Betrothed

di LindaBaggins
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4. L’ORGOGLIO DEI NANI

La sala dei banchetti, quella sera, era piena di risate, di persone, di fumo e di musica.
Capitava di rado, ad Erebor, che qualche ospite venisse in visita, ma quando accadeva, re Thròr non badava a spese pur di assecondare ogni suo desiderio. Se c’era qualcosa che amava ancora più dell’oro e delle ricchezze, era il loro sfoggio plateale e orgoglioso. Due inclinazioni che, il più delle volte, faticavano ad andare d’accordo.
In onore della visita del governatore e di sua figlia, nell’ampia sala da pranzo del palazzo reale di Erebor erano state predisposte ben cinque lunghe tavole, intorno alle quali, seduti l’uno accanto all’altro su interminabili panche, stavano tutti i nani appartenenti alle famiglie più importanti del reame sotto la montagna. Re Thròr sedeva a capotavola della tavola centrale, su una sedia di legno intagliato dall’alto schienale, guardandosi intorno con aria soddisfatta e compiaciuta. Alla sua destra, al posto d’onore, per l’occasione non sedeva suo figlio Thràin, ma Eevar di Dale, vestito con i suoi abiti migliori in scintillante seta dorata.
«Vostra figlia non è ancora arrivata, governatore…» osservò Thràin, dalla sinistra del re, sorseggiando una coppa di vino. Il governatore rispose con una breve risata di circostanza.
«Oh, la puntualità non è mai stata una dote di mia figlia» disse in tono indulgente. «Dovete scusarla, mio principe.»
«Ho paura di dovermi assumere la responsabilità di questo ritardo, miei signori» si intromise Uren, seduto alla sinistra di Eevar. «Sono andato a farle visita poco fa per sincerarmi che non avesse bisogno di nulla, e temo di averla trattenuta più del dovuto. Ma sono sicuro che arriverà a momenti.»
Thorin, dal suo posto sulla panca alla destra di suo padre, non riuscì a trattenere uno sbuffo sarcastico. Per quanto lo riguardava, Elinor di Dale avrebbe potuto benissimo rimanere nella sua stanza per tutta la sera, e, visto che c’era, anche per il resto di quella sua visita ad Erebor. Sarebbe bastato ignorare suo padre e quel suo strano consigliere, e avrebbe potuto fingere che quella fosse semplicemente una festa tra amici, come tante altre a cui aveva partecipato in passato. Ma, per quanto si sforzasse, le parole che Elinor gli aveva sputato in faccia con tanto disprezzo quel pomeriggio bruciavano ancora troppo, perché potesse riuscire a mettere da parte la rabbia almeno per qualche ora. Fece roteare il vino dentro al proprio calice, fissandolo con aria cupa. Se quella era la persona con cui avrebbe dovuto passare il resto della sua esistenza…una piccola, spocchiosa, viziata amica degli Elfi… Preferì respingere con decisione i pensieri di fuga e di ribellione che gli si affacciarono prepotenti alla mente, e si appellò con tutte le sue forze al senso di onore e di dovere che provava nei confronti di suo padre, di suo nonno e del suo popolo.
«Stai fissando quel vino come se volessi affogartici dentro» osservò proprio in quel momento la voce burbera di Dwalin. Il nano, la testa semicalva coperta di tatuaggi in scrittura nanica e la sua solita cresta di capelli che lo faceva somigliare ad un gallo da combattimento, si lasciò cadere pesantemente nel posto vuoto accanto a lui, che Thorin gli aveva tenuto per essere sicuro di trascorrere la serata con almeno una faccia amica a confortare il suo pessimo umore.
Thorin rispose con un sorriso amaro, continuando a fissare il bicchiere e cercando di ignorare il fastidioso cicaleccìo del governatore, che stava conversando con suo padre e suo nonno. «Non so se valga la pena di affogarsi per una cosa del genere, ma forse se ne bevo abbastanza potrei riuscire a dimenticare tutto…per un po’, almeno.»
«Mi sembra un’ottima soluzione, fratello» concordò Dwalin assestandogli una poderosa pacca sulla spalla. «E sarò ben felice di darti manforte. Vino!» gridò ad una sguattera nana che passava poco distante da lì, e che si affrettò a raggiungerlo per riempirgli la coppa. Mentre la donna si allontanava, Thorin non potè fare a meno di notare che Dwalin voltava impercettibilmente la testa per seguirla con lo sguardo, e l’occhiata di apprezzamento che l’amico lanciò verso il suo fondoschiena pieno e sodo lo fece sogghignare malgrado il suo malumore.
«Rolgha è una brava ragazza, ed è anche piuttosto carina» disse in tono eloquente. «Sarebbe ora che tu le dicessi qualcosa di gentile, a parte gridarle ‘Vino!’ o ‘Birra!’ o ‘Altro montone!’.»
«Non essere ridicolo…» bofonchiò Dwalin, che, Thorin lo sapeva bene, si sarebbe fatto spellare vivo piuttosto che dimostrare apertamente il suo affetto per qualcuno. Persino con suo fratello Balin, che era il suo unico familiare e la persona a cui era più attaccato al mondo, non si sbilanciava mai troppo, ma Thorin aveva imparato a riconoscere quanto fosse felice di vederlo dalla forza con cui lo prendeva a testate ogni volta che si salutavano.
Il principe dei nani fissò per un attimo il fondo della sua coppa ormai vuota, e, inspiegabilmente, l’altezzoso viso di Elinor, gli occhi verdi carichi di disprezzo e di superbia, si materializzò in mezzo alle ultime gocce di vino. La rabbia, tornando prepotentemente a galla, gli fece sbattere stizzosamente il calice sul tavolo.
«No, hai ragione» ringhiò, afferrando la caraffa e versandosi altro vino. «Meglio tenersi il più lontano possibile dalle donne. Non portano altro che guai!»
Dwalin lo fissò di sottecchi per qualche secondo, capendo perfettamente che, in quel momento, il punto della questione non erano affatto lui e Rolgha. D’altronde, era più che abituato ai bruschi cambiamenti d’umore di Thorin.
