava della
mia
migliore amica, avrebbe capito. Piuttosto ero spaventata da come
avrebbe potuto
reagire, soprattutto dopo questa lontananza. Noi che eravamo abituate a
sentirci ogni giorno, per raccontarci anche le più autentiche cazzate.
Ora io
le avevo nascosto tre delle cose più importanti da quando mi ero
trasferita lì.
Avevo
paura che ciò avrebbe incrinato per sempre il nostro rapporto.
Dopo
qualche minuto si sentì la voce infuriata di uno dei soci dello studio,
che
richiamava all’ordine gli stagisti che avevano esaurito la pausa.
Feci
per alzarmi, visto che facevo parte della “troupe” che in quel venerdì
nero –
se così si poteva chiamare – avrebbe svolto altri milioni di fotocopie,
quando
fui trattenuta da James.
L’avvocato
richiuse la porta dopo che gli altri se ne furono andati e mi sorrise,
genuino.
Fu una stilettata dritta al cuore, proprio perché non mi sarei mai
aspettata
che James potesse ancora avere tutto questo effetto su di me.
Ora
che hai Simo dalla tua
parte.
No!
Quella storia era solo uno sbaglio, iniziata nel peggiore dei modi e
avrei
dovuto troncarla immediatamente, appena tornata a casa.
«Oggi è
l’ultimo giorno,»
sorrise James, lievemente imbarazzato. «Cosa fai durante queste vacanze?
Tornerai a casa?»
mi chiese.
Scossi
la testa, guardano fuori dalla finestra. Tutto per non incontrare
quelle iridi
azzurre che mi avrebbero fatta capitolare. «Non penso. Ho troppo da fare qui
a Londra, poi sono arrivati degli amici che non vedo da tanto tempo.»
«Capisco.»
Il
silenzio tornò a governare quelle quattro pareti tinteggiate di giallo
pallido,
ed io non feci nulla per interromperlo. Cosa avrei potuto aggiungere?
Davvero
voleva che gli chiedessi di passare il giorno di Natale con me?
«Io credo che
tornerò a Liverpool,»
smozzicò lui. «Zio
August e papà organizzano la solita rimpatriata con tutti gli Abbott
sparsi per
l’Inghilterra. Spero di sentirti il giorno di Natale, o la vigilia…» e lasciò
appositamente la frase in sospeso.
Per
quale motivo, dopo tutto questo tempo, James riusciva ancora a
condizionare le
mie emozioni utilizzando frasi così semplici e innocenti?
Niente
“Ti voglio”, nessun morso o incontro violento di labbra.
Con
lui era tutto fatto di sguardi e di frasi a modo, come un vecchio
corteggiatore
d’altri tempi.
«Certo, ci
sentiremo,»
gli dissi sicura.
Una
telefonata non significava certo una promessa di matrimonio.
James
si avvicinò di qualche passo ed il mio cuore cominciò a battere molto
più
velocemente di quanto mi sarei aspettata. Forse i sentimenti che
provavo per
lui non si erano del tutto sopiti, forse quella pausa che ci eravamo
presi non
sarebbe servita poi a tanto.
Per
quanto potessi ignorarlo, buttarmi tra le braccia di Simone soltanto
per lenire
quella sua assenza, era del tutto inutile. Prima avrei finito il caso,
prima
saremmo potuti tornare insieme.
James
si fermò quando fu davanti a me e frugò qualcosa nella tasca del suo
completo
elegante. Aveva ancora quello sguardo semi-imbarazzato di poco prima,
che lo
faceva somigliare ad un bambino troppo cresciuto.
Ne
tirò fuori una scatolina di velluto rosso, con un grande fiocco
argentato
sopra. Me la porse sorridendo e augurandomi un timido “Buon
Natale, spaghetti-girl”.
Afferrai
il regalo con mani tremanti, realizzando forse troppo tardi che io non
avevo
nulla per ricambiare.
«N-Non dovevi…» soffiai
imbarazzata.
Lui
si portò una mano dietro la nuca e sorrise nervoso. «Ma dai, è una
sciocchezza! Aprilo,»
mi invitò.
Feci
come mi aveva suggerito e aprii il cofanetto, rivelando un piccolo
braccialetto
d’oro bianco con un singolo ciondolo. Lo tolsi dalla scatola per
osservarlo
meglio e notai che il gioiello rivelava la forma di un piccolo
martelletto da
giudice.
«Così mi
penserai anche quando saremo lontani,» mi disse lui, posandomi una
mano sulla spalla.
«È bellissimo…» sospirai
senza parole e lo indossai subito.
James
allora ne approfittò e mi prese il mento tra le mani, abbassandosi quel
tanto
da sfiorare le mie labbra con le sue. Fu un bacio veloce, quasi
impercettibile.
Eravamo ancora in ufficio e chiunque sarebbe potuto entrare e scoprirci.
Però
fu abbastanza.
Ritrovai
quel suo calore, l’odore pungente del dopobarba e la morbidezza di
quelle
labbra che non aveva nulla a che vedere con quelle di Simone.
Stai
facendo dei paragoni?
No,
non ce n’era alcun bisogno. Ci sarebbe stato sempre prima James, prima
di tutto
ed io lo avrei aspettato. In qualche modo glielo avevo promesso.
«Buon Natale,
Venera,»
soffiò a pochi centimetri dalle mie labbra.
Gli
carezzai la nuca con la punta delle dita. «Buon Natale, James.»
La
Abbott&Abbott chiuse esattamente alle dodici spaccate, e tutti
gli avvocati
dello studio si salutarono e si augurarono buone vacanze sul
porticciolo
dell’edificio. Quella mattina erano caduti altri cinque centimetri di
neve,
facendo arrivare quel manto bianco fino a bagnarmi l’orlo dei
pantaloni,
infilati sapientemente dentro un comodo paio di doposci.
«Allora ci
rivediamo il 28,»
disse Carl.
«Buon Natale a
tutti!»
Ognuno
prese strade diverse. Io imboccai come mio solito Regent Street,
diretta
all’incrocio con Oxford Circus. Non vedevo l’ora di tornare a casa, di
avvolgermi in una comoda coperta di pile e di sbracarmi sul divano
pronta per
una maratona di The Deep End.
Poi
ricordai che a casa di Simone era arrivato l’uragano “Sogno”, con tanto
di
nonna Annunziata impicciona e paladina delle storie d’amore celate.
Sbuffai
sonoramente e m’incamminai a passo svelto. Nonostante la neve, era una
bella
giornata e le temperature rasentavano i -5°C. Del resto, Londra
imbiancata
dalla neve era uno spettacolo inimmaginabile e per quanto adorassi la
mia città
natale, la capitale inglese era al secondo posto, se non addirittura a
pari-merito.
Svoltai
su Piccadilly Circus, stando attenta a non capitombolare su un grosso
lastrone
di ghiaccio e mi incamminai verso la palazzina. Frugai all’interno
della borsa
per cercare le chiavi, quando sentii il braccialetto di James
tintinnare.
Mi
fermai per un attimo ad osservarlo.
Era
bello e molto di classe. James mi aveva fatto dono di quel pensiero
incondizionatamente, senza che ce ne fosse motivo. Lo aveva fatto per
lasciarmi
un ricordo di sé, un segno del suo passaggio per quando sarebbe partito
per
Liverpool.
Ed
io invece di aspettarlo lo avevo tradito.
Ehi,
svegliati. Mica state
insieme!
Nonostante
gli avvertimenti del mio Cervello, mi sentii comunque in colpa e sempre
più
determinata a troncare di netto qualsiasi cosa potesse nascere con
Simone.
D’altronde
era pur sempre un Sogno, quindi sinonimo di inaffidabilità. Io ero il
suo
avvocato e lui aveva una causa di dubbia paternità in corso.
Realizzai
che nemmeno Beautiful sarebbe stato
in
grado di eguagliare la mia vita.
Scorsi
il portone della palazzina dietro l’angolo, così mi apprestai ad
accelerare il
passo, quando vidi una figura incappucciata fino alla punta dei capelli
che
usciva di gran corsa.
Quello
strano cappello con le orecchie lo avevo già visto da qualche parte…
«Simone!» gridai,
andandogli in contro e fermandolo.
Il
ragazzo imbacuccato si bloccò di colpo, mi fissò attraverso gli spessi
occhiali
da sole, poi come se nulla fosse proseguì di gran lena. Mi ritrovai ben
presto
a scapicollarmi pur di stargli alle costole, con quelle gambe magre e
chilometriche faceva dei passi talmente lunghi che cominciai a sudare.
«Fermati
deficiente! Dove cavolo stai andando?» gli urlai dietro, col fiato
corto.
