Warnings: Band!AU;
Drugs & Alcool Abuse; Lime; Violenza; Angst a fiumi;
Word
Count: 11616
(fdp)
Disclaimer: Niente
di mio, non ci cavo un euro.
N/A: Prima
di leggere questa cosa, voi di me dovete sapere due cose: la prima
è che sono una fan degli Oasis da quando avevo quindici
anni, la seconda è che questa è la prima volta
che scrivo una AU degna di questo nome. Il succo è: leggete
a vostro rischio e pericolo.
─
Scritta per il COWT3 @ maridichallenge,
prompt Band!AU, appunto. Tra l'altro questa challenge è
l'unica cosa sulla faccia di questa terra che riesce a farmi scrivere
mostri di diecimila e più parole in meno di quattro giorni.
Vi odio, Suthi. (Spoiler: non è vero).
─
Scritta anche per 500themes_ita,
prompt #2.
Terrore nella notte.
****
We dream our dreams alone
Nelle
ombre si nascondono mostri, Stefan ne è sicuro. Riesce a
vederli con la coda dell'occhio, ma spariscono non appena prova a
fissarli direttamente. Sono furbi. Sono subdoli. E soprattutto ci
sono.
Lo aspettano. Strisciano negli angoli bui del locale, evitando le luci
stroboscopiche, i neon colorati, i riflessi degli specchi che si
infrangono, creando arcobaleni, su tutte le superfici che incontrano.
Ne segue le linee con lo sguardo, muovendo solo gli occhi
perché sente la testa troppo pesante. Per non parlare delle
braccia, poi. Sono strette intorno ad un corpo morbido che sa di fumo e
alcool e fiori di campo, altro davvero non sa. Non sente più
niente. Sarebbe piacevole, se non fosse per le ombre.
Una
mano fredda gli accarezza una guancia. Dita piccole e ruvide si muovono
a tentoni fino alle sue labbra, e lui riconosce subito quei
polpastrelli rovinati dalle corde della chitarra. Crede di
riconoscerli, almeno. È tutto molto confuso. Qualcosa di
piccolo, ovale e compatto gli viene infilato in bocca. Fa per
protestare, per dire che ne ha già prese abbastanza per
quella sera, che il suo trip non è dei migliori, ma Rebekah
gli monta a cavalcioni sui fianchi e si avvicina fino a schiacciare la
fronte contro la sua. È sudata ed è bella, e sta
ridendo. Gli sussurra promesse indecenti nell'orecchio. Cosa vorrebbe
fagli in quel preciso momento, se non fossero in un locale pubblico,
seduti alla stesso tavolo dei suoi fratelli. Cosa gli farà
una volta che saranno usciti da quel posto, non appena avranno
raggiunto un posto tranquillo. Cosa potrebbe fargli per tutta la notte,
se lui riuscisse a starle dietro,ed
è una sfida, sì, vuoi forse tirarti indietro? La sua
voce è roca per il fumo e per la stanchezza di aver cantato
per ore e ore. È irresistibile.
Klaus
li guarda da poco lontano, sorridendo tra sé per
chissà quale ragione. Stefan vorrebbe dirgli di andare al
diavolo, invece ride quando incontra il suo sguardo attraverso il velo
dorato dei capelli di Rebekah. E ride anche quando la ragazza si china
a mordergli il collo, con così tanta violenza da farlo
sanguinare. Ci saranno lividi, domani. Forse anche cicatrici. Di sicuro
ci saranno mal di testa e incontri ravvicinati tra il contenuto del suo
stomaco e la tazza del cesso. Non importa. Ha smesso di avere
importanza già da tanto tempo.
Stefan
ingoia la pasticca. Le ombre si fanno più scure,
più vicine, più liquide. Gli sono addosso in meno
di un battito di ciglia.
~
Si
sveglia con un grido, respirando a fatica come se stesse affogando, con
gli occhi spalancati per il terrore e le lenzuola aggrovigliate intorno
al corpo come funi, circondata dal buio della sua camera da letto,
simile ad una nuvola di fumo nero e brulicante di mostri. Allunga una
mano fino al comodino per accendere la lampada, e nel farlo urta una
pila di libri ed un bicchiere d'acqua. Entrambi si infrangono al suolo,
con un tonfo secco il primo, e con lo stridente rumore di cristalli
infranti il secondo. Ma almeno c'è luce, adesso.
Mentre
gli strascichi dell'incubo si dileguano veloci come ratti spaventati,
Elena scende dal letto, mette in salvo i libri ormai zuppi nella
speranza che non siano troppo rovinati, e poi inizia a raccogliere i
cocci di vetro. Lo fa senza pensare, con le sopracciglia leggermente
aggrottate in un'espressione di concentrata confusione, e non si
accorge dei tagli che si procura alle dita né del sangue che
inizia a macchiarle il palmo della mano.
Katherine
la trova così: inginocchiata sul pavimento, con le mani
solcate da rivoli rossi e l'espressione persa nel vuoto. Rimane per un
attimo sulla soglia della porta, chiedendosi perché,
perché Elena non possa essere più forte,
perché tocchi a lei esserlo per tutte e due,
perché debba trovarsi in quella dannata casa, con quella
dannata sorella di cui non ha bisogno e che però non
può lasciare sola. Domande inutili. La vita non ti risponde
mai ai perché. È un compito che tocca ai
genitori, di solito, almeno fino a quando non vanno fuori strada con
l'auto e finiscono giù da un dannato ponte.
Elena
alza lo sguardo fino ad incontrare quello gemello della sorella. Forse
sarebbe più facile se avessero ancora delle lacrime da
piangere.
«Mi
spiace di averti svegliata.»
Katherine
scuote la testa. Avanza nella stanza, stando attenta a non calpestare
il vetro con i piedi nudi, poi si toglie la vestaglia e la usa per
prendere i cocci dalle mani di Elena e per raccogliere quelli che
ancora rimangono sul pavimento.
«Metti
dei cerotti su quei tagli. Il sangue è difficile da mandar
via dai vestiti e dalle lenzuola, lo sai.»
Sì,
Elena lo sa. Lo sanno entrambe. Non è il primo incidente,
quello.
Jenna
entra nella stanza nel preciso momento in cui Elena si rimette in
piedi, e le basta una sola occhiata al suo volto e alla sua stanza per
capire cos'è successo. Corre ad abbracciarla. Le mormora
cose sciocche e rassicuranti, bugie socialmente accettabili, gentilezze. Credevo
fossero i ladri. Va tutto bene. Sono qui. Ti faccio del latte caldo
oppure un tè. Lasciami prendere il disinfettante. Quel
bicchiere era proprio brutto, tra l'altro.
Scendono
in cucina, in un fruscio di sussurri e vestaglie leggere. Katherine
rimane sul pavimento a raccogliere frammenti di vetro macchiati di
sangue e a ripetersi che presto se ne andrà da quel posto.
Giusto il tempo di assistere ai funerali di suo padre, poi se la
filerà in Europa. Ancora pochi giorni e sarà di
nuovo libera.
Per
qualche motivo che tutti intuiscono e nessuno capisce davvero, le bugie
sembrano sempre più credibili di notte.
~
Picchietta
con le dita sul bancone dell'infermeria della scuola, sempre
più nervoso, irritato per il modo in cui tutti si rivolgono
a lui chiamandolo Signor
Salvatore,
come se non fosse passata giusto una manciata di anni da quando anche
lui era un loro studente. Le responsabilità non gli hanno
tinto i capelli di grigio, ma gli hanno messo comunque un titolo
davanti al cognome, a quanto pare. Risparmia sulla tinta, ma niente di
più.
Scrive
il suo nome su tutti i fogli che gli mettono davanti, ascolta per
metà un'infermiera che gli parla di influenze, di cibi non
molto sani, della mensa che in effetti ― detto
in totale confidenza ― non
è proprio la migliore in assoluto. Ascolta e annuisce,
pensando a quanto diamine devono essere stupidi per bersi quelle bugie
tutte le volte. E suo fratello non è nemmeno il migliore dei
bugiardi, anzi.
Alla
fine, comunque, lo lasciano andare. Stefan esce dall'infermeria
sorridendo, quel sorriso storto e un po' timido ― un sorriso che
spiega, almeno in parte, perché la gente si ostini a credere
a tutte le sue stronzate ― che in realtà è poco
più che una smorfia. Se non conoscesse bene suo fratello,
Damon penserebbe ad un sorriso derisorio, del tipo guarda,
te l'ho fatta di nuovo sotto il naso, e non solo non te ne accorgi, ma
ti senti anche in colpa,ma
Stefan non è fatto così. Quello è un
sorriso da mi
dispiace molto, non siate cattivi con me, non l'ho certo fatto apposta. Lo
conosce bene, anche se non si è mai lasciato fregare. Be',
quasi mai. Non molto spesso, diciamo.