«Beh, vedila in questo modo, amico» disse in tono spiccio. «Quando sarete sposati, che le piaccia o no, la ragazza dovrà venire a vivere in questo posto, e a quel punto avrà due possibilità: farsene una ragione e iniziare a farselo piacere, oppure continuare ad odiarlo ma tenendo la bocca chiusa. Quindi, comunque vada, le cose possono solo migliorare.»
Dwalin non aveva tutti i torti, rimuginò Thorin. In fin dei conti, quello non era né il primo né l’ultimo matrimonio combinato della Terra di Mezzo, e non gli risultava che nessuno fosse mai morto a causa di una moglie sgradita. Lui era un ano, un figlio di Durin. Sopportava il freddo, il cadlo, la fatica e il dolore meglio di qualunque altra creatura della Terra di Mezzo. Sarebbe sopravvissuto anche a questo. E se Elinor di Dale avesse di nuovo espresso le sue opinioni su Erebor con così poco riguardo per il suo orgoglio, l’avrebbe rispedita dagli Elfi, dove, ne era certo, sarebbe stata ben felice di stare! Dopotutto, nessuno li obbligava a stare insieme, una volta pronunciate le promesse di matrimonio…
 Si stava giusto crogiolando in questo confortante pensiero, quando Elinor comparve sulla porta della sala. Immediatamente, il brusio generale diminuì di volume, e molte teste si voltarono nella sua direzione, mentre la ragazza si guardava intorno, titubante e palesemente imbarazzata. Non doveva essere molto abituata a ricevere tutte quelle attenzioni, riflettè Thorin, osservandola con aria truce dal suo posto nella tavola centrale. In effetti, sembrava che stesse facendo del suo meglio per mettersi il meno possibile in mostra, e questo, visto il modo superbo e impertinente con cui gli si era rivolta quel pomeriggio, lo sconcertava non poco. Notò che, esattamente come quando aveva fatto il suo ingresso nella sala del trono, non indossava gioielli. Quei suoi vividi occhi verdi screziati d’oro sembravano essere la sola cosa che avesse il permesso di scintillare sul suo corpo, e se quel pomeriggio non fosse stata così arrogante, Thorin avrebbe potuto persino spendere qualche secondo ad ammirarli come, effettivamente, si meritavano. Ma nessuno poteva guardare dall’alto in basso lui e il suo regno senza guadagnarsi il suo eterno disprezzo. Nessuno. Ed Elinor di Dale avrebbe potuto essere affascinante quanto la più bella dama elfica o la più splendida regina degli uomini, questo non avrebbe cambiato la sua opinione su di lei!
La guardò quindi muovere qualche incerto passo nella sala, seguita dagli sguardi di tutti i presenti, che, al suo passaggio, chinarono brevemente il capo in un rude segno di saluto - il massimo che la sobria etichetta nanica poteva consentire loro – fissandola con lo sguardo traboccante di disprezzo.
«Thorin!» sibilò suo padre, assestandogli una gomitata nelle costole e facendogli un discreto segno con il capo in direzione della ragazza. Thorin, per un attimo, valutò la possibilità di ignorare l’ordine di Thràin e tornare a dedicarsi al boccale di birra che si era appena riempito, lasciando che Elinor trovasse da sola la strada per il suo posto a tavola.
«Thorin
L’insistenza di suo padre fu tale, e lo sguardo d’avvertimento che gli lanciò fu tanto eloquente, che fu costretto ad alzarsi dal suo posto per andare incontro a Elinor.
«Mia signora» disse a denti stretti quando le fu davanti, piegando la testa in un rigido cenno di saluto. Si sarebbe rifiutato persino di guardarla, se il tono con cui Elinor gli rispose non l’avesse preso alla sprovvista. Si sarebbe aspettato un atteggiamento altezzoso, sprezzante, da parte sua. Si sarebbe aspettato di veder brillare la sfida, in quegli occhi del colore della foresta baciata dal sole. Invece, non ci fu nulla di sgarbato nel modo in cui la ragazza rispose al suo saluto, e quando Thorin alzò gli occhi su di lei, si accorse che le sue labbra erano piegate in un timido sorriso. Questo non servì affatto a placare la rabbia di Thorin, anzi, la rese, se possibile, ancora più bruciante e furiosa.
Messa di fronte alla scelta di passare i seguenti dieci anni della mia vita sepolta dentro una montagna oppure in un luogo aperto, verde e spazioso, ho preso la decisione più congeniale alla mia natura, ovvero quella che somigliasse il meno possibile ad una prigione…
Davvero quella ragazzina pensava che bastasse sbattere le ciglia e fargli gli occhi dolci, per fargli dimenticare l’offesa di appena qualche ora prima? Se davvero era così ingenua da credere una cosa del genere, le avrebbe fatto vedere di quel che era capace l’orgoglio nanico! Avrebbe fatto in modo che in futuro ci pensasse due volte, prima di insultare apertamente il suo regno e parlare con tanto disprezzo di Erebor!
Afferrò bruscamente la mano che Elinor gli tendeva, fulminandola con un’occhiata che fece morire subito il sorriso sulle labbra della ragazza. «Se volete farmi l’onore…» ringhiò, dandole un piccolo ma chiaramente stizzoso strattone per invitarla a seguirlo.
Elinor, costretta a fare buon viso a cattivo gioco, si affrettò a trasformare la sua espressione delusa in un sorriso ancora più ampio. «Con immenso piacere…» rispose tra i denti, seguendolo docilmente verso la sezione della tavola centrale dedicata alla famiglia reale e ai suoi ospiti. Mentre passavano, i nani seduti sulle panche alzarono tutti insieme i loro calici di vino e i loro boccali di birra verso di loro, in un silenzioso cenno di saluto e di augurio. Thorin non li degnò di un solo sguardo. In realtà, nemmeno li vide. La sua mente era troppo ribollente di collera repressa, per riuscire a fargli percepire qualcos’altro che non fosse lo sgradito contatto della sua mano ruvida su quella sottile di Elinor. Dovette esercitare un notevole autocontrollo, per non stringerla in una morsa e stritolargliela fino a farla gridare di dolore. Persino il suo profumo lo infastidiva. Lo sentiva salire su per le narici, annebbiandogli il cervello come quando beveva troppa birra… Robaccia elfica, senza alcun dubbio! A una vera figlia di Durin non sarebbe mai passato per la testa di impregnarsi di un olezzo tanto stucchevole!