Dio,
ero troppo vecchia per star dietro a quel moccioso.
Simone
non accennava a rallentare il passo, nonostante di tanto in tanto si
voltasse a
vedere se fossi ancora viva. Grazie tante!
«Smettila di
seguirmi!»
mi intimò, da dietro lo spesso strato di lana della sciarpa.
«Voglio sapere
dove… stai andando!»
ansimai.
Dopo
tre secondi netti lo mandai a quel paese e mi bloccai nel bel mezzo del
marciapiede, decisa a riprendere fiato. Sentivo l’aria gelida di quel
Venerdì
pomeriggio che mi graffiava fortemente la gola. Quel cretino non si
meritava
affatto la mia considerazione.
«Vatti a
schiantare!»
gli urlai dietro col fiatone.
Fu
allora che Simone si bloccò e tornò indietro, sincerandosi se fossi
morta o
meno. «Hai
resistito parecchio,»
constatò divertito. «Considerata
l’angolatura misera delle tue gambe.»
«Fottiti,
spilungone,»
ringhiai offesa.
Oltre
ad avermi fatto fare la sudata più epica di tutta la mia intera
esistenza,
aveva davvero il coraggio di infierire?
Simone
rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere fragorosamente. Lo
fissai di
traverso e per poco non gli diedi una spinta solo per farlo cadere.
Se
lo sarebbe meritato, quel deficiente.
«Si può sapere
dove cavolo te ne stavi andando? Lo sai che non puoi uscire a fare i
tuoi porci
comodi, sei sotto la mia supervisione!» gli ricordai.
Simone
fece spallucce e continuò a sghignazzare. «Non sopportavo più di stare lì
dentro. Odio il Natale,»
bofonchiò.
«Ma come! È la
festa preferita dai marmocchi!»
ridacchiai, rispolverando una tenera allusione.
Il
calciatore mi fulminò con uno sguardo. «Ciao,» disse e fece
per andarsene ma io mi aggrappai al suo braccio neanche fossi un koala.
«Eh no! Ora ce
ne torniamo su a casa, che sono esausta,» gli dissi.
Lui
scosse la testa e tentò di liberarsi dalla mia stretta. «Non ci torno
lì dentro, con mia
nonna che fa la
comare con la tua amica e con mia sorella. Hanno costretto Leonardo ad
addobbare l’albero e Ruben sta facendo i biscotti allo zenzero.» Fece una
pausa. «Okay,
forse Ruben è l’unico che si sta divertendo,» constatò.
Sgranai
gli occhi immaginandomi perfettamente il mio ingresso
nell’appartamento, con
Celeste che mi piombava addosso pregandomi di aiutarla a scegliere
quale punta
sarebbe stata più adatta in cima a quello splendido abete di plastica.
Orrore.
«Okay,
battiamocela,»
dissi, incamminandomi al fianco di Simone lungo la strada innevata.
Riuscimmo
a raggiungere Westminster Bridge a piedi piuttosto in fretta e non
sentii
nemmeno troppa stanchezza. Magari mi ero abituata a camminare con tutta
quella
neve sotto gli scarponi. Ci affacciammo sul ponte proprio quando il Big
Ben
segnalò che erano le dodici e mezza.
«Ho fame,» sentenziò
Simone.
«E cosa ti
posso fare io?»
borbottai.
Simone
si guardò in giro, poi vide una specie di chiosco aperto vicino al
London Eye. «Vieni!» disse. Mi afferrò
la mano e attraversammo la strada incurante delle poche macchine che
attraversavano il famoso ponte.
«Ehi!» protestai,
ma era del tutto inutile cercare di far cambiare idea a Simone.
Lui
era come un uragano che ti travolgeva e ti strappava via dal tuo stesso
corpo.
Era impeto, istinto, sentimento allo stato puro.
Era
un qualcosa che non si poteva imprigionare.
Me
ne sarei resa conto soltanto col tempo. Ecco perché non era facile che
si
legasse profondamente a qualcuno. Lui sfuggiva ai legami perché non era
fatto
per essere intrappolato, costretto in qualche spazio angusto.
Le
donne lo volevano tutto per loro, un trofeo da tenere nascosto e
custodito.
Invece lui aveva bisogno d’aria, aveva bisogno di volare, e quella
situazione
che lo vedeva costretto a casa lo faceva sentire come un canarino in
gabbia che
guardava il cielo attraverso le sbarre dorate.
Nessuno
era capace di
rinchiudere un’anima nata libera.
«Tieni!» mi disse
eccitato, porgendomi una specie di wurstel infilzato in un bastoncino e
cosparso
di senape.
Lo
fissai inorridita. «Che
diavolo è?»
Simone
fece spallucce. «Carne.
È buono,»
insistette, spingendolo sempre di più verso la mia bocca. Non sapevo se
fidarmi
di lui o meno. Lo annusai e dall’odore che emanava il mio stomaco reagì
con un
brontolio ben poco sommesso.
Lo
addentai e tutto sommato era commestibile. Simone mi guardò e sorrise
compiaciuto, continuando a mangiare il suo.
Mi
ritrovai a pensare che tutto sommato la sua compagnia non era così
spiacevole.
Anche se il più delle volte lo trovavo davvero irritante, ero arrivata
ad un
punto in cui non riuscivo più a razionalizzare le mie emozioni.
Se
mi trovavo in compagnia di James, Simone mi sembrava così inadatto,
sbagliato,
fortemente ingiusto e pendevo dalla parte dell’avvocato.
Se,
invece, avevo Simone al mio fianco… a James non pensavo affatto.
«Ti va di
andare lì sopra?»
mi chiese d’improvviso lui, indicando con uno sguardo l’enorme ruota
panoramica.
Deglutii
a fatica un pezzo di quel gigantesco wurstel e le parole mi morirono in
gola. «No?» chiesi
dubbiosa.
Non
è che soffrivo di vertigini, anzi, di solito l’altezza non mi faceva
alcun
effetto. Sentire però il cigolio sinistro di quella struttura mi
metteva
leggermente un po’ d’ansia addosso e Simone sembrò non tenerne per
nulla conto.
«Dai, fifona!» sorrise,
afferrandomi di nuovo la mano e trascinandomi su quel trabiccolo.
Comprò
i biglietti e l’addetto ci aprì la cabina, invitandoci a sedere senza
sporgerci
troppo dal finestrino.
Non
che ne avessi la minima intenzione, ovviamente.
«Pronta?» mi domandò
il calciatore, eccitato.
Annuii
con un enorme groppo in gola, poi la giostra partì cominciando
lentamente a
salire e permettendoci di ammirare l’intera panoramica della città.
Dovevo
ammettere che era stupenda.
«Vieni Ven,
guarda si vede casa nostra!»
disse Simone, tirandomi forte verso il finestrino e facendomi
spiaccicare la faccia
sul vetro.
Era
vero, si vedeva il balcone dove solitamente mi affacciavo per vedere la
gente
in strada.
Casa
nostra.
Come
una reminiscenza lontana, il mio Cervello mi ripropose quel particolare
che
evidentemente mi era sfuggito. Aveva davvero detto “Casa
nostra”? Nostra, non sua… non casa, generico.
Nostra.
Mia e sua.
Lo
fissai con gli occhi sgranati e un enorme peso sul cuore. Quella
situazione
andava chiarita, doveva essere
chiarita.
«Che hai?» mi chiese
lui stupito. «Ho
detto qualcosa di sbagliato?»
Abbassai
lo sguardo e tornai a sedere. «Dobbiamo
parlare,»
gli dissi chiara.
Fu
allora che Simone si tolse tutto il bardamento, compreso di cappello
con le
orecchie del cugino. Se lo rigirò tra le mani nervosamente, poi annuì.
«Tanto lo so
cosa stai per dire, perciò è inutile che ne parliamo,» sospirò
fissandomi truce.
«Ah sì? E cosa
dovrei dire, di grazia?»
lo rimbeccai.
Pensava
davvero di poter risolvere tutto così? Prima urlandoci addosso, poi
rischiando
quasi di fare l’amore, poi litigando furiosamente di nuovo.
Simone
spostò lo sguardo verso il soffitto della cabina, poi sbuffò. «“Quello che è
successo stamattina è stato un errore”,» citò, imitando il mio tono di
voce. «“Io
sono un avvocato, tu sei il mio cliente, dobbiamo mantenere le
distanze, limitarci
ad un rapporto professionale”»
Assottigliai
lo sguardo. «Io
non parlo così,»
bofonchiai.
Gli
occhi di Simone però mi inchiodarono al mio posto, così scuri come mai
avrei
potuto dimenticare. «Dimmi
se ho torto, allora.»