Stefan,
comunque, smette di sorridere non appena l'infermiera smette di
guardarlo, e quando lo raggiunge il suo volto mostra solo una pesante
stanchezza. Gli rivolge un cenno della testa, ma non dice niente.
È pallido, ha i capelli arruffati e gli occhi rossi. I suoi
vestiti non vedono una lavatrice e un ferro da stiro da palesemente
troppo tempo, e lui stesso avrebbe bisogno di una doccia. Eppure fino
ad un momento prima, fino a quando sorrideva e rispondeva alle domande
dell'infermiera, non sembrava messo così male. È
un bravo attore, quando le circostanze lo richiedono.
E
di sicuro non è stata sua l'idea di chiamarlo, probabilmente
ha anche cercato di convincerli a non farlo. Ma perfino Damon riesce a
vedere che se si regge in piedi deve essere più per
testardaggine che altro, quindi nessuna meraviglia che la scuola non
voglia che se ne vada in giro per i corridoi in quelle condizioni.
Damon avrebbe voglia di sottolineare che se è dell'influenza
che si preoccupano, possono anche stare tranquilli, non è
certo quello il problema. Ma è il suo tutore legale e quindi
non può farlo. Dopo dovrebbe dare spiegazioni, vedere altre
persone, continuare a sentirsi chiamare Signor
Salvatore. Non gli
va. Nemmeno per mettere Stefan di fronte alle conseguenze delle sue
azioni.
Quindi
sorride anche lui ― altrettanto finto, altrettanto convincente ― e gli
passa un braccio intorno alle spalle. Stefan si irrigidisce, ma non lo
respinge. L'apparenza prima di tutto. Damon ringrazia l'infermiera, le
assicura che provvederà ai medicinali consigliati, firma
l'ultimo modulo per l'uscita e poi scorta suo fratello fuori
dall'edificio, fino al cortile dov'è parcheggiata la sua
auto. Gli apre la portiera e lo aiuta a salire, e ancora non si sono
rivolti una sola parola. Silenzio ostile, silenzio meraviglioso. Meglio
di un litigio, questo è sicuro.
Una
volta avviato il motore, Damon prende a tamburellare le dita sul
volante. È ancora nervoso, è ancora irritato, ma
soprattutto è incazzato da morire. Ha una gran voglia di
urlare contro suo fratello, di scuoterlo, di prenderlo a pugni fino a
farlo rinsavire. Ma ci ha già provato. Più e
più volte, e non è mai servito a nulla. E serve a
qualcosa saperlo?
«Questa
storia deve finire, Stefan», si decide a dire alla fine. Se
deve essere l'inizio di una nuova battaglia così sia, non si
può andare avanti in quel modo in eterno.
Ma,
accasciato sul sedile di fianco a lui, con la spalla appoggiata contro
la portiera e la fronte schiacciata conto il finestrino, Stefan sta
già dormendo.
~
La
mano di Rebekah si muove a rallentatore e Stefan ne segue i lenti
movimenti nel riflesso dello specchio. Può vedere anche se
stesso, sdraiato nel letto di lei, mezzo nudo e malamente coperto da un
lenzuolo, ma cerca di evitare il proprio sguardo il più
possibile. Rebekah raccoglie un'altra ciocca bionda, la pettina, la
stira con un'abile rotazione della piastra, poi passa a prenderne
un'altra e ricomincia.
«Ho
sentito che sei finito in infermeria la settimana scorsa»,
gli dice.
«Mh-mh»,
mugugna Stefan. «Influenza.»
«Dovresti
evitare di venire a scuola il giorno dopo una sbronza»,
ribatte Rebekah, che evidentemente non è in vena di giocare a facciamo
finta che.
«Perché non stai a casa la prima ora o
direttamente tutto il giorno come fanno tutti?»
«Non
mi piace stare in quella casa.»
Rebekah
lo guarda dallo specchio. Forse capisce, forse no, è
difficile a dirsi. Per un po' non dice nulla, ma finisce di sistemarsi
i capelli e ci spruzza sopra un'abbondante dose di lacca. Stefan
arriccia il naso, infastidito dall'odore pungente.
«Puoi
restare qui, lo sai», risponde infine la ragazza.
«Ai miei fratelli non importa.»
Nemmeno
al mio, pensa
Stefan.
«Grazie.»
Rebekah
si stringe nelle spalle. Tira fuori dall'armadio due paia di stivali e
li osserva pensierosa per qualche minuto prima di decidere quale
indossare. Si siede sul materasso accanto a Stefan e li infila
velocemente, cercando di ignorare la mano di lui che le accarezza con
leggerezza una coscia.
«Stasera
suoniamo. Dimmi che ce la fai a tenere in mano il basso e a non
vomitare sul palco.»
«Allo
stesso tempo, intendi? Posso provarci.»
«Meglio
per te se ci riesci», lo rimbecca lei. «Altrimenti
ti caccio dalla band.»
«Mh-mh.»
«Dico
sul serio!»
Stefan
ride, poi si tira su a sedere, le passa le mani intorno alla vita e la
tira contro di sé.
Un'ora
dopo Kol è costretto a minacciare di lanciare fumogeni
dentro la stanza per convincerli ad uscire e a prepararsi per
l'esibizione.
~
Matt: Sei
sicura che sia una buona idea?
Elena: Katherine
dice che un'uscita tra ragazze mi farà bene.
Matt: Lo
pensi anche tu?
Elena: Non lo
so, ma è mia sorella e queste due settimane sono state il
periodo più lungo che abbiamo trascorso insieme. Provare non
costa niente, no?
Matt: D'accordo.
In caso chiamami e ti vengo a prendere. Ho ancora una grossa scorta di
gelato al cioccolato in frigo.
Elena: Sei
ufficialmente il mio piano B.
Matt: Non so
se esserne contento o meno.
Elena: So che
lo sei.
Matt: Vero.
Divertiti. Ti amo.
Elena
rimette il cellulare nella borsa con un mezzo sorriso, ma non risponde.
Non se la sente, ed è abbastanza sicura che Matt lo sappia.
Matt sa sempre questo genere di cose.
«Non
sono sicura che sia una buona idea», dice poi, per almeno la
quinta volta da quando è salita nella macchina di sua
sorella.
Katherine
continua a guidare senza darle retta, inveendo mentalmente contro il
meccanico che non le ha ancora aggiustato lo stereo, fracassatosi
nell'ultimo incidente.
Vedendosi
ancora ignorata, Elena sbuffa e si ravvia i capelli dietro le orecchie.
Fuori dal finestrino il paesaggio scorre veloce e indefinito,
illuminato solo dalle macchie di luce dei lampioni. La serata
è appena iniziata e vuole davvero credere che ciò
che ha in mente Katherine l'aiuterà a tirarsi su di morale,
ma non è poi così convinta. Di sua sorella, in
fondo, non sa poi molto. Katherine è cresciuta dall'altra
parte del mondo, con Isobel, la loro madre naturale. Si sono scritte
delle lettere, qualche e-mail negli ultimi anni, e si sono incontrate
una decina di volte, quando il lavoro di Isobel le portava
lì in America, ma, di fondo, sono sempre rimaste delle
sconosciute con un genitore in comune. Quello che sa per certo,
però, è che Katherine non provava molto affetto
per suo padre. Non glielo rimprovera. Nemmeno lei ne prova per Isobel.
Il punto è che proprio non capisce perché sua
sorella sia lì e sua madre no. Non ha senso.
«Hai
sentito Isobel?», domanda allora, cercando di cambiare
argomento.
Le
dita di Katherine si stringono un po' di più intorno al
volante, ma a parte questo la ragazza non dà alcun segno di
averla sentita. Elena comincia seriamente a spazientirsi.
«Katherine,
visto che è stata tua l'idea di uscire insieme, sarebbe
carino se la smettessi di ignorarmi!», sbotta, voltandosi a
fissare la sorella.
«E
siccome tu hai subito accettato la mia idea, sarebbe
carino se ora
la smettessi di cercare di fare marcia indietro e di lamentarti in
continuazione», replica Katherine, a metà tra il
sarcasmo e l'insofferenza.