«Ah, Elinor!» esclamò gioviale il governatore quando, con grande sollievo di Thorin, finalmente arrivarono all’altezza dei propri posti. «Ci stavamo giusto chiedendo che fine avessi fatto!»
«Sono mortificata, padre» rispose Elinor in tono di scusa. «Ero molto stanca quando sono salita nelle mie stanze, e devo aver dormito troppo. Perdonatemi, maestà» aggiunse rivolgendo un piccolo inchino a Thròr e poi a Thràin. Il re, troppo impegnato a rigirarsi tra le dita con sguardo adorante una delle posate d’oro, a malapena la sentì. Suo figlio, invece, le rivolse un ruvido sorriso e la invitò a sedersi.
«Accomodatevi, Elinor» disse Thràin, indicandole il suo posto sulla panca. «Stanno giusto per servire la prima portata. E voi, laggiù!» gridò con voce tonante rivolto ai nani che, sistemati sul fondo della sala, avevano il compito di intrattenere gli invitati. «Non state lì a contarvi i peli della barba! Voglio musica, nel nome di Durin!»
Immediatamente un’allegra melodia di flauti e di tamburelli invase la grande sala dalle pareti di pietra, mentre il vociare e gli schiamazzi dei nani riprendevano forte come prima, e dalla cucina iniziavano ad uscire vassoi carichi di prelibatezze di ogni genere, che venivano posati in mezzo alle lunghe tavole insieme ad altre caraffe piene di vino e birra.
Thorin si lasciò cadere pesantemente al suo posto, mentre di sottecchi osservava Elinor sollevare con grazia il vestito bianco e azzurro polvere bordato di nero – di chiara foggia elfica – e sistemarsi tra suo padre e Uren, che era prontamente scivolato un po’ più a sinistra per farle posto. Non gli sfuggì lo sguardo carico di cupidigia che il consigliere nano fece scorrere lungo la figura di Elinor, e si disse che, evidentemente, la (discutibile) fortuna di vedersi destinare in sposa quell’irritante ragazza era capitata al nano sbagliato. Afferrò una coscia di montone dal vassoio che gli era stato posato davanti e la addentò come se volesse sbranarla.
La serata si trascinò lentamente. O almeno, questa fu l’impressione di Thorin, che, nonostante la musica, il buon cibo e l’atmosfera tutto sommato allegra, non ricordava di aver mai preso parte ad un banchetto tanto deprimente in vita sua. Si era chiuso in un cupo e ostile mutismo, e aveva lasciato ben volentieri che fosse suo padre ad occuparsi di intrattenere gli ospiti. Alzava lo sguardo dal piatto soltanto per riempirlo di altro cibo, per sogghignare ai sarcastici borbottii di Dwalin, e, di tanto in tanto, per fulminare Elinor con occhiate piene di rancore.
In realtà, notò che la ragazza non sembrava affatto a disagio in quella situazione che, per lei, avrebbe dovuto essere perlomeno insolita. Invece di piluccare il cibo, lamentarsi per l’assenza di vegetali nei vassoi e osservare con tacito e malcelato disprezzo lo schiamazzare e l’ingordigia dei nani, Elinor mangiava con gusto qualsiasi cosa le fosse messo davanti e rideva, sinceramente divertita, alle battute che suo padre e gli altri invitati intorno a loro dispensavano con voce gioviale e arrochita dal bere.
Quando, per quella che doveva essere la quarta o al quinta volta, la risata argentina di Elinor si levò sopra il frastuono della sala da pranzo, Thorin alzò gli occhi su di lei e la osservò con gli occhi ridotti a fessure al di sopra del bordo del bicchiere che si era appena portato alle labbra. La ragazza, i denti bianchi scoperti e le guance accese dal caldo, dal cibo e dal vino – che Thorin aveva visto scomparire rapidamente dal suo calice già una volta – rideva con la mano poggiata sul petto ad un commento di sua sorella Dìs, seduta un paio di posti dopo Dwalin, a proposito del russare notturno di suo marito.
«E credimi, nemmeno prenderlo a calci in quel suo enorme sedere servirebbe a qualcosa!» stava dicendo Dìs, gesticolando, come suo solito, più del necessario, e non curandosi del fatto che il suo vocione dal timbro maschile svettasse di gran lunga su tutti gli altri.
Thorin grugnì. Il fatto che sua sorella fraternizzasse con Elinor gli piaceva assai poco, ma la verità era che Dìs aveva la tendenza a fraternizzare con chiunque stesse fermo abbastanza a lungo da permettergli di farlo. Sotto questo aspetto, era perfettamente chiaro a chi il loro padre avesse trasmesso il suo carattere… E in più, essendo cresciuta in una famiglia composta quasi esclusivamente di maschi (la loro madre era morta di parto dando alla luce Frèrin), Dìs sentiva continuamente il bisogno di una figura femminile con cui dare sfogo alla parte più frivola di sé. Non si stupiva che, appena aveva avuto la possibilità di attaccare discorso con Elinor, ci si fosse buttata a capofitto…
Mentre rimuginava su questi pensieri e malediceva sua sorella per la sua esuberanza decisamente fuori luogo, i suoi occhi incontrarono quelli di Elinor. La ragazza tentò di nuovo di rivolgergli un cauto sorriso, ma Thorin, fermamente deciso a comportarsi come se lei non esistesse, la fulminò con l’ennesima occhiata sprezzante e distolse lo sguardo, fingendosi particolarmente interessato alla conversazione tra suo padre e il governatore a proposito di una futura mediazione di quest’ultimo in un’alleanza tra Nani ed Elfi. Purtroppo, viste le vicende di quel pomeriggio, anche questo argomento non fece altro che alimentare il fuoco della sua rabbia, e Thorin avvertì un impellente bisogno di alzarsi da tavola, uscire da quella sala e andare a battere il martello su un pezzo di ferro incandescente per sfogarsi. Mai come quella sera il sapore del cibo gli era sembrato così amaro, la confusione così fastidiosa e la musica così irritante.
Stava giusto per mettere in atto il suo proposito, adducendo come scusa un improvviso bisogno di andare ad assolvere i suoi bisogni corporei, quando suo padre si alzò in piedi, battendo le mani per richiamare l’attenzione generale.