Mi
lasciai andare contro lo schienale della cabina. «Cosa vuoi che dica, allora? È la
verità!»
dissi a mia difesa.
«Non puoi
venire in camera mia e poi fare finta che non ti interesso!»
Rimasi
spiazzata da quella reazione. Sembrava quasi che gli importasse
qualcosa e che
non si trattasse unicamente di un gioco.
«Vuoi dire che
per te è una cosa seria? Davvero?» risi sarcastica.
Simone
s’indispettì quasi subito, tornando sulla difensiva. «No che non lo
è!»
si giustificò. «Solo
che non sopporto che tu mi usi.»
«Anche tu lo
fai,»
gli dissi in mia difesa.
Rimanemmo
a fissarci di traverso per un bel po’, mentre il paesaggio della City
scorreva
davanti ai nostri occhi infuriati. Ecco cos’era Simone: fuoco.
Non
avrei saputo trovare paragone migliore. Una fiamma che ardeva perpetua,
che s’incendiava
per qualsiasi cosa, che fosse rabbia, passione, sentimento.
Era
impossibile imprigionare una fiamma senza spegnerla. Se la si fosse
messa sotto
una campana di vetro, senza ossigeno, si sarebbe spenta.
E
così era lui, incapace di smettere di ardere fino a quando qualcuno non
lo
avesse privato dell’aria.
«Per me è
diverso,»
aggiunse poi lui, interrompendo il silenzio.
«Sì, certo,» bofonchiai,
come se per quel marmocchio la vita fosse piena di giustificazioni.
«No, davvero,» mi disse
sicuro, incrociando il mio sguardo. «Io gioco da una vita coi
sentimenti degli altri, ormai so distinguere l’amore dal sesso. Tu no.
Tu credi
di sapere le regole, ma è come se giocassi ad occhi bendati.»
Non
sapevo cosa intendesse dire con quel paragone, se fosse un’accusa o una
critica
al mio modo di comportarmi, fatto sta che non gli diedi peso.
«Ciò non
toglie che tu sei libero di fare quello che ti pare, mentre non la
smetti mai
di sparare giudizi su James e me,» gli feci presente.
Simone
rimase interdetto da quella mia risposta e si zittì. Rimanemmo a
fissare fuori
dal vetro per tutto il tempo necessario alla ruota per compiere un giro
completo, poi scendemmo. Finalmente a terra, finalmente libera da
quello spazio
troppo stretto e troppo saturo di risentimento.
Era
evidente che ci fosse qualcosa che non andava, che inevitabilmente
avevo
contribuito a gettare benzina sul fuoco. Quello che c’era stato tra me
e Simone
doveva finire lì, in quell’istante. Subito. Prima che gettassimo tutto
allo
sfacelo.
Attraversammo
di nuovo il Westminster Bridge ed io mi appigliai al bordo del ponte
come fosse
un ancora ed io stessi per crollare a terra. Sentivo la presenza di
Simone al
mio fianco ma ancora le sue parole non mi erano chiare.
A
quale gioco aveva fatto riferimento? Per quale motivo aveva insinuato
che non
conoscessi le regole? Che andassi avanti senza curarmi delle
conseguenze?
«Senti, per
quello che è successo lì sopra…»
iniziai, sperando non cambiasse discorso.
Dovevamo
affrontare quella situazione al più presto, prima di rientrare in casa
e
ritrovare tutti quei parenti che non ci avrebbero tolto gli occhi di
dosso.
Simone
mi zittì subito con un cenno della mano. «Non serve che aggiungi altro, ho
capito. Come prima,»
sentenziò guardandomi.
Infilai
le tasche nel giubbotto invernale e sospirai calciando via un ciottolo
ricoperto di neve. In fondo chi mai avrebbe potuto credere ad una
coppia come
la nostra? Nemmeno un miliardario arabo che buttava i propri soldi in
mediocri
squadre di calcio di serie C avrebbe scommesso su di noi.
No.
Simone doveva stare con una modella, magari un po’ meno debosciata ed
io avrei
puntato tutto sul lavoro e poi mi sarei trovata un bravo ragazzo.
È
così che sarebbero dovute andare le cose.
«Ehi voi due,
ehi!»
trillò una voce alle nostre spalle.
Ci
voltammo quasi all’unisono – io presa da una sconfortante sensazione di
aver
riconosciuto quella voce come quella di Sofia. E infatti si trattava di
lei.
Solo che stavolta c’era sommata anche la mia cara amica Celeste, il suo
bel
fidanzato Leonardo e quel poveraccio di Ruben completamente surgelato.
«Hai finito i
biscottini, Barrichello?»
ridacchiò Simone, appoggiato con un gomito al bordo del ponte.
Il
povero fidanzato di Sofia tentò di aggiustarsi meglio la scoppola sui
capelli
color giallo spento. «S-So-Sono
v-ve-venuti b-bene!»
protestò e la bionda cantante si premurò di lanciare un’occhiataccia al
fratello maggiore.
«Vuoi
lasciarlo in pace?»
Leonardo andò in difesa dell’amico.
«Oh! Volete
mettere in piedi una scenata qui? Davvero?» intervenni, inframmezzandomi
tra quei due colossi. «Devo
ricordarvi che siete due personaggi pubblici?» Anche se
stento a crederlo – avrei voluto aggiungere, ma lo tenni
per me stessa.
I
due si lanciarono un ultimo sguardo di sfida, poi grugnirono e si
allontanarono.
«Che ne dite
se ce ne andiamo a mangiare da qualche parte?» propose Celeste, scaldandosi le
mani l’una contro l’altra. Evidentemente non si era ancora temprata al
clima
rigido londinese.
Leonardo
le si avvicinò, le prese le mani e se le infilò in tasca, trovando la
scusa
perfetta per abbracciarla. Fu un gesto spontaneo, quasi fossero
abituati a
farlo. Ne rimasi totalmente folgorata, mentre una punta d’invidia si
diramava
lentamente dal mio cuore, a macchia d’olio.
Dovevo
piantarla. Non c’era motivo di essere gelosa della mia migliore amica.
«Piuttosto,
cosa ci fate tutti qui?»
chiese stizzito Simone.
«Vuoi dire
perché ti abbiamo seguito dopo che hai sapientemente tagliato la corda?» lo corresse
la sorella.
Simone
bofonchiò qualcosa sotto voce.
«Diciamo che
nonna Annunziata non vuole essere disturbata mentre prepara il cenone,» si aggiunse
Celeste, stretta in un abbraccio caldo da Leotordo.
«Ma la vigilia
è domani sera!»
sbottai incredula.
Sofia,
Simone e Leonardo scossero la testa all’unisono. «T-Tu-Tu-T-Tu…» tentò di dire
Ruben.
«Vuole dire
che tu non conosci di cosa è capace la nonna,» tagliò corto Leonardo,
altrimenti ci avremmo fatto notte.
Quella
notizia non mi rese particolarmente tranquilla.
«Bene, dove
vogliamo andare?»
trillò Sofia.
Il
lauto pranzo nel più vicino pub disponibile mi rese la camminata
difficile per
il resto del giorno. Diciamo che “rotolare” sarebbe stato di gran lunga
più
semplice.
«Sto
scoppiando!»
esalai, sentendo il bottone della gonna che stava per cedere.
«Ti credo, hai
mangiato come se non ci fosse un domani,» osservò Simone.
Lo
linciai. «Ma
se ti sei finito anche la mia roba!»
Sghignazzò
divertito. «Metabolismo
lampo. Appena il cibo tocca la mia bocca, viene disintegrato in men che
non si
dica. Ergo, niente ciccia.»
Maledetto
stronzo.
«È una
battaglia persa, Ven,»
mi disse Celeste, prendendomi sotto braccio.
Passeggiavamo
per le vie di Londra col chiaro intento di raggiungere Trafalgar Square
e a
dire dal traffico cittadino ci stavamo avvicinando.
«Perché?» le chiesi
con ovvietà.
La
mia migliore amica mi sorrise e si scostò dal viso una ciocca di
capelli
sfuggita al cappellino rosa col ponpon. «Anche Leonardo mangia come se
fosse digiuno da settimane. Sarà lo sport,» sospirò, facendo qualche altro
passo avanti per distanziare il resto del gruppo.
Mi
sentii improvvisamente “rapita” dalla mia migliore amica. Mi accorsi
troppo
tardi che il suo piano era stato quello sin dall’inizio.
Era
una chiara mossa perché aveva intenzione di parlare.
«Cel, mi stai
facendo male,»
le dissi, riferendomi alla presa d’acciaio che aveva sul mio braccio.
Lei
si scusò subito, ridacchiando, ma quegli occhi vispi ed azzurri non
abbandonarono i miei.