«Non
mi hai nemmeno detto dove stiamo andando!», protesta Elena.
«Ad
un concerto. Ci suonano dei miei vecchi amici, non è un rave
party, non è contro la legge, non finirà sulla
tua fedina penale e dubito che sconvolgerebbe Jenna, almeno stando a
quello che Isobel mi ha raccontato di lei», ribatte l'altra
ragazza. Poi continua, con lo stesso tono divertito e irato insieme:
«E no, non l'ho sentita. Sarà troppo impegnata con
qualche cliente, come al solito.»
Ad
Elena sfugge la rabbia che Katherine mette nell'ultima frase, ma non
tarda a realizzare che sua sorella non parla mai di Isobel chiamandola
madre. Vorrebbe chiederle il perché, ma intuisce che quella
è una linea ancora invalicabile per lei.
Quindi
sospira, si lascia ricadere sul sedile e chiude gli occhi.
Magari
stasera andrà bene. Magari sarà davvero una bella
serata per entrambe.
Non
si domanda come faccia Katherine ad avere dei vecchi
amici lì
nei paraggi di Mystic Falls.
~
Caroline
lo aspetta nei camerini, con le braccia incrociate al petto e nello
sguardo la promessa di una sfuriata in arrivo. Tyler e Alaric
controllano gli amplificatori, palesemente intenzionati a fare di tutto
per non diventare a loro volta dei bersagli. Damon sospira ed apre la
porta.
«Sei
in ritardo», lo saluta Caroline, quasi ringhiando.
«Non
riuscivo a trovare il posto», mente Damon, oltrepassandola
per posare la sua chitarra insieme agli altri strumenti. Strizza
l'occhio a Rick, che però non ricambia. Anche lui sembra
nervoso, e di sicuro non è per il concerto. Ha molta
più esperienza di tutti loro in quell'ambito, e non
è mai stato il tipo da attacchi di panico.
«Qualche
problema?», chiede allora Damon, spostando lo sguardo da lui
a Tyler, fino a riportarlo su Caroline, che sembra pronta a cavargli
via gli occhi con le unghie.
«Non
siamo i soli a suonare, stasera», risponde lei.
«Indovina chi è l'altro gruppo?»
Damon
si stringe nelle spalle, anche se, al posto della metaforica lampadina,
un intero set di riflettori colorati gli si accende in testa.
«Non
sono tipo da indovinelli, Caroline, lo sai. Anche quando stavamo
insieme e mi chiedevi di indovinare di che colore erano le mutandine
che avevi addosso non sono mai― ouch!», si lamenta, quando la
ragazza gli rifila un pugno nel mezzo del petto, prendendolo in pieno
sterno. E probabilmente è una fortuna che sia scattata prima
lei di Tyler, che si limita a stringere i pugni e a guardarlo con
rabbia omicida, trattenuto a stento dal braccio di Rick intorno alle
spalle.
«Piantala
di fare l'idiota, Damon», lo rimprovera quest'ultimo.
«Avresti dovuto dircelo.»
«Dirvi
cosa?», chiede lui di rimando, massaggiandosi il punto
colpito con finta indifferenza.
«Ci
sono anche gli Originals,
stasera», riprende Caroline.
«E
con loro c'è anche un nuovo bassista. E si dà il
caso che sia tuo fratello», continua Tyler.
Damon
alza le sopracciglia.
«Oh,
già. Stefan adesso suona con loro. E quindi? Andate ad
incazzarvi con lui, se avete della rabbia repressa da
sfogare.»
«Io
mi incazzo con
te»,
risponde Caroline, avvicinandosi a passi rabbiosi.
«Perché tutto questo casino è colpa tua.
Stefan non ci parla nemmeno più perché pensa che
abbiamo coperto la tua tresca con quella... quella...»
«Oh,
capisco», la interrompe Damon. «Il tuo migliore
amico pensa che tu sia una traditrice e si rifiuta di credere il
contrario perché, in effetti, la cosa è
più che plausibile, visto che sei sempre stata un po' una
stronza... e la colpa di tutto ciò è
mia.»
«La
colpa di tutto ciò è di quel misero arnese che
non riesci a tenere dentro ai pantaloni!»
«Non
ti sei mai lamentata del mio misero arnese quando te lo
mettevo―»
Questa
volta è Tyler a scattare per primo, e Alaric non riesce a
fare niente per fermarlo.
~
«Siete
pronti?», domanda Klaus, stappando una birra e guardandosi
intorno.
Kol,
Rebekah e Stefan sono ancora seduti, ma tutti e tre gli rivolgono un
cenno di assenso. Manca ancora un po' di tempo perché
finiscano di montare il palco, e loro non sono i primi a suonare,
quindi Klaus si accontenta della risposta e tira fuori una sigaretta da
un pacchetto stropicciato.
Rebekah
e Kol tendono immediatamente una mano e lui sbuffa, ma ne allunga un
paio anche a loro. Poi offre il pacchetto a Stefan, che accetta senza
nemmeno guardare.
Delicati
intrecci di fumo si alzano a decorare il soffitto del camerino, mentre
da fuori il chiacchiericcio dei clienti del locale fa da rumore di
fondo al silenzio della stanza.
«C'è
un altro gruppo prima di noi, lo sai, vero?», domanda Klaus,
e non c'è bisogno di specificare che è a Stefan
che lo sta chiedendo.
Il
ragazzo sposta lo sguardo sul foglietto mezzo strappato che tiene tra
le mani. Sopra il loro nome ce n'è un altro, stampato con
caratteri che conosce bene, perché è stato tra
quelli a votare a favore di quel font quando Caroline lo aveva proposto. The
Vampire Diaries,
c'è scritto. E anche di quel nome è in parte
responsabile.
Rebekah
lo fissa con occhi di ghiaccio, ancora più inquietanti del
solito perché truccati pesantemente di nero. Il rossetto
lascia segni vivaci sul filtro della sigaretta, e non c'è
alcun sorriso a piegarle le labbra questa volta. Stefan raddrizza la
schiena e allunga le braccia, facendo scrocchiare le ossa della
schiena. Spera di apparire più rilassato di quanto non si
senta in realtà.
«Lo
so», risponde infine.
«È
un problema?», chiede Kol, dondolandosi all'indietro sulla
sedia. Sorride, come a fargli capire che è meglio che non lo
sia.
«No»,
conferma Stefan. «Nessun problema. Passami la
birra.»
Klaus
se ne svuota in gola la metà, poi gli lancia la bottiglia.
È un miracolo che non finisca con lo schiantarsi per terra.
Stefan la solleva appena, in un brindisi muto, poi se la porta alle
labbra e ne ingolla il contenuto in un solo lungo, bruciante sorso.
~
Il
locale è pieno quando arrivano, ma il proprietario stesso le
scorta ad un tavolino vicino al palco, laterale e un po' imboscato, che
risulta poi essere il posto preferito di Katherine. Dal modo in cui
chiacchierano del più e del meno, Elena intuisce che anche
lui è un vecchio
amico.
Forse qualcosa di più, considera all'improvviso, quando vede
Katherine alzarsi in punta di piedi e baciarlo all'angolo della bocca.
Ma non può essere così, si corregge subito dopo.
Il tizio avrà almeno quarantacinque anni.
Katherine
ordina da bere per entrambe, mostrando un ID falso ma fatto ad arte.
Elena rimane a fissarla mentre flirta con il barista, e anche con lui
sembra esserci una certa familiarità. Per la prima volta
Elena si chiede come abbia fatto Katherine, in sole due settimane, ad
entrare in confidenza con tutta quella gente. La domanda non fa in
tempo a dare vita ad una seria riflessione sul problema,
perché Katherine torna sorridendo, ancheggiando appena al
ritmo di una canzone oscura che sta canticchiando tra sé e
sé, ed Elena non può fare a meno di ridere a sua
volta. Accetta il suo drink senza fare domande.
Parlano
ininterrottamente per quasi un'ora, aspettando che inizi il concerto.
Elena le racconta dei suoi genitori, di suo fratello Jeremy, di Jenna e
di come le cose erano belle un tempo. Le racconta del collegio privato
dove studia da ormai sei anni, delle sue compagne di stanza, del fatto
che non è più molto sicura di volerci tornare,
ora che i suoi genitori sono morti. Le parla di Bonnie, la sua migliore
amica lì a Mystic Falls, e di Matt, il suo migliore amico
delle elementari che si è scoperto sempre qualcosa di
più durante le brevi vacanze in cui tornava a casa, della
relazione a distanza che sono riusciti a portare avanti, delle vacanze
che hanno trascorso insieme, della casa sul lago e della volta in cui
si è ubriacata così tanto da vomitare nella
rimessa delle barche.