«Adesso che siamo tutti quanti sazi» annunciò, annunciò, allargando le braccia e volgendo intorno uno sguardo soddisfatto e leggermente annebbiato per il vino e la birra «credo che le danze possano avere inizio! Che le tavole siano subito addossate al muro, e che tutti quanti dimostrino ai nostri ospiti come festeggiamo gli avvenimenti lieti qui ad Erebor!»
Un applauso di approvazione, condito di urla e fischi entusiasti, accolse l’ordine di Thràin, e immediatamente l’intera sala si mobilitò per creare uno spazio abbastanza largo che potesse fungere da pista da ballo.
A Thorin non rimase che abbandonare i suoi propositi di fuga e unirsi agli altri invitati nello spostamento delle tavole e delle panche del banchetto. L’unico che sembrava condividere il suo scarso entusiasmo era Dwalin, che Thorin, da quando lo conosceva, non aveva mai visto prendere parte ad una danza: silenzioso, burbero e poco incline alle frivolezze com’era, preferiva sempre starsene in disparte in compagnia di un boccale di birra. Il che era uno dei motivi per cui Thorin, in questo molto simile a lui, lo considerava il suo migliore amico.
Mentre spingevano la tavola verso un lato della sala, Thorin notò che Thròr scambiava poche parole sottovoce con Thràin e il governatore, tra le quali il giovane nano credette di distinguere qualcosa come “mal di testa” e “cattiva digestione”; poi, dopo aver rivolto ai suoi ospiti un frettoloso e assente sorriso di scusa, il re sparì fuori dalla sala. Thorin aveva dei sospetti su dove potesse essere andato, e il fatto che suo padre si ostinasse ad evitare il suo sguardo gli confermò che l’assenza di Thròr non era dovuta né al mal di testa, né tantomeno alla cattiva digestione.
Di certo, questo non contribuì a migliorare il suo umore. Recuperò il proprio bicchiere e si lasciò cadere accanto a Dwalin su una delle pan che ormai addossate al muro della sala, un nodo di dolore e di pena che andava a stringergli il cuore e ad aggiungersi alla rabbia che, ormai da tutta la sera, non sembrava avere intenzione di abbandonarlo.
Mentre l’orchestra cominciava a suonare la prima canzone e gli invitati si dirigevano verso la pista o si disponevano intorno per assistere, il suo sguardo si posò di nuovo, casualmente, sulla causa della sua collera. Elinor, il braccio allacciato in atteggiamento fraterno con quello di Dìs, ridendo per qualcosa di cui solo loro erano a conoscenza, si avvicinava alla folla di nani che si erano riuniti intorno alla pista da ballo. E per un brevissimo istante, osservandola scrutare con gli occhi verdi accesi di eccitazione le coppie che già danzavano, a Thorin parve che non fosse più la giovane donna superba e orgogliosa che quel pomeriggio gli aveva parlato con tanto disprezzo di Erebor; per un brevissimo istante, fu una ragazza come centinaia di altre, che, ad una festa, rideva in modo sciocco per qualsiasi banalità e non pensava ad altro che a divertirsi, aspettando che una mano galante si tendesse verso di lei per invitarla a ballare. Fu un’impressione che durò il tempo di un battito di ciglia. Il tempo che Elinor, quasi avesse avvertito il suo sguardo su di sé, si voltasse verso di lui per sorridergli ancora una volta; il tempo che l’orgoglio di Thorin, sotto l’innocenza fin troppo disarmante di quello sguardo, sia riaccendesse in un repentino meccanismo di difesa.
Di nuovo, distolse bruscamente lo sguardo, fingendo di dedicarsi con profondo impegno al boccale di birra ancora mezzo pieno che aveva in mano. Fu quasi un perverso piacere notare, con la coda dell’occhio, il sorriso di Elinor spegnersi lentamente, e trasformarsi in un misto di delusione e di disappunto.
“Farai bene ad imparare cosa vuol dire offendere un nano, ragazzina!” pensò Thorin, in uno slancio di feroce orgoglio. Grazie al cielo, l’etichetta nanica – sempre che ne esistesse una – non prevedeva che il futuro sposo avesse il dovere chiedere alla futura sposa la prima danza. Era un compito che Thorin lasciava con estremo piacere a chiunque volesse offrirsi volontario. Quando rialzò lo sguardo, scoprì, come c’era da aspettarsi, che Elinor non aveva fatto fatica a trovare qualcuno che la invitasse a danzare. In quel momento, infatti, si stava dirigendo verso il centro della pista accompagnata cavallerescamente da Dori, un suo lontano cugino più basso di lei di tutta la testa, ma che in quel momento, impettito e orgoglioso di avere avuto il coraggio di chiederle il primo ballo, sembrava più alto di almeno tre spanne.
La canzone precedente giunse al termine, e l’orchestra ne iniziò un’altra, dal ritmo rapido, allegro e coinvolgente che spinse la maggior parte dei presenti ad accompagnare la musica battendo le mani. Dagli spazi vuoti tra una persona e l’altra, Thorin poté vedere Elinor fare del suo meglio per tenere il passo con il suo cavaliere, reggendosi l’orlo della veste e ridendo con le guance accese, la cangiante seta del suo vestito che ondeggiava e frusciava al ritmo della musica. Quando, sul finire della canzone, i suoi piccoli piedi sbagliarono un passo e la mandarono a sbattere contro Dori, facendolo finire rovinosamente gambe all’aria, nessuno sembrò seccato per l’interruzione o per la sua goffaggine. Al contrario, tutti scoppiarono in una fragorosa risata che, dopo qualche secondo di costernazione per il guaio combinato, contagiò anche Elinor.
«Perdonatemi, mastro Dori!» esclamò sinceramente dispiaciuta ma senza riuscire a trattenere l’ilarità, aiutando premurosamente il nano a rimettersi in piedi. «Temo di avere ancora molto da imparare sulle danze naniche!»
Proprio mentre Dori si profondeva in un inchino che lo portò quasi a sfiorare il pavimento con la punta del naso, assicurandole che non c’era nulla di cui scusarsi, Thorin vide farsi avanti suo padre, che, sorridendo bonariamente, chiese se la sua futura nuora gli avrebbe fatto l’onore di concedergli il ballo successivo.