«Ho saputo una
cosa oggi,»
se ne uscì, prendendo la cosiddetta curva larga. «Diciamo che qualcuno ha chiamato
quando tu eri fuori con Simone,»
sorrise malandrina, fissandomi insistentemente il polso.
D’istinto
tirai giù la manica del cappotto, per nascondere il regalo di James. «A-Ah sì?» dissi
ingenuamente.
«C’è qualcosa
che devi dirmi, Venera?»
disse perentoria, scandendo bene le parole.
C’era
forse qualcosa che avrei nascosto alla mia migliore amica? Ovviamente
avrei
dovuto cominciare dal principio, da quando ero giunta lì a Londra e
avevo
incontrato James sulla Tube, oppure attaccare dal giorno in cui capii
che
Simone sarebbe stato mio cliente, o da quando mi ero trasferita a casa
sua.
Da
dove avrei dovuto cominciare?
Inspirai
forte l’aria pungente di quel primo pomeriggio innevato. «Senti, Cel,
davvero. Ci sono un mucchio di cose che vorrei dirti, ma forse dovresti
aspettare un po’ perché devo fare chiarezza prima,» le
smozzicai, sperando capisse.
Lei
annuì comprensiva. «Lo
so, questo. Sei sempre stata la più forte tra noi due, quella che si
teneva
tutto dentro, senza mai esporsi,» sorrise, poi si avvicino e mi
picchiettò piano sul petto con il pugno chiuso. «Anche se tenti di essere forte,
prima o poi tutti hanno bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi.»
Soppesai
le sue parole per tutto il resto della giornata, cedendo qualche volta
alla
tentazione di confidarle tutto. Il problema era che non sapevo da dove
cominciare, come spiegarmi, come giustificare il mio comportamento.
E
se lei mi avesse chiesto chi fosse più importante tra James e il mio
lavoro? E
se mi avesse domandato chi avrei dovuto scegliere tra Jamie e Simo?
Ovviamente
James.
Ovviamente.
Perché
Simone era un caso chiuso.
Archiviato.
Fotocopiato
e riposto accuratamente in una cartelletta sepolta in fondo al mio
cuore, con
polvere annessa.
«Non hai
parlato per tutto il pomeriggio,» osservò Simone, prendendomi di
sorpresa e sedendosi accanto a me sul divano.
Nonna
Annunziata era andata con Ruben e Sofia a dormire nel loro
appartamento, mentre
Cel e Leonardo si erano già rintanati in casa. E così il salotto era di
nuovo
vuoto, tranne che per il rumore della radiocronaca su SkySport.
«E ciò non ti
fa piacere?»
gli chiesi, rannicchiandomi su me stessa e sperando che quel noioso
programma
finisse al più presto.
Simone
fece spallucce. «È
strano,»
si limitò a commentare.
Rimanemmo
a guardare la TV per quasi tutta la notte, senza mai sentire il peso
della
stanchezza. Potevo avvertire il calore che emanava il corpo di Simone,
quel
tepore che mi aveva attratta la notte prima come una falena.
Spostai
lo sguardo su di lui, senza farmi scorgere e seppellendo dentro di me
quella
vocina che mi ricordava di dimenticarlo. Caso chiuso.
Se
Simone era davvero la fiamma, io ero soltanto una farfalla pronta a
bruciarmi.
«Senti,
stanotte il divano lo prendo io. Tu vai in camera. Ho cambiato le
lenzuola,
così non rompi e dici che puzzo,» borbottò, stendendosi sul sofà.
Rimasi
annichilita. «Come
mai tutta questa galanteria?»
chiesi scettica.
Simone
sbadigliò e si stiracchiò come un gatto. «Considerala un anticipo sul
regalo di Natale. Io ne approfitterei Lil’Elf.»
Mi
alzai e mi diressi verso la sua stanza, fermandomi appena sull’uscio
del
salotto. Sapevo di essere una persona incoerente e che avevo senza
dubbio
bisogno di uno specialista, e di corsa, però non riuscii a fare a meno
di
guardarlo.
«Si?» mi chiese,
pensando volessi qualcosa.
«’Notte,» dissi
solamente, sparendo poi nel corridoio.
Non
aspettai una sua risposta, né una sua qualsiasi reazione. Non c’era
niente da
dire, né da fare. Decisi che avrei vissuto le cose giorno per giorno e
quando
avessi fatto più chiarezza nella mia testa, mi sarei decisa anche a
parlarne
con Celeste.
Non
si meritava questo silenzio, ma ancora non ero pronta.
Pronta
a cosa, poi?
Ad
ammettere, finalmente, che
anche la Regina dei Ghiacci aveva un cuore.
***
La
Vigilia di Natale arrivò così velocemente che non riuscii nemmeno a
rendermi
conto del tempo che passò tra la colazione e la cena.
Mi
ritrovai seduta al grande tavolo da pranzo di Gabriele, vestita di un
abito di
lana rosso e circondata da una miriade di parenti chiacchieroni. La
tavola era
imbandita e colma di tutte le più svariate leccornie, mentre il vociare
degli
invitati finì per sovrastare anche i miei stessi pensieri.
«Mi passi quel
vassoio di scampi?»
«Allunga un
po’ di vino!»
«Ehi!
Lasciamene un po’ anche a me!»
Quelle
erano le liti che più o meno si accendevano da più di un quarto d’ora
tra i
cugini più piccoli dei Sogno. Si litigavano il cibo come due cani
randagi.
«Quando
apriamo i regali, mamma?»
chiese Susy, in direzione della signora Sogno.
La
donna, quella sera vestita con estrema eleganza, le sorrise e le
sussurrò di
aspettare almeno la fine della cena.
«A mezzanotte,
Susy»
si aggiunse Mr. Marco, facendo brillare gli occhi della bambina.
Dopo
poco però la piccola s’imbronciò. «Ma io vado a letto alle nove e
mezza!»
protestò sveglia.
Tutti
scoppiarono in una fragorosa risata, compresi quei due testoni di
Simone e
Leotordo. Nonna Annunziata faceva un andirivieni tra il salotto e la
cucina,
portando ogni volta un vassoio di cibo che avrebbe fatto invidia alla
FAO.
«Ancora un po’
di purè, tesoro?»
mi chiese Miss Sogno, con quei capelli biondi così soffici e cotonati.
Declinai
educatamente. «Non
ho più posto, davvero,»
sorrisi.
«Se continua a
mangiare così, dovrò allargare le porte di casa,» sghignazzò Simone, con il tatto
di un sasso.
Gli
rifilai una dolorosa gomitata nel costato, mentre Susanna rideva come
una pazza
assistendo a tutte le nostre scaramucce. Agli occhi degli altri
sembravamo una
vecchia coppia di fidanzati che si stuzzicava.
Di
male in peggio.
Dopo
una quindicina di dolci, tra panettoni, pandori, torroni e quant’altro,
cominciammo a sparecchiare la tavola e a sistemare i regali sotto
l’albero del
salotto.
Susanna
ci seguiva come un falco. Quella bambina riusciva a mettermi un’ansia
addosso
che davvero sfiorava l’incredibile.
«Posso?» chiese,
leggendo il bigliettino del primo regalo.
Rose
cercò lo sguardo del marito, sorridendo e chiedendo silenziosamente il
permesso. Gabriele guardò la figlia con un amore negli occhi che di
rado si
poteva leggere nello sguardo di un uomo. Soprattutto di un tipo così
bello.
«Dai Susy,
aprili pure,»
disse.
La
piccola cominciò a leggere i bigliettini applicati sui pacchi, mentre
tutti noi
sorridevamo vedendola schizzare da una parte all’altra del salotto
distribuendo
i doni ai legittimi proprietari. Ruben regalò a Sofia un plettro in
avorio,
autografato da un famosissimo cantante country a me del tutto
sconosciuto,
mentre lei gli donò un vecchio libro. Una prima edizione di Hemingway.
Rose
e Gabriele si regalarono a vicenda dei bracciali con i loro nomi incisi
sopra,
identici e di una finezza unica, mentre Susanna quasi urlò quando
scartò la sua
Barbie nuova di zecca.
Vedere
come la magia del Natale rendeva tutti un po’ più felici, mi fece
improvvisamente sentire una forte nostalgia di casa.
Mi
alzai un attimo, con la scusa del bagno, e mi rintanai in camera della
piccola.
C’era una finestra, così mi affacciai fuori e spiai le strade deserte
in quella
notte magica per quasi tutto il mondo. Tirai fuori il cellulare dalla
tasca e
lo esaminai per qualche tempo.
Forse
avrei dovuto telefonare, almeno lasciare un messaggio.