Katherine
ascolta senza commentare, ma senza dare segno di annoiarsi. Eppure, a
riascoltarsi, Elena si sente un po' sciocca e molto... comune.Soprattutto
quando poi, su sua insistenza, è Katherine a raccontare un
po' di sé. Le parla di Parigi, di Londra, di Berlino e di
Venezia. Tanti posti bellissimi, tante buffe storielle da raccontare.
Non parla di amici né di fidanzati, anche se qualche nome fa
capolino di tanto in tanto. Isobel non viene quasi mai nominata. Elena
non lo nota.
Solo
quando le luci si abbassano, segno che il concerto sta per iniziare, la
ragazza si rende conto che, in realtà, non sa ancora nulla
di personale su Katherine. Quella scoperta la turba non poco, ma ora
sua sorella è concentrata a fissare il palco e i ragazzi che
vi stanno salendo sopra, e non sembra più intenzionata a
darle retta.
Decide
di lasciar perdere, almeno per il momento, e si volta anche lei verso
il palcoscenico rialzato. Sussulta appena nel leggere il nome disegnato
a grandi lettere sulla batteria e decorato da uno svolazzo rosso sangue.
«Oh,
ma io li conosco!», esclama, sorpresa.
Katherine
si volta a guardarla con occhi curiosi.
«Davvero?»
Elena
annuisce.
«Be',
non di persona. Bonnie e Matt sì, invece. La ragazza bionda
e il batterista frequentano la scuola superiore di Mystic Falls. Anche
il bassista è... no, non è lui»,
mormora, aggrottando la fronte nel vedere un uomo considerevolmente
più vecchio del ragazzo che si aspettava di trovare.
«Devono averlo cambiato. Prima c'era un altro ragazzo, ne
sono sicura. Non conosco quello nuovo. E nemmeno il
chitarrista», ammette.
Katherine
continua a fissarla, e questa volta una vena di malizia ammicca nel suo
sguardo.
«Damon,
intendi? Be', lo conosco io. E conosco anche tutti gli altri, eccetto
il nuovo bassista. Quello vecchio era molto più
carino.»
«Come
fai a conoscerli?», domanda finalmente Elena.
Katherine
sorride e scuote la testa, poi torna a voltarsi verso il palco.
«Te
lo spiegherò un'altra volta. Ora zitta, stanno per
cominciare. Adoro la canzone d'apertura!»
Elena
rimane leggermente interdetta, ma non protesta. Anche perché
in quel momento esatto il gruppo attacca con il primo brano e la musica
la investe, forte e coinvolgente come un'onda.
~
Alla
fine non riesce a resistere alla tentazione, e si sposta in platea per
guardarli suonare. È infantile da parte sua, soprattutto
perché non ha alcuna voglia di parlare con nessuno di loro,
ma non può farci niente.
Si
aspettava rabbia, forse nostalgia, ma quando li vede, quando vede
Caroline sorridere al microfono annunciando il primo titolo in scaletta
― la canzone che odia di più tra quelle che ha scritto, e
che, inspiegabilmente, è quella che piace di più
a tutti gli altri ― quando sente Tyler attaccare con la batteria e
Damon accompagnarlo con la prima serie di accordi, non può
fare a meno di sentirsi un po' a casa. Una casa che ha abbandonato
sbattendo la porta, certo, ma che comunque conserva ancora qualche bel
ricordo.
Sorride
anche nel vedere il professor Saltzman al suo posto. Chissà
come ha fatto Damon a convincerlo. E chissà se glielo
direbbe, anche. Non ricorda nemmeno più quando è
stata l'ultima volta che si sono rivolti la parola per parlare di
qualcosa di diverso delle piccole incombenze domestiche o per litigare
su qualche sciocchezza. Sono ai ferri corti da un anno, ormai, e suo
fratello gli sembra sempre più quasi uno sconosciuto. A
volte gli dispiace. Altre volte vorrebbe togliere quel quasi e
considerarlo uno sconosciuto e basta. Sarebbe più semplice.
Distoglie
lo sguardo, vergognandosi un po' per quei pensieri, ed è in
quel momento che la vede.
Al
loro solito tavolo, sorseggiando il loro solito cocktail pre-concerto.
Spalanca gli occhi. Sente il battito accelerare velocemente, e solo
qualche istante più tardi si accorge che ci sono due Katherine.
Solo che, ovviamente, questo non è possibile.
Mille
domande gli affollano il cervello, e alla fine solo una risposta logica
riesce a farsi strada. Ma Katherine non gli ha mai detto di avere una
gemella. Né una famiglia, se è per questo. E poi
non avrebbe dovuto essere lì, ma in Europa. Non era quello
il suo grande progetto, andare a Londra e sfondare per davvero? Non era
per quel motivo che era andato tutto a rotoli?
Un
anno, pensa
poi. È
passato un anno, e non è cambiato un cazzo.
E
intanto, intorno a loro, a riprova del fatto che il destino quando ci
si mette ha un gran senso dell'umorismo, risuona la canzone che ha
scritto per lei, e che lei stessa ha cantato decine e decine di volte,
su quel palco e su tanti altri.
Ha
voglia di urlare, invece fa un passo indietro, nascondendosi meglio
alla vista. Precauzione inutile, visto che le due ragazze sembrano
assorbite dallo spettacolo, ma meglio così. Alza anche lui
lo sguardo verso il palco, cercando lo sguardo di suo fratello.
Cercando di capire se lui sa,
se ne è complice, se gli ha nascosto molto di più
di quello che pensava. Ma Damon non sta guardando il tavolo con le due
gemelle, non sembra averle notate affatto. Stefan è sicuro
che non riuscirebbe a fingere altrimenti. O forse sì.
Quasi
uno sconosciuto.
Sobbalza
quando la mano di Klaus si chiude sulla sua spalla e si volta di
scatto, trattenendo il respiro, quasi tremando. Klaus non lo nota,
oppure fa finta. Gli fa segno di avvicinarsi ancora un po', e nel
frattempo si china verso di lui.
«Fanno
altre quattro canzoni e poi tocca a noi. Rebekah vuole cambiare la
scaletta, meglio se vieni a dare un'occhiata», gli grida in
un orecchio, per sovrastare il rimbombo della musica. «Tutto
bene?», domanda poi.
Stefan,
rigido e sudato, riesce appena a sorridere ed annuire. Pessimo
bugiardo. Ma ancora una volta Klaus fa finta di niente.
La
canzone finisce, risuonano i primi applausi. È decisamente
troppo. Stefan volta le spalle a tutto e, con una scusa raffazzonata in
fretta, esce di corsa dal locale.
~
Può
sentire lo zigomo destro pulsare e gonfiarsi ogni secondo di
più, ma non può farci niente. Tyler lo ha preso
di sorpresa, e lo ha preso anche bene. Tra poche ore avrà un
occhio nero, poco ma sicuro. Ma ce l'avrà anche l'altro,
sicuro anche questo.
Svita
il tappo della bottiglia d'acqua e se ne riversa metà
contenuto in bocca, assaporando la freschezza contro la gola riarsa, ma
anche il retrogusto del proprio sangue. Avrebbe potuto andargli peggio,
riflette. Almeno non ha ossa rotte.
Alaric
gli tende un asciugamano, e Damon lo afferra con gratitudine. Se lo
passa sul volto e sul collo, poi tra i capelli ormai madidi di sudore.
Hanno quasi finito. Un'altra canzone, poi potranno abbandonare quel
posto di merda. Non gli è mai piaciuto, anche se
è uno di quelli in cui hanno suonato più spesso,
e forse, addirittura, dove hanno ricevuto il loro primo assegno pagato.
Al
momento vuole solo tornare a casa ed ubriacasi come si deve.
Possibilmente senza dover più scambiare nessuna parola con
nessun altro membro del suo gruppo, né, tanto meno, con
quelli del nuovo gruppo di Stefan. O con Stefan stesso.