«Beh, non sembra cavarsela poi così male…» osservò Dwalin, aspirando una boccata dalla pipa che aveva appena tirato fuori.
«Già» ringhiò Thorin, osservando Elinor prendere con un sorriso la mano di suo padre e lanciarsi con entusiasmo nella danza. «Un ottimo spirito di adattamento, non c’è che dire…»
Lo disturbava il fatto che nessun altro, a parte lui, stesse trattando Elinor come effettivamente si sarebbe meritata. Aveva sperato che la sua superbia di quel pomeriggio contribuisse a metterla in cattiva luce agli occhi degli abitanti di Erebor, e invece quella piccola serpe si era mostrata per tutta la sera così gentile, così disinvolta e così entusiasta di integrarsi nel mondo dei nani, che nessuno dei presenti, neanche volendo, avrebbe potuto prenderla in antipatia ed emarginarla. Paradossalmente, Thorin aveva l’assurda sensazione di essere lui, quello emarginato: era l’unico, in quella sala (a parte forse Dwalin, che era, come sempre, dalla sua parte), a sapere come lei fosse veramente, a sapere quali meschine bassezze erano in grado di uscire da quella bocca dalle labbra così rosee e piene; era l’unico, in quella sala, che lei non fosse riuscita ad ingannare con le sue moine e i suoi sorrisi. E il fatto che nessun altro riuscisse a rendersene conto, lo faceva andare, se possibile, ancora più in collera di quanto già non fosse.
Fu dopo un altro paio di danze, nelle quali Elinor fu accompagnata da due nani che Thorin conosceva ma di cui non ricordava il nome, che il giovane principe, alzando lo sguardo dall’ennesimo boccale di birra, vide la ragazza venire verso di lui con un cauto sorriso sul viso rosso per la fatica. Gli si fermò davanti, e Thorin sostenne per qualche secondo il suo sguardo limpido e allegro, ricambiando con uno di gelida sfida che Elinor parve non notare.
«Bene, direi che è giunto il momento di chiedervi di ballare, non credete?» esordì la ragazza, in tono ironico ma gentile. Thorin la fulminò con un’occhiata e tornò a dedicarsi al suo boccale di birra. Con la coda dell’occhio, percepì vagamente Dwalin che, accanto a lui, fumava con maggiore impegno di prima, facendo finta di guardare da un’altra parte.
«Io non ballo» rispose seccamente, prima di buttare giù un altro paio di sorsi. «Odio ballare.»
E odio anche voi.
Elinor fece finta di non aver sentito l’ostilità nella sua voce, e si sforzò di continuare ad essere gentile. «Oh, andiamo! Non mi direte che avete intenzione di passare il resto della serata seduto qui! Prometto che non vi pesterò i piedi, o almeno che farò del mio meglio!»
Thorin sbatté il boccale sul tavolo talmente forte che Elinor sobbalzò.
«Ho detto» sibilò avvicinando il viso a quello di lei «che odio ballare. E adesso, se volete scusarmi, ho bisogno di prendere una boccata d’aria!»
Fu una fortuna che nella sala ci fosse troppa confusione. Tutti erano troppo occupati a battere la mani per accompagnare la gente che ballava, per fare caso a loro, e Thorin, schiumante di rabbia, poté alzarsi dalla panca e dirigersi a grandi passi verso la terrazza senza che nessuno lo notasse minimamente. Non avrebbe sopportato sguardi curiosi, stupiti, o, peggio ancora, quello carico di rimprovero che sicuramente gli avrebbe riservato suo padre.
Si fermò soltanto quando raggiunse l’aria aperta, e anche allora gli ci volle qualche secondo prima di riuscire a tornare ad un respiro regolare. Si appoggiò alla balaustra di marmo bianco con entrambe le mani e fissò lo sguardo verso sud, dove le luci della città di Egaroth, tremolanti nell’aria tiepida della sera, avevano l’aspetto di un gruppo di grosse lucciole adagiate sullo specchio tranquillo del Lago Lungo. Il suo petto, sotto la camicia leggera di lino nero, si alzava e si abbassava irrequieto, le narici del suo naso affilato dalla forma regale si allargavano nervose.
Non era obbligato a trattenersi per tutta la sera, in fondo… Tra qualche minuto, quando avesse ritrovato il dominio di sè, avrebbe potuto andare da suo padre e pregare di scusarlo con i loro ospiti, perché era stanco e desiderava ritirarsi nelle sue stanze. Sperando che qualche ora di un buon sonno ristoratore avessero il potere di fargli ritrovare un minimo di serenità, e che riuscissero a fargli dimenticare quella orribile giornata…
«Thorin…»
Un rumore di passi leggeri alle sue spalle gli fece rovesciare la testa all’indietro ed emettere un profondo sospiro esasperato. Come si poteva essere così cocciuti? Non le aveva fatto capire abbastanza chiaramente che non gradiva la sua presenza e che sarebbe stato meglio che lo lasciasse in pace? Non l’aveva trattata in modo abbastanza brusco e distaccato? Che cos’altro voleva che facesse, nel nome di Durin? Prenderla di peso e chiuderla a chiave nelle sue stanze per risparmiarsi una volta per tutte la sua presenza?
Elinor, forse incoraggiata dal suo silenzio, fece qualche altro passo avanti.
«Thorin, io… io credo che siamo partiti con il piede sbagliato.»
L’irritante ovvietà dell’affermazione gli strappò una risata sarcastica alla quale non si disturbò a fare seguito con una risposta. L’espressione “essere partiti con il piede sbagliato”, nel loro caso, gli sembrava un notevole eufemismo…
«Vorrei davvero che mettessimo da parte le nostre… incomprensioni e cercassimo di diventare… ecco…» continuò Elinor in tono nervoso. «Beh, perlomeno mi piacerebbe che cercassimo di conoscerci meglio. Ci troviamo entrambi in una situazione che avremmo volentieri evitato, e sarebbe tutto molto più semplice se smettessimo di farci del male a vicenda.»
Aveva esposto il tutto in modo molto rapido, come se temesse di perdere il coraggio mentre parlava. All’attenzione di Thorin, però, non era sfuggito quell’ “incomprensioni” che persino Elinor aveva esitato prima di pronunciare, e che più di ogni altra cosa lo fece boccheggiare di sdegno.