Il
ricordo di tutti quei Natali passati a Tivoli, nell’immenso salotto
della
tenuta di mio padre, con i nonni e tutto il parentato. Dovevo ammettere
che in
fondo mi mancava la mia famiglia.
«Si può?» chiese una
voce, facendomi sobbalzare.
Mi
voltai e incrociai gli occhi verdi di Leonardo. Rimasi di sasso perché
mai mi
sarei aspettata di trovarmelo di fronte.
«Certo, entra
pure. È la camera di tua nipote,» gli dissi con ovvietà.
Lui
si infilò le mani nelle tasche dei jeans e mi raggiunse vicino alla
finestra.
Guardò fuori, senza dire nulla. Anche perché non c’era nulla da dire.
«Ti ha mandato
Cel?»
gli chiesi allora io, rompendo il silenzio.
Leonardo
scosse la testa, sorridendo. «Ho
notato che hai il mio stesso sguardo, quando penso a casa,» smozzicò,
stavolta puntando quelle iridi verdi nelle mie.
«Ah…» ammisi,
senza contraddirlo.
Lui
mi osservò dietro quelle folte ciglia brune. «Sarà che Simone è troppo preso
da sé stesso, ma è evidente che ti senti sola in quella casa enorme.
Non ci
vuole un genio per capirlo.»
La
discussione stava prendendo una brutta piega.
Mi
spostai a sedere sul letto della bambina, tutto per allontanarmi da
quella
finestra. «Non
è come pensi. Alla fine ho scelto io di trasferirmi qui. È solo che
durante le
feste è normale sentire la mancanza della propria famiglia,» mi
giustificai.
«Soprattutto
se ne hai una così numerosa davanti agli occhi,» ridacchiò lui.
Da
una parte Simone e Leonardo si somigliavano, ma avevano qualcosa di
profondamente diverso che li divideva. Oltre che gli anni.
Leonardo
adesso sapeva condividere e non pensava più solo a sé stesso.
Di
questo doveva ringraziare soprattutto Celeste.
«Sai,
quand’ero piccolo odiavo venire qui per Natale. Non sopportavo Simone e
l’idea
di passare le vacanze con lui,»
mi confessò imbarazzato.
«E cos’è
cambiato da allora?»
ridacchiai io, alludendo alle attuali litigate tra lui e il cugino.
Anche
il calciatore sorrise. «Hai
ragione, ma adesso sento che non è più come prima. Sarà che da quando
sto con
Celeste, il mondo mi sembra sempre un posto migliore. Nemmeno Simone
riesce a
rovinarmi le giornate.»
«Già,
dev’essere bello,»
commentai malinconica.
«Comunque devo
ammettere una cosa,»
disse lui, guardandomi. «Ho
trovato mio cugino meno irritante del solito. Magari è perché ha te
come
valvola di sfogo?»
ridacchiò.
Quel
suo commento mi fece arrossire, soprattutto perché nonostante avessi
tentato
più volte di ignorare il calciatore dell’Arsenal, lui tornava e
ritornava
indietro verso di me, come un boomerang.
Abbassai
lo sguardo e mi fissai insistentemente le Chanel color vernice che
Sofia mi
aveva prestato per quell’occasione, senza sapere cosa dire.
«Forse,» bofonchiai,
a corto di parole.
Strano.
Già.
Leonardo
non sembrò troppo convinto da quella mia mezza risposta, però non ebbe
tempo di
approfondire perché la figura di Simone apparve sulla soglia.
«Bene, bene,
bene, l’Altro Sogno fa conoscenza con l’avvocato tascabile. Cugino,
prendi
nota, potrebbe servirti un giorno, quando divorzierai.»
In
quel momento avrei volentieri spiattellato tutto il caso, soltanto per
fargliela pagare alla lingua lunga di Simone e a tutta la sua
arroganza, ma mi
zittii.
«Taci,
deficiente. Dovresti soltanto ringraziare che c’è zio di là, sennò ti
avrei già
gonfiato.»
«Provaci.»
«Mi stai
provocando?»
Roteai
gli occhi verso l’alto, stufa di tutta quella dimostrazione di
testosterone.
Stavo per alzarmi e andarmene, lasciandoli a loro stessi, quando la
piccola
Susanna entrò nella stanzetta come un treno in corsa.
Saltellò
euforica tra le lunghissime gambe di Simone, urlandogli «Zietto!
Zietto! Zietto!»
e porgendogli un pacchetto che avrei riconosciuto anche senza le lenti
a
contatto.
Quand’è
che ti sei data allo
shopping?
Simone
fissò l’involucro di carta rossa con un’espressione stralunata. «È petté! È
petté!»
gridò la bambina, col fiatone a causa della corsa.
Il
calciatore allora si abbassò e afferrò il pacchetto tra le mani, mentre
Susanna
gli si avvicinò all’orecchio. Riuscii a recepire solo un “È da parte
di…” e poi
più niente, ma gli occhi scuri e sgranati di Simone fecero tutto il
resto.
Era
stata Sofia a costringermi ad accompagnarla per gli ultimi regali di
Natale ed
io avevo acconsentito, di mala voglia. Quella ragazza era capace di
farmi fare
di tutto, soltanto con uno sguardo. Ed era stato in quella bottega, lì
su
Portobello Road che la ragazza mi aveva dato un colpetto sul gomito e
mi aveva
indicato una vetrinetta nascosta.
Su
di un piedistallo di plastica spiccava la copertina, un po’ sbiadita,
di un
vecchio album dei Queen, forse uno dei più rari in commercio.
Lo
sguardo di Sofia era totalmente rapito da quell’oggetto e pensai lo
volesse
acquistare, ma lei mi sorrise e disse solamente «A Simo piacerebbe molto.»
Dopo
cinque minuti ero uscita dal negozio con centoventi sterline in meno e
un
regalo per quel brontolone che non si meritava un bel niente dalla
sottoscritta.
Ed
ora i suoi occhi mi scrutavano guardinghi, quasi come se non si
fidassero del
pacco sottile che teneva tra le mani.
Leonardo
prese Susy tra le braccia e, con una scusa qualsiasi, si allontanarono
quando
la tensione si riuscì a tagliare anche con un coltello.
«Perché.» disse
solamente, ma senza punto di domanda. Era un’affermazione più che altro.
Era
logico che volesse sapere il motivo per cui avevo speso tanti soldi per
lui,
per una persona che avrei dovuto ignorare.
Feci
spallucce e mi avvicinai di nuovo alla finestra, come se quello
spicchio di
cielo fosse una qualche specie di rifugio, di via d’uscita per fuggire.
«Mi hai dato
una casa senza che ti dessi nulla in cambio, era il minimo,» mi
giustificai.
Beh,
avevo avuto tempo per studiarmela bene.
A
Simone ovviamente quella risposta non piacque.
«Bugiarda.
Perché mi hai fatto questo regalo, proprio questo, quando soltanto ieri
hai
detto che tra noi non ci sarà mai un cazzo di niente?»
Aveva
cominciato ad alzare la voce. Nessuno doveva accorgersi di questa
discussione,
tanto meno suo padre. C’erano troppe cose in ballo, troppi segreti e
bugie.
«Smettila di
urlare,»
lo redarguii.
«Non sto
urlando,»
insistette lui.
Ci
fissammo per quelli che parvero interi minuti, senza dire una parola.
«Sofia mi ha
dato la dritta, altrimenti ti avrei regalato la solita cazzata. Non
leggerci
nulla tra le righe perché non c’è niente,» tagliai corto, spicciola.
Simone
indietreggiò, ferito. «Allora
non c’era bisogno mi regalassi nulla. Hai solo buttato i soldi.» Gettò il
vinile sul letto della nipote.
«Ehi! Quel
coso vale mezzo stipendio!»
gridai arrabbiata.
Dopo
tutto quello che avevo fatto per lui, questo era il ringraziamento?
Simone
colmò in pochi passi la distanza che ci separava, afferrandomi il viso
con
forza e schiacciandomi sul vetro della finestra. Lo sentii incrinarsi e
gracchiare. Temetti che si potesse rompere.
I
suoi occhi erano come due tizzoni di brace, infuocati. Tutto il suo
corpo
ardeva di rabbia a contatto col mio ed io pensai davvero di ardere.
La
fiamma e la falena.
«Solo una cosa
volevo da te, e tu me l’hai negata. Sono stufo dei tuoi giochetti, dei
tuoi
subdoli tentativi. Simone Sogno non si fa abbindolare da una cosina come te!» minacciò.
Cosina?
«Ha parlato Mr.
LeFrancesiCeL’hannoProfumata,» lo
stuzzicai, anche se ero nella posizione meno adatta per sfidarlo.