Beve
un altro lungo sorso dalla sua bottiglietta, e pensa che, in fondo,
forse gli altri hanno ragione ad avercela con lui per non avergli detto
di quel cambio di campo da parte di suo fratello. Ma d'altra parte, non
è che Stefan, a sua volta, glielo abbia confidato di
persona. Ha iniziato a sospettarlo da solo quando lo ha sentito
ricominciare ad esercitarsi con il basso, e ha fatto due più
due il giorno in cui, scendendo in cucina, vi aveva trovato Rebekah
mezza nuda, intenta a preparare una colazione per due. Ma nonostante
tutto questo non ha mai davvero chiesto spiegazioni. Almeno
così la speranza di essersi sbagliato aveva ancora qualche
ragione di esistere.
Ma
anche adesso che ne è sicuro, non vuole sapere cosa diamine
ci faccia suo fratello con quella banda di delinquenti dei Mikaelson.
Non sono affari suoi. Non gli importa. O perlomeno è quello
che continua a ripetersi. In realtà sa che il
comportamento di Stefan e le sue ultime stupide abitudini dipendono,
almeno in parte, da loro, ma non c'è nulla che possa o
voglia fare al riguardo. In meno di un anno Stefan sarà
maggiorenne, e allora potrà fregarsene alla grande. Fino a
quel momento gli basta che suo fratello non si faccia ammazzare mentre
è sotto la sua responsabilità. Tutto qui.
Nemmeno
lui è granché come bugiardo, in effetti.
Caroline
gesticola furiosamente nella sua direzione, indirizzandogli occhiate
ancora furenti. Damon sbuffa, alza il dito medio e imbraccia di nuovo
la chitarra. Inizia l'ultimo pezzo.
Non
nota le due ragazze sedute in prima fila. Non nota suo fratello che si
allontana. Non nota nemmeno la voce di Caroline che ad un certo punto
si incrina pesantemente, come se la ragazza fosse rimasta per un attimo
senza voce. Non nota nulla fino a quando non è troppo tardi.
~
Per
un lungo, terribile momento, Caroline è sicura di non
ricordare più nemmeno una parola del testo che sta cantando.
Che è una cosa ridicola, a ben pensarci. Conosce quelle
canzoni come conosce il suo indirizzo di casa, il suo numero di
telefono e ogni vestito che ha nell'armadio. Non può
dimenticarle. Non è possibile.
E
infatti l'orribile sensazione passa, e le sue labbra si muovono, e
dalla sua bocca escono le parole giuste al momento giusto, proprio come
deve essere. Forse la sua voce trema un po' più del dovuto,
ma la rabbia è più difficile da dissimulare della
sorpresa.
Katherine,
comunque, sostiene il suo sguardo senza battere ciglio. Sorride, anzi.
Quasi che fosse felice di vederla. Quasi che non sapesse che, potendo,
Caroline salterebbe giù dal palco e userebbe il microfono
come clava, per spaccarle ogni singolo osso di quel suo bellissimo
volto sorridente.
Eri
la mia migliore amica.
Si
volta a guardare Damon, ma lui suona tranquillo, girato di spalle
rispetto al tavolo di Katherine e di quella che, secondo vaghi ricordi
di pettegolezzi passati, dovrebbe essere la sua gemella. Caroline sa
che una delle altre cheerleaders la conosce molto bene e che la ritiene
una brava ragazza, ma d'istinto odia anche lei. Sulla fiducia.
Eri
la mia migliore amica. Eri la mia migliore amica. Eri...
Anche
Stefan è lì, realizza poi. Tra tutte le serate
possibili, tra tutte le combinazioni del caso, quella sera sono tutti,
ma proprio tutti lì. Le viene voglia di ridere. O forse di
piangere. Di sicuro non vede l'ora che quella canzone finisca.
~
A
pochi minuti dalla fine dell'esibizione dei Vampire
Diaries,
il barista si avvicina al loro tavolo e sussurra qualcosa nell'orecchio
di Katherine. Elena scocca loro un'occhiata interrogativa, e sua
sorella le sorride con aria di scuse.
«C'è
qualcuno che devo incontrare assolutamente», le urla,
sporgendosi in avanti sul tavolo per essere sicura di farsi sentire.
«Torno presto, promesso. Ordina un altro giro di drink, vuoi?
Non ti faranno problemi», sorride, le strizza un occhio con
aria complice e poi si rimette in piedi.
Elena
la osserva andare via quasi correndo, e per un attimo si domanda se non
sia il caso di chiamare Matt. Ma in fondo si sta divertendo davvero,
nonostante tutte quelle piccole stranezze. Quindi finisce il suo
cocktail e poi si avvia verso il bancone per prenderne un altro paio.
Sorride al barista, che ricambia subito, e se sono gli effetti
dell'alcool a farla sentire così euforica, be', poco importa.
~
La
guarda avvicinarsi con il suo passo sicuro, accompagnato dal ticchettio
dei tacchi che risuonano contro il cemento del parcheggio. Ha ancora
delle sue foto, da qualche parte in soffitta, e non le guarda da mesi e
mesi, eppure ricorda ogni piccolo dettaglio del suo viso, e gli sembra
di riconoscere perfino ogni voluta dei suoi lunghi boccoli scuri. E
perché no, poi. Ci ha giocato quasi ogni notte per
così tanto tempo, avvolgendoseli intorno alle dita,
sentendoseli strusciare contro la faccia e il petto quando lei lo
spingeva sul letto e gli saliva sopra, sinuosa come una gatta, come una
bella bugia a cui si vuole credere per forza.
Katherine
si ferma a diversi passi da lui, abbastanza vicina da potergli parlare,
abbastanza lontana da non poter essere afferrata. Distanza di
sicurezza. Si accende una sigaretta, facendo scattare un accendino che
lui non fatica a riconoscere come uno dei suoi.
«Ciao,
Stefan.»
Lui
non risponde. Non sa cosa dire. Non sa nemmeno da dove iniziare a
domandare.
«Ho
saputo di tuo padre», continua allora lei. «Mi
dispiace.»
«Ti
dispiace per mio padre?», non può fare a meno di
chiedere Stefan, con una mezza risata ironica.
«No,
non per lui», risponde lei dopo qualche istante.
«Era un vecchio ubriacone, cattivo ed amaro come il vino
andato a male. Mi dispiace per te.»
Stefan
si irrigidisce. Katherine non
può saperlo,
pensa. Ma quell'espressione, quel tono, quelle parole...
«Te
l'ha raccontato Damon?», domanda, e la rabbia torna a
salirgli in gola come un rigurgito acre. Come
ha potuto?
«Non
parlo con tuo fratello da quando mi hai cacciata dal gruppo,
Stefan.»
Stefan
inarca le sopracciglia e, suo malgrado, un'altra risata gli sfugge
dalle labbra.
«Non
ti ho mai cacciata, non me ne hai dato il tempo. Te ne sei andata,
Katherine, ricordi? Dopo aver fatto tabula rasa, aggiungerei.»
Katherine
fa schioccare violentemente la punta del pollice contro il filtro della
sigaretta, e un piccolo vortice di cenere le avvolge gli stivali.
«Ci
sono cose che non sai, Stefan. Non è come pensi
tu», ribatte con voce dura.
«No?
Vuoi dire che non avevi intenzione di scappare con mio fratello in
Europa, dopo che io ti avevo detto che non potevo perché
volevo andare al college?», domanda Stefan, con tono
altrettanto irato. «Perché pensavo che fosse
proprio quello il punto. Lui aveva già anche i biglietti, lo
sai? Non ho idea del perché tu lo abbia piantato in asso, e
nemmeno mi importa, ma voglio sapere perché sei tornata. Non
dovresti essere dall'altra parte del mondo?»
A
quel punto sta praticamente urlando. Katherine non si scompone affatto.
«Ci
sono andata, ma non sono riuscita a trovare quello che
cercavo», risponde con calma.
«E
sarebbe?», domanda Stefan con
cattiveria. «Un produttore compiacente?»
La
ragazza non risponde subito, ma prende un ultimo tiro dalla sigaretta,
poi la lascia cadere a terra e la schiaccia sotto il tacco. Se non
fosse Katherine, e se Stefan non la conoscesse così bene,
direbbe che sta tremando.
«Mia
madre», risponde alla fine lei.
~
Le
ultime note si perdono nel casino degli applausi, e tutti e quatto
sorridono, un po' per abitudine, un po' perché è
la cosa più facile da fare. Due ragazzi dello staff si
avvicinano per iniziare a smontare parte dell'attrezzatura e montare
quella nuova, e Caroline ne approfitta per scendere dal palco e sparire
nella folla.