«Voi le chiamate incomprensioni?» disse con una calma quasi mortale, voltandosi lentamente a guardarla. «Avete deliberatamente offeso la mia casa e la mia gente, e disprezzato con la più odiosa arroganza il luogo dove dovrete passare il resto della vostra vita! Sono lieto di vedere come i vostri amici Elfi vi abbiano ben istruita nel guardare dall’alto in basso tutto ciò che abbia a che fare con la stirpe di Durin!»
Elinor stirò le labbra in un fiacco e amaro sorriso. «Non posso negare che non ci abbiano provato» ammise con leggera ironia. «Ma sono orgogliosa di poter dire che i loro tentativi hanno avuto scarso effetto su di me. In fondo, rimanete sempre la mia gente, Thorin…che io lo voglia oppure no.»
Il disprezzo negli occhi di Thorin non accennò nemmeno per un istante a diminuire. «Le vostre parole di questo pomeriggio lasciavano intendere tutt’altro.»
La ragazza sollevò le sopracciglia, sorpresa. «Non credete che il mio comportamento di stasera vi abbia dimostrato a sufficienza il contrario?» domandò, piegando leggermente la testa di lato e fissandolo con fare interrogativo. «Sono stata bene, in mezzo a tutta quella gente, sono stata bene davvero. Perlomeno, molto meglio di quanto avrei mai creduto possibile…»
«Smettetela!» la interruppe Thorin con violenza, voltandosi del tutto verso di lei e raggiungendola con due lunghe falcate. Elinor, intimorita, arretrò d’istinto di un paio di passi, ma non poté evitare di ritrovarsi, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, il viso di Thorin a pochi centimetri dal suo. «Forse sarete riuscita ad ingannare tutte quelle persone» continuò il principe dei Nani in un sibilo furibondo «ma sappiate che non potete ingannare me! Io ho visto il disprezzo con cui guardavate le sale di Erebor, ho sentito l’arroganza con cui ne parlavate, e se pensate che lascerò che qualche sorriso e qualche danza mi faranno dimenticare quello che avete detto, vi sbagliate! Voi non avete idea, non avete nemmeno vagamente idea di quanto questo regno significhi per me! Ho dedicato la mia vita ad Erebor, gli ho sacrificato la mia libertà, e non permetterò a nessuno di insultarlo impunemente!»
Senza che Thorin se ne rendesse conto, la sua voce era aumentata gradualmente di volume, e quando infine giunse al termine della frase, il nano si accorse di stare quasi gridando. Ancora una volta, dovette ringraziare il rumore e la confusione che regnavano all’interno, perché se la sala fosse stata anche solo leggermente più silenziosa, in quel momento tutti si sarebbero voltati a guardarli. Invece, nessuno sembrava fare caso a loro. La musica continuava, allegra come sempre, e creava uno strano contrasto con la tensione e la rabbia che aleggiavano sulla terrazza.
Elinor aveva abbassato lo sguardo, ammutolita dalla collera delle parole di Thorin, e adesso si fissava le mani, deglutendo a vuoto. L’ombra che era scesa sul suo bel viso faceva sembrare impossibile che fosse la stessa ragazza che un momento prima saltava allegramente in mezzo alla pista da ballo illuminando la stanza con la sua risata.
«A quanto pare, l’amore per la nostra libertà è un altro tratto che ci accomuna…» bisbigliò Elinor dopo lunghi secondi di silenzio. Non sembrava che si stesse rivolgendo direttamente a Thorin, ma più che stesse riflettendo tra sé e sé. Il nano, in ogni caso, mantenne un ostile e inferocito silenzio, continuando a fissarla dall’alto in basso con il più profondo disprezzo.
«Credo che abbiate ragione, comunque. Vi devo delle scuse» ammise la ragazza in tono più deciso, continuando a fissarsi le dita e tormentandosi l’orlo delle lunghe maniche della veste.
Thorin emise un suono sprezzante e si allontanò da lei, tornando a fissare il paesaggio notturno dalla balaustra della terrazza. «Risparmiate pure il fiato.»
«No, vorrei finire, se permettete.» Elinor esitò un momento, poi inspirò a fondo e andò avanti: «Ho sbagliato a parlare in modo così sprezzante, questo pomeriggio. Quella cosa su Erebor, e del fatto che la considerassi una prigione... » si concesse un sorriso amaro e scosse leggermente la testa. «Voglio dire, lo pensavo davvero, ovviamente… ma ero una bambina di dieci anni, allora, e avevo appena perso mia madre. E oggi ero molto nervosa, sicuramente l’avrete notato. Questa situazione non è facile nemmeno per me…»
«Vi prego di risparmiarmi almeno i sentimentalismi» replicò Thorin, glaciale. Invece di ammorbidirlo, tutto quell’affannarsi di Elinor per fargli le sue scuse e dimostrargli che le dispiaceva non stavano avendo altro effetto che renderlo ancora più aggressivo. Sapeva di essere in vantaggio su di lei, e ciò stava repentinamente trasformando il suo orgoglio in pura cattiveria. Voleva ferirla, e non si sentiva affatto in colpa per questo. Lei non aveva idea del passo falso che aveva fatto quel pomeriggio…
Il silenzio che seguì le sue parole gli fece chiaramente capire che il suo obiettivo era stato raggiunto. Poteva avvertire lo sconcerto di Elinor, la sua mortificazione, persino senza voltarsi a guardarla.
«Non…non avevo intenzione di…cercavo solo…» balbettò la ragazza, confusa, ma la rabbia di Thorin arrivò, ancora una volta a troncargli le parole sulle labbra.
«So cosa cercavate di fare, e non ho intenzione di stare ad ascoltarvi ancora!» sbottò il nano, spazientito. Elinor tacque del tutto e sostenne il suo sguardo, dove Thorin, come si aspettava, lesse la rassegnazione, ma non la sconfitta. E fu questo, più di ogni altra cosa, a spingerlo a continuare, affondando la lama tagliente dei suoi furenti occhi azzurri nella verde fermezza di quelli di lei.