«Ehi,» ci
interruppe Sofia, mentre Simone si allontanava velocemente da me e
spariva nel
corridoio. La biondina mi corse in contro, pretendendo delle
spiegazioni.
«È solo
nervoso,»
lo giustificai, afferrando il vinile abbandonato sul letto.
Sofia
allora lo prese e mi sorrise. «Vedrai
che capirà, gli ci vuole soltanto tempo.»
Le
avrei voluto chiedere cosa ci fosse
da capire, ma la famiglia Sogno richiedeva la mia presenza per un
mega-torneo
al Mercante in fiera, così dovetti rimandare.
La
chiave girò nella toppa di casa Sogno alle due del mattino, con il
resto della
truppa che a mala pena si reggeva in piedi.
Quando
entrammo in salotto, fummo accolti dalle lucette intermittenti e
fastidiose
dell’albero di Natale che nonna Annunziata ci aveva costretto a montare
per
forza, dicendo è la tradizione!.
«Beh, ragazzi,
Buon Natale,»
sbadigliò Leonardo, puntando la camera da letto.
Celeste
mi sorrise e lo seguì, lasciando me e Simone nella penombra della
stanza.
In
quel silenzio c’erano una miriade di parole non dette e di frasi
smozzicate a
metà, così tagliai la testa al toro.
«’Notte,» e mi diressi
verso il divano.
Simone
allora mi bloccò, senza muoversi. «Non dovevi.»
Sbuffai
infastidita, pensando volesse ricominciare l’ambaradan di prima. «Ho detto che
è una sciocchezza, e poi non ti pago nemmeno l’affitto…»
«No,» mi fermò
lui. «Dico
che non dovevi, perché io non ti ho fatto nulla,» ammise imbarazzato.
Alla
fine Sofia era riuscita a fargli accettare il disco dei Queen, così mi
ero
sentita più leggera, così come il mio povero portafogli.
«L’ho fatto
perché mi andava, non per ricevere qualcosa in cambio,» gli spiegai,
manco avesse quattro anni.
Di
punto in bianco parve proprio imbronciarsi. «Ma io volevo regalarti qualcosa…
solo non sapevo cosa…»
incespicò.
Vedere
Simone così imbarazzato mi fece tremare il cuore. Lo sentii caldo
contro il mio
petto e pensai che ormai il suo muro si era quasi del tutto abbassato,
lasciandomelo vedere per davvero.
Persa
nei miei pensieri, non mi accorsi nemmeno che si era pericolosamente
avvicinato, sfiorando le mie labbra appena appena.
Fu
un tocco leggero, quasi impercettibile, come quando la neve tocca il
terreno.
Nessun rumore.
Eppure
mi sembrò che l’orchestra sinfonica stesse suonando la nona di
Beethoven.
«Un bacio,» soffiò a
pochi centimetri dalle mie labbra.
Chiusi
gli occhi e assaporai quel momento. «Non avresti dovuto darmelo?» gli
domandai, aprendo la mano e facendo un chiaro riferimento al ditale di
Peter e
Wendy.
Simo
afferrò l’occasione al volo, perché non era stupido. «Questo è un
bacio vero, Peter,»
disse, ridacchiando.
Non
riuscii a nascondere un sorriso imbarazzato, mentre lui mi dava la
buonanotte e
spariva nella sua stanza. Poco dopo udii le note di “Princess of the
Universe”
che risuonavano per tutta la casa.
Il
venticinque e il ventisei di Dicembre si susseguirono più o meno uguali
alla
Vigilia, con l’unica differenza dei chili in più che stavo mettendo.
Ero più
che sicura che l’ago della bilancia mi stesse prendendo in giro, perché
ero più
larga che lunga.
«Hai finito lì
dentro?»
urlò Simone infastidito.
«Un attimo!» ringhiai,
salendo di nuovo sulla bilancia.
Niente,
segnava sempre un miliardo di chili in più di quando ero partita
dall’Italia.
Maledetto stress del lavoro e maledette vacanze!
«Guarda che
per quante volte tu salga e scenda da lì, sarai sempre una balena,» ridacchiò
divertito.
Brutto
deficiente.
Il
Natale, passando, si era portato via quel po’ di zucchero che io e il
calciatore avevamo condiviso quel ventiquattro a sera, lasciandoci
letteralmente con l’amaro in bocca. Ci ignoravamo a vicenda, come
doveva essere
e come sarebbe sempre stato.
Prima
che ritornassi a lavoro, l’argomento centrale di ogni nostra giornata
era
diventato il famigerato Capodanno.
C’era
chi – come Leonardo – lo avrebbe voluto passare in strada, vedendo i
fuochi
artificiali da Westminster Bridge e il Big Ben che segnava la
mezzanotte, chi –
come Sofia – che avrebbe voluto partecipare a qualche bella festa
oppure chi –
come la sottoscritta – sarebbe rimasta volentieri in casa ad urlare
contro le
cazzate che sparavano in televisione.
«Insomma?
Avete trovato qualcosa?»
chiese Celeste, sorseggiando del caffè.
Sofia
continuò a digitare sul suo tablet. «Conosco un paio di persone che
potrebbero farci entrare, ma è in abito lungo e non so quanto siate
disposti a
mettervi in tiro…»
rispose mogia.
«Ah no! Io da
pinguino non me ce vesto!»
protestò immediatamente Leonardo.
In
fondo alla sala si udì la lunga sghignazzata di Simone.
Erano
un continuo battibeccare quei due, peggio di me e il calciatore poco
tempo
prima…
…prima
di cosa?
Rabbrividii
e mi concentrai sul discorso delle ragazze.
«Non c’è una
via di mezzo?»
domandò Celeste dispiaciuta.
Lei
e Leonardo sarebbero ripartiti il primo Gennaio, perciò le sarebbe
dispiaciuto
non passare il Capodanno più indimenticabile di sempre.
«Stasera
potremmo provare questo locale qui, se è carino prenotiamo anche per il
31. Che
ne dici?»
propose la biondina. «Tu
e Simo ci state?»
Visto
e considerato che il giorno successivo avrei ricominciato il tirocinio,
non
sarebbe stata una saggia idea frequentare un disco-pub fino a tarda
notte.
«Io passo, mi
fido di voi,»
tagliai corto.
Simone
aveva sentito tutto, così si aggregò perché era lampante come la luce
del
giorno che non aveva alcuna voglia di passare la serata con Leonardo e
Ruben.
Li
definiva “La mummia e lo sfigato”.
Quella
sera nessuno, nemmeno i meteorologi, si sarebbero mai aspettati una
nevicata di
quella portata. Alle nove di sera cominciò ad alzarsi il vento, così
Celeste e
gli altri si bardarono nel vero senso della parola, preparandosi ad
uscire.
L’idea
di rimanere sola in casa con Simone non mi allettava, ma il calciatore
si era
chiuso in camera da un po’, perciò mi preparai con cura le repliche di
Law&Order con una bella cofana di pop-corn.
«Sicura che
non vuoi venire?»
mi domandò per la centesima volta la mia migliore amica.
Sapevo
che era sempre un’occasione per stare insieme, prima che lei partisse.
Purtroppo non avevo proprio voglia di uscire.
«Giuro che a
Capodanno sarò l’anima della festa!» le sorrisi.
Li
vidi uscire dal portico e prendere un taxi, mentre fuori il vento
faceva
fischiare i vetri delle finestre. Non sapevo spiegarne il motivo, ma un
brivido
di freddo mi attraversò la schiena.
Mi
avvolsi nelle coperte, accoccolandomi sul divano, e spingendo “play”
sul
lettore DVD. Finalmente una serata made
in Venera, era da tanto che volevo dedicare un po’ di tempo a
me stessa.
«Ma non l’hai
già visto?»
Ovviamente
avevo parlato troppo presto.
Mi
voltai per vedere Simone che sbocconcellava un pacchetto di patatine.
Non gli
era bastato mangiare come uno sfondato per tutte le vacanze di Natale?
«E anche se
fosse?»
sibilai.
Law&Order
era una serie che seguivo da tutta una vita, ed era grazie a lei che
avevo
coltivato il sogno di diventare avvocato. Sapevo ogni episodio a
memoria e non
mancavo di fare una maratona fino a notte fonda pur di ricordare gli
episodi
salienti.
Il
calciatore sgranocchiò una patatina e si sedette vicino a me. «Stasera c’è
la bufera,»
disse, guardando fuori dalla finestra.
«Non credo…» sospirai,
sperando che davvero non si mettesse a nevicare di brutto.
Celeste,
Sofia e gli altri erano ancora a quel disco-pub. Non so davvero come
sarebbe
potuta finire se le previsioni di Simone si fossero avverate.