Tyler
prova a chiamarla, ma lei non lo sente, o comunque lo ignora. Damon,
per una volta, evita di commentare. Mettono via gli strumenti senza
parlare, mentre il brusio del pubblico si placa pian piano.
Una
volta finito, però, Damon scopre di non avere più
molta voglia di tornare a casa. Vede Rebekah e Klaus discutere in un
angolo al lato del palco, e si guarda intorno per cercare suo fratello.
Non lo vede, ma deve per forza essere lì. Non gli
dispiacerebbe assistere alla piazzata che sicuramente Caroline ha in
serbo per lui, né vederlo prendersi un paio di pugni da
Tyler. Tra fratelli si condividono tutte le esperienze, dopotutto. E
poi può ubriacarsi anche lì, e gratuitamente, per
giunta. Magari anche rimorchiare una bella ragazza e finire la serata
in bellezza, chissà.
Quindi
fa un cenno ad Alaric, indicandogli il bar, e quando lui annuisce gli
risponde strizzando l'occhio, seguendo un rituale ormai consolidato.
Quando
arriva al bancone scorge Caroline poco lontano da lui, e sta quasi per
spostarsi quando, con la cosa dell'occhio, coglie l'immagine della
ragazza con cui sta parlando. Gli ci vogliono parecchi istanti per
metterla davvero a fuoco, ma alla fine non ci sono dubbi.
«Katherine!»,
la chiama, muovendosi verso di lei.
~
Elena
si volta a guardare il nuovo arrivato con occhi rabbiosi. È
già stata scambiata per sua sorella una decina di volte, in
più pochi minuti prima è stata quasi aggredita da
quella furia bionda della cantante, e ne ha sinceramente abbastanza per
quella sera.
«Non
sono Katherine!»,
sibila, battendo il palmo aperto della mano contro la spalla del
ragazzo non appena questi è abbastanza vicino a lei.
«Ehi!»,
protesta Damon, sorpreso e quasi indignato.
«Perché stasera mi picchiano tutti?»
«Perché
ispiri violenza, Damon», ribatte Caroline. «E prima
che cerchi di girarla a tuo favore: no, non il genere di violenza da
strapparti i vestiti e sbatterti contro il primo muro disponibile, solo
sbatterti contro il primo muro disponibile. Di faccia. E
ripetutamente.»
Damon
mette su la sua migliore espressione offesa. Elena non può
fare a meno di ridere. È ancora arrabbiata ed è
confusa da morire, ma ride. Probabilmente è più
ubriaca di quanto avesse calcolato.
«Non
è Katherine, ma sua sorella gemella. Si chiama
Elena», continua Caroline.
«Sono
capace di dirlo da sola», ribatte la diretta interessata.
«Pensavo
ti fossi stancata di ripeterlo», replica la bionda, facendo
spallucce.
Damon
sposta lo sguardo dall'una all'altra, e rimane a fissare Elena per un
lungo momento.
«Non
dire che sono identica a lei», lo avverte Elena.
Damon
fa un sorriso storto e scuote la testa. Si passa una mano nei capelli
ancora sudati e sospira, chiudendo per un attimo gli occhi.
«Non
le somigli affatto», risponde infine.
Elena
sorride divertita, poi torna seria. Si volta a guardare Caroline e poi
di nuovo Damon. Non ci ha capito molto, a parte il fatto che sembra
esserci qualche problema con sua sorella.
«Che
cosa volete da Katherine?», domanda quindi.
Caroline
si morde le labbra. È ovvio che la risposta che vorrebbe
darle non sarebbe affatto carina da sentire, e se ne rende conto
benissimo da sola, anche senza le occhiate di avvertimento di Damon.
L'istinto è comunque forte.
«Solo
parlarle. Sai dov'è andata?», replica alla fine,
mostrando ─ nella sua modestissima opinione ─ un impeccabile self
control.
«Vuoi
dire che Katherine è qui?», domanda Damon,
spalancando appena gli occhi.
Caroline
alza lo sguardo al cielo, esasperata, e non risponde.
«Credo
sia uscita a fumare una sigaretta», risponde infine Elena,
ancora con una certa titubanza. E quando, un istante dopo, gli altri
due le voltano le spalle e si dirigono verso l'uscita, li segue di
corsa chiedendosi se non abbia per caso appena fatto un torto a sua
sorella. Ma, dopotutto, pensa poi, se lo scopo di Katherine era
nascondersi da quelle persone, perché diamine l'avrebbe
portata lì?
~
La
musica all'interno del locale non si sente più
già da qualche minuto e gli unici rumori rimasti sono lo
sfrecciare solitario di qualche auto sulla strada alle loro spalle e il
mormorio di un gruppetto di ragazzi che fumano poco lontano da loro.
Katherine
non sa come andare avanti. Non trova le parole per spiegare quel casino
di situazione, perché non le ha mai davvero cercate. Non era
un qualcosa che si proponeva di raccontare ad altri, non ha mai voluto
che nessun altro lo sapesse. Già scoprire che suo padre
sapeva è stato un colpo abbastanza brutto, ma almeno con lui
non ha mai dovuto parlarne. E non ne potrà mai
più parlare, a quanto pare. Un lieve pizzicorio al naso la
coglie di sorpresa, ma stringe i pugni e ricaccia le lacrime da dove
sono venute. Non si metterà a piangere.
Stefan
la osserva con uno sguardo indecifrabile, ma la linea dura delle sue
labbra ora è lievemente addolcita da una sfumatura di
sorpresa e comprensione. Forse ha già capito tutto. Non
è mai stato uno stupido, e ha sempre dato una certa
importanza alla famiglia.
«Mi
ha abbandonata qui, Stefan.»
La
voce di Katherine è ferma, i suoi occhi sono asciutti, ma
una smorfia di risentimento, e forse disprezzo, le piega le belle
labbra.
«Sono
più di due anni, ormai. L'anno scorso mi ha chiamata da
Parigi, dicendo che le dispiaceva. Sono partita in tutta fretta, non
m'importava di dire addio, pensavo di tornare. Ma dopo una settimana se
n'è andata di nuovo. Avevo i contatti di certe persone a
Londra, e sono andata lì. Non sono riuscita a trovarla. So
che per un certo periodo ha vissuto a Berlino e a Venezia. Sono tornata
anche a Sofia, ma...», la voce gli muore in gola, non ha idea
di come andare avanti. Non crede nemmeno che ce ne sia bisogno. Ci sono
storie che non richiedono più di una manciata di frasi per
essere raccontate e capite. «Sei la prima persona a cui lo
dico. Non l'ho raccontato nemmeno a mia sorella. Lei crede che nostra
madre sia un'impegnatissima donna d'affari. Non sapevo come dirle che,
in realtà, è poco più di una puttana
d'alto borgo», ride, ed è una risata cattiva e
piena di risentimento.
Stefan
fa un passo avanti, come se volesse abbracciarla, ma poi si ferma. Di
nuovo non sa cosa dire, cosa fare, nemmeno cosa pensare. Ha sempre
saputo che la madre di Katherine non c'era quasi mai, ma il quasi era
più o meno la parola chiave dell'intera situazione. Ora
capisce tante piccole cose: perché, nonostante tutto il
tempo che sono stati insieme, lei non lo abbia mai portato a casa sua,
il suo disinteresse per la scuola e il college, il continuo glissare su
qualsiasi domanda troppo personale. Si chiede come abbia fatto
Katherine ad andare avanti completamente da sola per tutto quel tempo,
e anche come abbia fatto lui a non accorgersi di quella situazione di
merda.
«Mi
dispiace», mormora infine.
Scontato
e senza significato. Una frase che si usa in così tanti modi
diversi, soprattutto per cose banali, che ci si sente sempre inadeguati
ad usarla per situazioni serie e che stanno molto a cuore. E,
d'altronde, non è che si possa dire molto altro.
Katherine
accenna un sorriso.
«Lo
so.»
E
in quel momento Caroline, Damon ed Elena li raggiungono nel parcheggio
del locale.
~
È
tutto piuttosto silenzioso, all'inizio. Solo un gioco di sguardi.
Damon
guarda prima Katherine e poi Stefan, e serra i denti con tanta forza da
farli scricchiolare. Sono sempre stati loro due a condividere la scena,
in fondo. Lui è sempre stato l'accompagnamento musicale di
una canzone non sua, la scopata veloce e senza impegno nel retro di un
camerino, quello da lasciare indietro.