«Vi do una prima informazione su di me, visto che avete un così ardente desiderio di “conoscerci meglio”» sibilò, calcando pieno di sarcasmo su ogni singola parola. «La mia stima, una volta perduta, è difficile, molto difficile da recuperare. E voi, ve lo assicuro, non ci riuscirete in breve tempo. Perlomeno, non entro la fine di questa serata! Quindi, se adesso volete farmi la cortesia di lasciarmi… vorrei rimanere da solo per un po’, se non vi dispiace!»


Elinor rimase per lunghi istanti con la braccia abbandonate lungo i fianchi, fissando stancamente la schiena immobile che Thorin, chiudendo in modo così brusco la questione, era tornato a rivolgerle.
Aveva dato fondo a tutte le sue risorse, e non era stato abbastanza. Aveva messo da parte il suo orgoglio arrivando a chiedergli perdono,e  non era stato abbastanza. Thorin figlio di Thràin, erede del Reame sotto la Montagna, si era rivelato un osso molto più duro di quello che si sarebbe aspettata. Che suo padre si sarebbe aspettato. Aveva sentito molte voci sulla proverbiale testardaggine dei nani, ma adesso era costretta ad ammettere che non le rendevano affatto giustizia.
Una cosa era certa: Non sarebbe rimasta lì a supplicarlo. La poca dignità che ancora le rimaneva non gliel’avrebbe permesso.
Sentendo un fastidioso magone afferrarle la gola, raccolse il vestito, si voltò e attraversò più in fretta che poteva la grande sala dei banchetti, dove gli invitati ballavano e festeggiavano ancora . Del tutto ignari, pensò Elinor in un momento di amara ironia, che quelli che avrebbero dovuto essere i protagonisti della serata avrebbero preferito trovarsi a leghe e leghe di distanza l’uno dall’altra.
Non sapeva dove era diretta. Sapeva soltanto che voleva trovare un posto, uno qualsiasi, dove potersi calmare senza che sguardi indiscreti la vedessero.
«Elinor, dove stai andando? Cosa è successo?»
Suo padre, vedendola passare, l’aveva afferrata al volo per un braccio, e adesso la scrutava con aria indagatrice. Elinor, mormorando scuse sconnesse e poco credibili, si divincolò dalla sua stretta e proseguì nella sua fuga, evitando di guardarlo in faccia. Non era dell’umore adatto per subire altri rimproveri come quello di qualche ora prima, e tantomeno se la sentiva di vedere la delusione dipinta negli occhi di suo padre.
Uscì dal grande portone di quercia e si incamminò nel corridoio principale, finché, qualche metro più avanti, scorse una piccola galleria secondaria. Vi si infilò senza esitazione e si abbandonò con la schiena contro il muro, respirando profondamente con gli occhi chiusi. Fu grata del fatto che, in quel punto del corridoio, la musica, la confusione e le risate si fossero affievolite fino a diventare un lieve brusio di sottofondo:  la testa le pulsava terribilmente, le orecchie le rimbombavano come se all’interno qualcuno stesse picchiando con tutte le sue forze su un tamburo.
“Calmati, Elinor. Riprenditi. Respira.”
Ma, per quanto ci provasse, non riusciva a scacciare del tutto lo strisciante senso di fallimento che pareva tenerle il cuore stretto in una morsa. Non aveva forse fatto del suo meglio, quella sera? Non aveva forse indossato il suo vestito più bello, non si era forse sciolta i capelli, perché lui la notasse? Non era forse stata splendidamente disinvolta, disponibile, allegra e gentile con tutti, sperando di impressionare, di riflesso, anche lui?
Nel nervosismo del momento, si ritrovò a ridere istericamente. La cosa più assurda di tutta quella faccenda, era che non aveva fatto nessuna fatica a comportarsi nel modo in cui si era comportata durante il banchetto. Avrebbe dovuto inscenare una recita, come voleva suo padre, e invece si era ritrovata a ridere perché si divertiva, a mangiare perché il cibo le piaceva, e a ballare fino a perdere il fiato perché era euforica. Si era ritrovata a stare bene, per la prima volta da giorni, e ad apprezzare sul serio le persone che le stavano intorno. Si era sentita davvero in mezzo alla sua gente, e non solo per sentito dire. Non aveva sentito il bisogno di fingere, nemmeno per un secondo. Il che, ovviamente, dava un valore diverso alle scuse che aveva appena fatto a Thorin. Le aveva rese…sincere? Non lo sapeva. Sicuramente, in ogni modo, le aveva rese più sentite di quanto sarebbero state se avesse dovuto affrontare quella conversazione appena uscita dalle sue stanze…
Diamine, era incredibile come la sua coscienza cercasse istintivamente di trovare giustificazioni e risultare più pulita di quanto in realtà non fosse! Era una cosa rivoltante…
Rivoltante, sì…
Ma necessaria.
Come aveva appena detto a Thorin, lui non era l’unico a tenere alla sua libertà.
«Fa caldo, là dentro, non è vero?»
Elinor sobbalzò così violentemente che il cuore sembrò volerle schizzare fuori dalla gola. Pensava di essere sola, e invece un nano tarchiato, dalla folta barba grigia divisa in due, la fissava con le mani giunte dietro al schiena e un sorriso bonario. Dovette riflettere per alcuni secondi, prima di capire chi fosse, ma poi, improvvisamente, ricordò: Balin, il fratello maggiore di quello che sembrava essere il migliore amico di Thorin. Sedeva a poca distanza dal re e da Thràin, e questi ultimi sembravano tenerlo in grande considerazione. “E’ stato gentile con me” parve di ricordare ad Elinor, ripensando confusamente al banchetto. “Mi sorrideva. Ha anche fatto un paio di battute per divertirmi…”
Una gentilezza che, a quanto pareva, non costituiva esattamente una dote di famiglia: suo fratello Dwalin, infatti, probabilmente per solidarietà a Thorin, l’aveva fissata con diffidenza per tutta la sera, gli occhi scuri ridotti a due fessure.
«Sì, avevo… bisogno di prendere una boccata d’aria» rispose Elinor con una mano sul petto, cercando di riportare ad una velocità normale il cuor impazzito per lo spavento.