Passò
un’ora, poi altre due. Le puntate della serie tv si susseguivano l’una
dopo
l’altra e così finirono ben presto tutti i pop-corn, soprattutto a
causa dell’Ingordo.
Proprio
quando la notte sembrava troppo oltre per dar luogo alla famosa
nevicata, il
vento s’alzo all’improvviso e la bufera arrivò. Fu un cambiamento
repentino,
del tutto inaspettato.
Le
luci cominciarono a tremolare, mentre dalle fessure delle finestre si
udiva
chiaramente il fischio del vento che ululava come infuriato. Guardai
fuori e
fiocchi di neve grandi come noccioline che picchiavano forte sul vetro,
così mi
spaventai e raggiunsi il cellulare.
«Cazzo, come
faranno a tornare a casa?»
imprecai, riferendomi a Celeste e gli altri.
Simone
andò a sigillare meglio i vetri e spense subito il televisore. «Non puoi fare
molto da qui,»
rispose risoluto.
Digitai
il numero della mia migliore amica, ma un sms mi bloccò dal premere il
tasto
“chiama”.
Ven fuori
c’è l’ira divina.
Rimaniamo
al pub finché non migliora. Tranquilla.
‘Notte.
Era
un messaggio scritto in tutta fretta, l’evidenza non lo negava, ma mi
sentii
più sollevata. Almeno erano al chiuso.
Simone
mi fu subito alle spalle. «Ti
pare che quella genia della tua amica rimaneva in mezzo alla strada?» Contribuì,
forse senza saperlo, a farmi sentire bene.
Purtroppo
durò poco, perché passati tre minuti esatti la corrente saltò
lasciandoci
completamente al buio.
«Ma che
cazzo…?»
imprecò subito Simone, muovendosi a tastoni lungo tutto il suo
appartamento. «Uno paga
trecento sterline al mese di elettricità e questo è il risultato! Siamo
a
Londra non in Burundi, porco cazzo!»
Sorrisi.
In fondo era divertente sentirlo smadonnare in questo modo.
Era
come se lo rendesse più… umano.
Ci
dirigemmo verso la stanza meno usata della casa, ovvero la sala hobby o
“studio” – l’unico problema è che lì non ci aveva mai studiato nessuno.
Dopo
aver recuperato una torcia elettrica, Simone mandò al diavolo cinque o
sei
volte gli alari che non volevano saperne di disporsi parallelamente e
si
adoperò per accendere il fuoco.
Anche
perché si stava gelando.
I
termosifoni funzionavano ad elettricità, un po’ come gli scaldini a
presa, e
non essendoci più corrente da un’ora, la casa era diventata un blocco
di
ghiaccio.
«Sicuro di
esserne in grado?»
gli chiesi, dopo che il quindicesimo cerino si ruppe per il troppo
entusiasmo –
per non dire ira – che ci stava mettendo per accenderlo.
«Cosa credi?»
Alzai
le mani in segno di scuse, sorridendo. «Non ti facevo molto stile Evervood[1]» ridacchiai.
Simone
sbuffò e finalmente riuscì a dar fuoco ad un pezzo di diavolina che usò
per
appiccare la legna.
«Tu e le tue
stupide serie TV,»
bofonchiò poco dopo, soddisfatto dal risultato.
Ci
sedemmo comodamente sul tappeto persiano che si trovava sotto il
divano. Posai
la schiena proprio su quest’ultimo, per avvicinarmi meglio al tepore
del
camino. Avevamo entrambi una trapunta addosso, trafugata dai letti
ormai vuoti
e ce ne stavamo in silenzio a vedere le fiamme che lentamente
crescevano
d’intensità.
Quelle
fiamme che mi ricordavano troppo Simone.
Senza
quasi accorgermene, sentii il peso del regalo di Jamie che mi pesava
enormemente al polso. Era come avere una catena, un’incudine che era
sempre lì
presente a ricordarmi quanto fossi stata meschina nei suoi confronti.
Così
penserai a me anche quando
non ci sono.
Oppure
mi sarei dimenticata di lui.
«Guarda che
l’ho visto, non c’è bisogno che lo nascondi,» commentò Simone, fissando il
fuoco.
Lo
guardai e le sue iridi si erano tinte di arancione, quasi come se
inghiottissero le fiamme quasi a nutrirsene. Lui era il fuoco e da esso
traeva
la forza.
«Non lo stavo
nascondendo,»
mi giustificai, fissando le trame del tappeto.
Sospirò.
«Te
l’ha regalato l’avvocato, vero?»
mi domandò, anche se sapeva quale fosse la risposta. Infatti, non mi
lasciò
nemmeno il tempo di parlare. «È
sempre un passo avanti a me.»
«Non è mica
una gara!»
sbottai, stufa di quei continui paragoni con James. «Nessuno di
voi due è in competizione per qualcosa, e avete rotto di farvi la
guerra!»
Il
calciatore mi rivolse uno sguardo stupito. «Quindi anche Mr. Scopa-nel-culo
si mette in guardia, eh? Sa che Simonator è in azione!»
Lo
fissai allibita. «Simonator?» chiesi,
quasi avendo paura della risposta.
Simone
annuì sempre più convinto. «È
forte… tipo terminator.»
«È ridicolo,» commentai,
avvolgendomi meglio nella trapunta.
«Mh, meglio di
TermoSifone è…»
borbottò, guardandomi. «Hai
freddo?»
mi chiese poi.
«Sto gelando.»
La
maledetta elettricità non voleva saperne di tornare, mentre fuori si
continuavano
ad udire i sibili della tempesta di neve che aveva afflitto Londra
quella
notte. Il fuoco non bastava a riscaldarmi.
«Vieni qui,» mi disse
all’improvviso, aprendo la trapunta e invitandomi a rannicchiarmi
contro il suo
corpo.
Sta
scherzando, spero!
Lo
guardai come se fosse un marziano che abitava su Venere.
Lui
s’indispettì. «Ehi!
Non ho secondi fini, se è questo che pensi…» si lagnò, come un bambino di
cinque anni.
Cercai
di fidarmi, o per lo meno ci provai. Il suo corpo era caldo, bollente a
contatto
col mio e nella mia testa c’era sempre quella piccola voce che mi
raccontava
ancora la storia della falena e della fiamma. Forse mi sarei bruciata,
ma era
così caldo.
«Okay forse
magari potrei avere dei secondi fini…» sghignazzò ed io gli rifilai un
pizzicotto sulla pancia. «Ahi!»
«Te lo meriti!» sorrisi,
inspirando il suo odore attraverso la lana del maglione rosso.
Rimanemmo
in silenzio per qualche tempo, guardando il fuoco che danzava davanti
ai nostri
occhi. Era bello sentirsi al sicuro dentro quella stanza, con solo la
luce del
camino ad illuminare il volto cesellato di Simone.
Un
volto giovane, da ragazzo, ma estremamente affascinante.
Sentii
la gola farsi secca e il respiro diventare pesante. Mi alzai la manica
del
maglioncino per toccare il braccialetto di James, come monito per non
commettere stupidaggini.
«Lo ami?» mi chiese
Simone di punto in bianco.
Sgranai
gli occhi e lo fissai. «Come
ti viene in mente?»
Lui
scrollò le spalle.
Lo
guardai di sbieco, mentre ravvivava il fuoco con un altro legnetto.
C’era
qualcosa in lui di diverso, come se stesse smettendo quella maschera da
spocchione ormai indossata da sempre.
«Per te è
così?»
gli chiesi.
I
suoi occhi scuri m’inchiodarono. «Non è fatto per stare con te,» disse
sicuro.
Risi
ad alta voce, credendo mi stesse prendendo in giro. «Ah, davvero?
E allora chi sarebbe adatto a stare con me, sentiamo,» lo provocai.
Ero
più che sicura che avrebbe detto una frase del tipo “Il sottoscritto,
ovviamente” oppure “Qualcuno con cotesta gnoccaggine” e si sarebbe
indicato
senza pudore.
Invece
tornò a guardare il fuoco. «Qualcuno
a cui non serva comprarti,»
soffiò.
Fu
in quell’istante che sentii qualcosa dentro di me fare crack,
rompersi, disintegrarsi in mille pezzi. Il peso del
braccialetto era diventato insostenibile, perciò lo tolsi e lo posai su
un
tavolinetto lì accanto. Simone non aveva indicato sé stesso, non era
stato
egoista, ma aveva detto solo la pura verità.
Non
ero fatta per essere comprata da regali, viaggi, ville megagalattiche.
Cose che
entrambi potevano darmi senza difficoltà.
No,
lui aveva centrato il punto. Al mio fianco ci sarebbe stato soltanto
colui che
non aveva alcun bisogno di spendere fior fior di soldi per avermi.