Caroline
osserva i suoi due ex migliori amici e non sa se vuole abbracciare
l'uno e strappare via i capelli una ciocca alla volta all'altro, e non
sa esattamente nemmeno chi è quello che vuole abbracciare e
chi quello su cui vuole usare violenza, perché entrambi
l'hanno tradita, e ad entrambi vuole, nonostante tutto, un bene
dell'anima.
Stefan
guarda i pugni stretti di suo fratello, e ora capisce un po' di
più il perché di quella relazione, di quei
segreti, di quei biglietti mai usati. Gli dispiace per lui. Non guarda
Caroline perché sa che la vergogna gli brucerebbe le guance.
Sorride ad Elena: lo stesso sorriso gentile che ha rivolto a Katherine
la prima volta che l'ha vista.
Katherine
guarda il cielo sopra di loro. Niente stelle. Solo una mezzaluna che la
deride come lo Stregatto del Paese delle Meraviglie.
Elena
osserva il gruppetto da lontano, sentendosi come un'estranea sulla
soglia della porta di un circolo privato. Capisce che c'è
una storia dietro, ma non prova neanche ad immaginarla. Non ne ha
bisogno. Ha tutte le intenzioni di torchiare ognuno di loro fino a
quando non le spiegheranno che diamine stia succedendo.
È
a quel punto che arriva Klaus.
~
«Che
cazzo stai facendo, avremmo già dovuto iniziare dieci minuti
fa!», urla, e i cinque ragazzi sussultano e si voltano
contemporaneamente a guardarlo.
Stefan
si riscuote dal torpore causato da tutta quella confusione e si muove
automaticamente in avanti, avvicinandosi all'altro. Si era
completamente dimenticato del concerto. Non è neanche
più sicuro di ricordare da che parte si imbraccia un basso,
ma quella assomiglia comunque all'unica via di scampo che gli
sarà mai offerta per ritirarsi per qualche ora da quella
strana rimpatriata.
«Arrivo!»,
grida quindi a sua volta, ma nello stesso momento una mano si chiude
intorno al suo gomito e lo tira indietro.
«Non
penso proprio», ribatte Damon, poi fissa Klaus con occhi di
fuoco. «Trovati un altro bassista, con questo qui ho bisogno
di fare una chiacchierata.»
Klaus
si avvicina ancora di più, sorridendo in un modo che non
manca quasi mai di provocare un brivido al diretto interessato. Stefan,
che conosce quel modo di sorridere, si affretta a liberarsi con uno
strattone dalla presa di suo fratello, e a mettersi in mezzo tra i due.
Una rissa è l'ultima cosa che gli serve in questo momento.
«Possiamo chiacchierare dopo,
Damon. Devo suonare, adesso», ribatte con freddezza.
Intanto
Rebekah, Kol, Tyler e Alaric li hanno raggiunti fuori dal locale.
«Si
può sapere che cazzo sta succedendo? Stefan, il palco
è pronto da un pezzo, hai intenzione di salirci o vuoi
restare qui a giocare alle belle statuine?», domanda Rebekah,
furiosa.
«Già,
amico, e ricordami anche una cosa: da quando, esattamente, stai con
loro?», interviene Tyler, non meno incazzato di lei. Poi vede
Katherine e spalanca gli occhi. «Che diamine ci fa lei
qui?», domanda. E, dopo aver scorto anche Elena, aggiunge:
«E non ditemi che si è moltiplicata, che cazzo
è, siamo sotto attacco?»
La
maschera di indifferenza di Katherine si dissolve immediatamente.
«Sempre
molto carino, Lockwood, ma capisco la tua preoccupazione.
Già una di me vale quattro volte te, figuriamoci due. E
sappiamo tutti che è solo grazie alla tua ragazza che tu sei
qui, non è vero?», lo deride.
Caroline
scatta a sua volta, parandosi di fronte a lei con un movimento veloce.
«È
meglio se stai zitta, Katherine, soprattutto su questo argomento.
Rischi solo di fare una pessima figura», la rimbecca.
«Meow!»,
esclama Kol, appoggiato alla porta del locale, e poi scoppia a ridere.
«Datevi
tutti una calmata!», sbotta Stefan. «Andiamo dentro
e finiamo questo maledetto concerto, d'accordo? I conti in sospeso
possiamo risolverli dopo.»
«Non
mi hai sentito, fratellino?», interviene Damon. «Ho
detto di no.»
«Damon,
di quello che hai da dire tu me ne frega meno che niente.»
Gli
occhi di ghiaccio di suo fratello si posano su di lui per meno di
qualche istante, poi la sua mano scatta ad afferrargli il colletto
della maglia. Stefan afferra a sua volta la camicia dell'altro, e
rimangono a fissarsi furenti, ma non ancora pronti ad affrontarsi
davvero.
Le
mani di Klaus si stringono con decisione intorno alla spalla dell'uno e
dell'altro.
«Leva
le mani dal mio bassista, amico», dice a Damon, ancora con
quel suo ghigno sghembo.
Damon
si scrolla di dosso la sua mano, e lo spinge con violenza, facendolo
arretrare di qualche passo.
«Leva tu le mani
da mio fratello, amico»,
risponde, facendogli il verso. «Questi non sono affari che ti
riguardano. E comunque non so neanche come lo hai convinto ad entrare
nel vostro gruppo.»
Klaus
si stringe nelle spalle.
«Be',
noi sappiamo come divertirci, amico»,
replica, allargando le braccia in un gesto plateale. Poi si avvicina di
nuovo e con una punta di cattiveria aggiunge, a voce leggermente
più alta: «E poi non gli abbiamo ammazzato il
padre.»
Stefan
si irrigidisce immediatamente. Il silenzio intorno a loro si fa ancora
più pesante.
Ora
anche Damon sorride.
Perché
no, pensa, in
fondo lo sapevo che era una serata di merda.
Parte
il primo pugno.
~
Stefan
viene spinto via, non sa se da suo fratello o da Klaus ─ anche se
propenderebbe molto a favore del primo ─ e finisce lungo disteso
sull'asfalto. Si rimette subito in piedi, e giusto in tempo per vedere
Kol correre in aiuto di Klaus e attaccare Damon alle spalle. A quel
punto qualsiasi buona intenzione di sedare la colluttazione sul
nascere, se mai ne ha avute, viene spazzata via immediatamente. Si
butta su Kol senza pensarci due volte.
Tentano
di separarli, almeno all'inizio, ma quando si inizia a fare a pugni ad
un certo punto, inevitabilmente, si prende anche a menarli a caso,
magari colpendo gente che non c'entra niente, quindi è solo
una questione di minuti perché tutta la situazione degeneri.
Tyler
tenta di trattenere Caroline, ed Elena fa del suo meglio per impedire a
Katherine di dimostrare che anche lei sa usare le mani. La cosa diventa
più difficile quando ci si mette di mezzo anche Rebekah.
Alla
fine l'unico vero modo, collaudato e sempre funzionante, di mettere
fine ad una rissa, è l'arrivo della polizia. O di
un'ambulanza. O di entrambe.
~
È
quasi l'alba, ormai, e la luce grigiastra non giova affatto all'aspetto
della sala d'attesa dell'ospedale che, già normalmente,
appare grigia e deprimente a chiunque si trovi costretto a rimanerci
per più di dieci minuti. Figuriamoci poi a quelli che devono
rimanerci per un indefinito numero di ore.
Stefan
si tocca la benda che gli copre metà della fronte,
così impregnata di disinfettante che l'odore lo fa sentire
quasi di nuovo ubriaco, e sibila tra i denti per la fitta di dolore che
gli esplode in testa. All'infermiera ha detto che l'ha sbattuta contro
un sasso, quello che si è dimenticato di specificare
è che il sasso era quello montato sull'anello al dito di
Kol. Non crede che faccia molta differenza.
Le
infermiere vanno avanti e indietro con passo veloce, come se la
stanchezza non fosse contemplata nel loro sistema operativo.
Probabilmente è davvero così. Ci sono macchie di
sangue sui suoi vestiti e sulle sue mani, e nonostante questo, tra
tutti i pazienti che continuano a passare, Stefan è
decisamente quello messo meglio.
Ad
un certo punto un'infermiera interrompe il suo percorso tra un reparto
e l'altro e devia fino ad accostarsi alla sua sedia.
«Non
ha una stanza?», chiede severa.
Stefan
scuote la testa, poi indica la porta chiusa di fronte a lui.
«Sto
aspettando mio fratello. È dentro da più di
un'ora», spiega con voce stanca.
L'infermiera
annuisce e sposta lo sguardo sulla figura al suo fianco.