«Vi capisco» disse Balin annuendo leggermente e lanciando un’occhiata dietro le sue spalle verso il corridoio principale, dove la musica e le risate della sala echeggiavano ancora senza dar segno di voler diminuire d’intensità. «Non è facile reggere fino alla fine ad una festa nanica, per chi non ci è abituato. A volte persino io sento il bisogno di uscire un momento per riprendermi, e sono un figlio di Durin dalla testa ai piedi!»
L’affermazione riuscì perlomeno a strappare ad Elinor un debole sorriso. Qualunque cosa Balin ci facesse lì, gli era stranamente grata per averla seguita. Il suo sorriso paterno e la luce di quieta riflessività dei suoi occhi stavano contribuendo a tranquillizzarla.
«Vi ha mandato mio padre, mastro Balin?» chiese alla fine, dopo un profondo sospiro di rassegnazione. «Devo tornare nella sala?»
Balin scosse appena la testa. «Non mi ha mandato nessuno. Ho solo notato che vi precipitavate fuori con aria strana, e ho deciso di venire a sincerarmi che andasse tutto bene.»
Aveva fatto, in poche parole, quello che avrebbe dovuto fare suo padre: preoccuparsi per lei. Elinor appoggiò la testa contro il muro e sorrise di nuovo. «Siete stato molto gentile. Vi ringrazio. In ogni modo, stavo…ecco…pensavo di ritirarmi nelle mie stanze. Ho paura che la mia testa stia un po’ risentendo di tutta l’allegria di stasera.»
Balin ricambiò il suo sorriso. «Già» rispose, osservandola attentamente con la testa leggermente piegata di lato. Era perfettamente chiaro, dal suo sguardo, che sapesse che cosa era successo tra lei e Thorin. Probabilmente doveva averli visti litigare sulla terrazza. Magari aveva persino catturato qualche stralcio della loro conversazione… Elinor sostenne il suo sguardo con aria disarmata, senza preoccuparsi nemmeno di nascondere il suo stato d’animo e i pensieri che, ne era sicura, le si leggevano in faccia come in un libro. Era troppo stanca per fingere di stare bene.
«Non dovete prendervela troppo, sapete» disse Balin dopo qualche secondo di silenzio, in tono rassicurante. «Thorin è fatto così, lo conosco da quando è uscito dal ventre di sua madre.» Scosse la testa semicalva, ridacchiando tra sé e sè. «Per Durin, come strillava! E non ha smesso di strillare per ore, finchè non è stato troppo stanco persino per tenere gli occhi aperti. Ci teneva a far sapere a tutti noi che non era affatto contento di essere stato strappato a quel luogo caldo e tranquillo, e si è assicurato di farcela pagare a dovere. E posso garantirvi che da quel momento in poi non ha mai smesso di portare fino in fondo le battaglie per vendicare le offese a suo danno.»
Elinor abbassò la testa. Capiva perfettamente quello che Balin stava cercando di dirgli.
«E’ burbero, orgoglioso, testardo e perfino scortese» continuò Balin in tono affettuoso, come se stesse decantando i pregi di Thorin, invece che elencandone i difetti. «E’ un carattere difficile, con cui avere a che fare. Questo dovete capirlo subito, bambina, o la vostra vita al suo fianco diventerà molto peggio di quello che è adesso.»
Elinor emise uno sbuffo tra l’ironico e il rassegnato. Grazie al cielo, lei non aveva bisogno di conquistare la fiducia di Thorin per tutta la vita. Le bastava riuscirci quel tanto che bastava per fare quello che doveva fare. Il che non rendeva certo la prospettiva più facile o più allettante, ma almeno poteva esserle di qualche consolazione…
«Mi odia…» disse stancamente, passandosi una mano sul viso provato dagli avvenimenti di quel primo giorno. «Mi ha detto cose terribili, prima, sulla terrazza…»
Balin sospirò e annuì. «I nani sono una razza coriacea» rispose. «Tenaci e tremendamente perseveranti in tutti i loro sentimenti… compresi quelli più sgradevoli, temo.»
«Quindi che cosa dovrei fare, adesso?»
Si scrutarono a vicenda per qualche secondo, Balin osservandola con una punta di preoccupazione e di dispiacere, Elinor cercando ansiosamente nell’espressione del suo viso un indizio, un'indicazione sulla strada da prendere. Poi, con sua grande sorpresa, il nano allargò le sue labbra in un sorriso.
«Niente» rispose semplicemente, poggiandole con delicatezza una mano sul braccio. «Solo aspettare. Presto o tardi, la situazione si risolverà da sola.»
Quel lieve tocco, così gentile e rassicurante, ebbe su Elinor un effetto benefico. La morsa di tensione che le afferrava lo stomaco si sciolse pian piano come per magia, e la ragazza, suo malgrado, si ritrovò a ricambiare il sorriso di Balin.
«E ora» disse il nano in tono più allegro, sollevando la mano dal suo braccio e porgendogliela con fare cavalleresco. «Non ho potuto fare a meno di notare la vostra ammirevole predisposizione per le danze naniche. Posso osare chiedervi il prossimo ballo?»
Elinor scoppiò a ridere. Tutt’a un tratto, l’idea di tornare nella sala e ricominciare a saltare in mezzo alla confusione, non le sembrava affatto infelice. Si era anche accorta di avere la gola secca e riarsa… qualche altro sorso di quella deliziosa e densa birra dorata di Erebor non le sarebbe affatto dispiaciuto.
Si staccò dal muro e afferrò con decisione la mano di Balin.
«Con vero piacere!» rispose sorridendo.


ANGOLO AUTRICE: Rieccomi di nuovo tra voi! Dopo la fatica immane del terzo capitolo, scrivere questo è stato quasi divertente, devo dire. Ho adorato descrivere il banchetto in onore di Elinor e di suo padre! Forse perché prendere parte a un banchetto del genere, dove ci si siede sulle panche, si mangia con le mani, si tracanna birra e poi si balla fino a stramazzare è il mio sogno? Mah…
Bene, come avrete visto la frattura tra Thorin ed Elinor si allarga sempre di più. Il mio cuore ha sanguinato, mentre descrivevo il loro litigio (e soprattutto la rabbia di quel cocciuto di un nano), ma spero di riuscire a ricucire questo brutto strappo molto presto
J
Buona lettura e a presto!

Linda




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