Sapeva bene
che non una poco di buono, una a cui bastava la notorietà per
concedersi.
Ero
diversa. Una donna con la testa sulle spalle.
Allora
mi avvicinai e cercai le sue labbra. La prima volta in assoluto che
prendevo
l’iniziativa, perché ne sentivo il bisogno e non potevo più resistere.
Era da
tempo che andava avanti tutta quella storia e per quanto lo negassi a
me
stessa, mi ero bruciata.
Ora
le mie ali stavano prendendo fuoco, mentre le braccia di Simone si
avvolsero
attorno alla mia vita, mentre le sue mani esplorarono la mia carne,
toccandola
e marchiandola come se avesse paura di perdermi.
I
baci si rincorrevano l’uno dopo l’altro, le lingue si lambivano e così
i
sospiri.
«Toglila…» soffiò
contro la mia pelle, strattonando la maglietta con disegnata sopra una
renna
buffissima.
Mi
scostai quel tanto da liberarmi subito dell’indumento, poi andai a
reclamare la
sua. L’odore di Simone era così forte da farmi girare la testa,
impedirmi quasi
di respirare.
Stai
bruciando, non c’è più
ossigeno attorno a te.
Non
me ne importava. Fuori c’era la tempesta, il mondo intero avrebbe anche
potuto
essere spazzato via in quell’istante.
Le
sue labbra erano così morbide, così gonfie e tumide di baci. Gli
afferrai i
capelli e li scostai dal viso, guardandolo. Era così bello da far male.
«Sei
bellissimo,»
mi sfuggì, quasi senza riflettere.
Lui
sorrise e parve arrossire. «Lo
so,»
rispose però strafottente.
Per
dispetto gli morsi il labbro inferiore ma subito dopo lo vezzeggiai con
una
carezza di lingua, per scusarmi. Simone ne approfittò per assalire il
mio collo
e annusarmi.
«Anche tu lo
sei, Ven,»
sussurrò dolcemente.
«Non è vero,» lo
contraddetti, rovesciando la testa all’indietro e sospirando in balia
delle sue
carezze esperte.
Fu
allora che il gancio del reggiseno fu slacciato, che le sue mani si
mossero
così bene e così veloci che non capii più niente. La sua bocca era
ancora sul
mio orecchio.
Una
cascata di brividi mai provata prima.
Era
fuoco che lentamente mi avvolgeva.
«Oh, credimi,
non puoi capire l’effetto che mi fai,» sussurrò ancora, facendomi sentire
in qualche modo speciale.
Fu
il momento per me di sfoderare le mie, quasi inesistenti, tecniche di
seduzione, così cominciai a baciarlo ovunque. Iniziai dalla clavicola,
da
quella pelle bianchissima e da quei muscoli così definiti. Pensai a
quante donne
avevano amato quel corpo, a quante prima di me lui aveva sussurrato
quelle
parole.
Mi
sentii male.
Lo
sentii sospirare, ma una sua carezza mi riportò alla realtà. Incrociai
quegli
occhi così scuri da inghiottire qualsiasi fonte di luce presente in
quella
stanza. Sapeva bene come attirare l’attenzione.
«Continua…» smozzicò
lui, guardandomi. Mi diede un bacio d’incoraggiamento, accarezzandomi
il viso. «Lasciati
andare.»
Sarei
davvero riuscita a farlo? Che fine aveva fatto la Ven fredda e
razionale?
Gli
afferrai la mano, ferma sulla mia guancia. Avrei potuto scostarla,
alzarmi e
tornarmene in salotto. Sarei potuta sopravvivere
a tutto quello, sfuggirgli.
Ma
era troppo tardi.
Così
i vestiti sparirono e fummo nudi, circondati dal buio e dal rumore del
vento.
Gli
fui immediatamente sopra, quasi a volerlo travolgere, soffocare, come
se
volessi impormi prima che lui mi spezzasse. Voleva prendersi tutto da
me, anche
il respiro.
«Vuoi condurre
i giochi?»
ridacchiò malizioso, afferrandomi il labbro tra i denti.
Lo
zitti tirandogli i capelli dietro la nuca e baciandolo a modo mio.
Violento.
Stare
con lui mi trasformava in una persona diversa, mi privava del
controllo. Cercai
di tenere le redini, ma sapevo di stare cadendo, di star precipitando
in un
baratro sempre più profondo.
Per
quanto fossi convinta che Simone fosse lungi dai miei interessi, non
riuscivo a
stargli lontano. Non solo fisicamente.
Ne
ero dipendente.
Il
sesso era sempre stato al secondo piano nella mia vita, quasi una
sfumatura di
contorno. Ora ne sentivo l’assenza, ora che quel vuoto era stato
colmato.
«Muoviti…
così…»
Mi artigliò i fianchi e mi incitò ad aumentare il ritmo.
Rovesciai
la testa all’indietro mentre sentivo il calore del fuoco che mi
bruciava la
schiena. Le fiamme reali e quelle di Simone che mi stavano lentamente
consumando, annientando, che mi stavano portando via anche l’ultimo
briciolo
d’aria.
«Simo... ah...
ne...»
gemetti, artigliandomi alle sue spalle e stringendo il suo viso al mio
petto.
Aveva
rannicchiato il volto contro di esso, lo aveva avvicinato al viso, e
continuava
a sussurrarmi all’orecchio parole dolci, frasi di canzoni ormai senza
tempo.
Continuai
ad aumentare d’intensità, rincorrendo un piacere che da troppo tempo mi
era
mancato mentre anche il suo corpo vibrava.
Sentii
le sue labbra lambire la mia pelle e incendiarla centimetro dopo
centimetro,
semplicemente da quel contatto. Avvertii dei brividi sconvolgermi le
membra.
Ormai mancava poco tempo e il piacere stava diventando del tutto
insostenibile.
«N-No.. non ce
la fac-cio…»
gridai, quasi, sconvolta da quelle meravigliose sensazioni.
Non
ebbi tempo di pensare, razionalizzare o riflettere su cosa dire.
Riuscivo
soltanto ad essere guidata da qualcosa
che rischiava di esplodermi dentro.
«Non fermarti…
mh…»
soffiò lui, e per la prima volta lo percepii al di fuori del muro.
Posai
la testa sulla sua spalla mentre sentii un grido raschiarmi la gola e
Simone
accompagnò quel piacere con delle spinte lente e delicate.
Nemmeno
due secondi dopo cercai le sue labbra disperatamente, e muovendomi
involontariamente gli mandai una scarica di piacere.
Lui
sibilò e strizzò gli occhi.
«Scusa.» sorrisi,
imbarazzata.
Distolsi
lo sguardo immediatamente, per non farmi scorgere da lui. Era davvero
troppo
farsi vedere così debole, così vulnerabile.
I
suoi occhi erano lì, pronti ad essere accarezzati. Non riuscii a
resistere
lontano dal loro tocco, perché erano parte di quel fascino che ormai mi
aveva
assoggettata. Mi davano dipendenza.
Così
mi scostai quel tanto da scendere dalle sue gambe.
Ora
era davvero nelle mie mani, ora le parti si erano invertite ed io avrei
fatto
di lui ciò che volevo. Lo accompagnai verso l’orgasmo senza mai
smettere di
fissare il suo viso, ogni sfumatura delle sue espressioni.
La
verità era che entrambi odiavamo i legami, ognuno di noi rincorreva la
libertà,
l’indipendenza, quasi servisse per respirare.
Ed
ora ci eravamo trovati. Due persone libere, insieme.
Simone
allora mi spostò i capelli dietro un orecchio, sorridendo. Lo baciai
perché non
potevo davvero farne a meno.
Non
in quel momento. Non più.
Stai
lì e guardami bruciare, ma
va bene perché mi piace il modo in cui fa male.
Trullallero, trullallà, il capitolo l'ho aggiornato più di un mese fa...
Tralasciando la filastrocca mongola, mi nascondo per aver scritto
questa specie di pornazzo natalizio, tra l'altro partorito a
Ottobre/Novembre mi pare XD Solo io riesco a scrivere pornazzi di
Natale.
Comunque, le feste sono passate #sigh e al loro posto sono arrivati gli
esami #sob, ma io e Nessa ce l'abbiamo fatta ad aggiornare questa
storiella con un capitolo piccantO **
Detto ciò mi aspetto come minimo delle fanghérlate o qui o sul gruppo -
me lo dovete perché non mi farò più vedere dalla veGGogna - per dirmi
come vi aspettate stia andando in porto questa storia.
Bene? Male? Ci vorrei esse io al posto di quella scema di Ven? (sì)
Baciotti esamosi (?) Marty :3
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