«E
lei?», domanda.
Stefan
si volta a guardare la ragazza rannicchiata accanto a lui. Si
è addormentata quasi mezz'ora fa e, nel sonno, gli si
è avvicinata fino a posare la testa sulla sua spalla. L'ha
trovato divertente, al momento. Ora si rende conto che, una volta
sveglia, lei potrebbe non prenderla molto bene. Non sanno nemmeno i
nomi l'uno dell'altra.
«È
con me», risponde comunque, cercando di mettere su il suo
solito sorriso di circostanza. «Sta aspettando sua
sorella.»
All'infermiera
sembra bastare. È una fortuna, perché Stefan non
ha più nemmeno la forza di inventarsi una bugia. Fa
già fatica a tenere gli occhi aperti. Anzi, pensa
all'improvviso, magari
potrei chiuderli per cinque minuti. Non di più. Giusto il
tempo di riposarmi un attimo. Tanto ci vorrà ancora un po'
prima che i dottori si decidano a lasciarmi entrare. Cinque minuti
soltanto.
Si
addormenta cinque secondi dopo averli chiusi. La sua testa ondeggia
comicamente per qualche istante, poi scivola a posarsi su quella di
Elena.
~
Katherine
sgattaiola via non appena il medico le dà il permesso di rivestirsi,
prima che si accorgano che non ha una copertura sanitaria.
Ha
qualche graffio sulla faccia, le nocche scorticate e diversi lividi, ma
per il resto ne è uscita benissimo. Peccato che lo stesso
non si possa dire di Damon, pensa, mentre si rifugia nella sua stanza.
Non
si è fermata ad osservare Stefan ed Elena, addormentati
praticamente abbracciati, ma il pungolo della gelosia si fa sentire lo
stesso. Una
cosa alla volta, dice a
se stessa.
«Hai
un aspetto terribile», esclama quindi, sedendosi sulla
poltroncina di fianco al letto.
Damon
apre gli occhi, volta appena la testa per guardarla e poi sorride.
«E
tu sembri Catwoman dopo un round fallimentare contro Hulk»,
ribatte.
«Non
cercare di passare per nerd, Damon. Non è affascinante e non
sei in grado di sostenere la parte.»
«Hai
ragione, sono troppo figo per una cosa del genere.»
«Damon,
sei talmente coperto di lividi da essere blu, ormai»
«Non
fare la razzista.»
Katherine
sorride.
«Ti
ha conciato proprio per le feste, eh?», domanda, chinandosi
ad accarezzare le fasciature che gli coprono il petto. Sente Damon
rabbrividire sotto il suo tocco, e si morde un labbro, contenta anche
se forse non dovrebbe esserlo.
«Dovresti
vedere com'è conciato l'altro», mormora Damon in
risposta, senza molta convinzione.
«Klaus
non ha neanche un graffio.»
«Questo
è perché io sono un gentiluomo.»
Un
altro sorriso. Di nuovo silenzio.
«Perché?»,
domanda infine Damon. Gli è mancato flirtare con Katherine,
gli sono mancate le sue risposte pungenti, il suo sorriso affilato come
un coltello, le sue carezze piene di promesse. Gli è mancato
tutto questo, sì, ma ora ne è già
stanco. E non vuole ricominciare tutto daccapo.
Katherine
si avvolge un boccolo intorno al dito e lo guarda leggermente
imbronciata.
«Che
significa quello che ha detto Klaus? A proposito di tuo padre,
intendo.»
«Niente.
È morto. Non fingere che ti dispiaccia.»
«Non
lo farò. Non l'ho fatto neanche con Stefan»,
risponde Katherine. Si aspetta di vedere rabbia e gelosia, ma Damon
rimane impassibile.
«Rispondimi,
Katherine. Perché? Oppure la domanda è per
chi? Per
Stefan?»
«No,
non per Stefan.»
Damon
annuisce.
«Però
è per lui che sei tornata.»
«Nemmeno»,
lo contraddice Katherine. «Ma è per lui che potrei
restare.»
Damon
distoglie lo sguardo e lo punta sul soffitto della stanza d'ospedale.
«A
cosa ti servivo io, allora?», domanda infine.
«Come
accompagnatore pagante.»
«Perché
Stefan non aveva intenzione di darsi alla fuga con te», ride
Damon. Non è una domanda e Katherine, infatti, non conferma
né smentisce.
«La
band non è mai stata il suo vero sogno. Vuole andare al
college, lo sai.»
Damon
ride ancora, poi sbuffa perché ridere gli fa male alle
costole rotte.
«Sì,
vuole diventare medico, lo so. Lo ripete da quando aveva cinque
anni.»
La
porta si apre ed entra un dottore dall'aria stanca.
«Non
abbiamo ancora finito con gli esami. Se vuole accomodarsi fuori,
signorina...»
Katherine
vuole, ed è l'unico motivo per cui lo fa. Saluta Damon con
un bacio sulla guancia, esce nel corridoio e, dopo aver lanciato
un'ultima occhiata a sua sorella e a Stefan, ancora addormentati, si
allontana in direzione dell'uscita.
~
Si
sveglia di soprassalto, ansimando forte per cercare aria, come se
stesse soffocando. L'alba è passata da un po' di tempo, e
ora la sala d'attesa ha un aspetto un po' meno grigio e un po' meno
alieno, anche se ancora piuttosto triste. Una mano gentile si posa sul
suo avambraccio, e lui la afferra più per riflesso che altro.
«Incubo?»,
domanda la proprietaria della piccola mano.
Stefan
si volta a guardarla (Katherine, pensa)
e gli serve qualche secondo per capire che no, non è la sua
ex ragazza quella che sta stringendo (Non
so nemmeno come si chiama).
«No.
Cioè, sì. Voglio dire... non importa»,
balbetta.
Elena
posa la mano sulla sua e inclina la testa di lato, con un sorriso
assonnato e vagamente dolce.
«Sì
che importa. Anche io ho degli incubi, da quando i miei genitori sono
morti. Siamo usciti fuori strada sul Wickery Bridge e io sono stata
l'unica a sopravvivere», racconta velocemente, senza nemmeno
sapere bene il perché si stia confidando con uno
sconosciuto. Forse perché quel ragazzo sembra spaventato dai
suoi incubi proprio quanto lei. Forse è perché si
è svegliata praticamente tra le sue braccia. Forse solo
perché ha un bel sorriso.
«Mi
spiace», replica meccanicamente Stefan. Poi ci pensa su un
attimo e non può fare a meno di aggiungere:
«Quando dici i tuoi genitori...»
«Intendo
il padre mio e di Katherine, e la mia matrigna. Io sono stata cresciuta
da loro, Katherine da nostra madre», spiega Elena.
«I nostri genitori si sono separati quando eravamo ancora
piccole.»
Stefan
annuisce, aggiungendo un altro pezzo nero ad un puzzle dalle tinte
già abbastanza fosche.
«Hai
una famiglia sfortunata», commenta poi.
Elena
lo guarda con curiosità e un filo di divertimento.
«Nemmeno
la tua sembra molto fortunata», ribatte. E poi, senza
pensare, aggiunge: «Posso chiederti perché quel
tizio ha accusato tuo fratello di aver ucciso vostro padre?»
Subito
dopo aver finito di parlare Elena si schiaccia le mani sulla bocca. Che
razza di domanda, si
rimprovera,
sono proprio un'idiota. Ma sarà questo il modo di iniziare
una conversazione? Ciao, come ti chiami? È vero che tuo
fratello è un parricida?
«Scusa.
Scusami, scusami tanto, davvero. Non volevo. È solo che hai
fatto quel commento sulle famiglie sfortunate e...», si
interrompe, notando che l'altro sta ridendo. Sta ridendo
così tanto che ha le lacrime agli occhi.
«Scusa,
scusa è solo che... è il modo in cui l'hai detto.
Io─», Stefan non riesce a continuare, le risate glielo
impediscono. Ed è così strano ridere di una cosa
del genere. Così dannatamente strano e liberatorio che
potrebbe amare quella ragazza anche solo per questo.
~
È
tardi, ed è buio, e sono entrambe condizioni a cui Stefan
non può porre rimedio. È rimasto al pub con
Katherine fino quasi all'ora di chiusura, dimenticandosi completamente
del trascorre del tempo e delle lezioni del giorno dopo, e ora non gli
rimangono che un paio d'ore tra l'andare a letto e il suono della
sveglia. Nessun rimpianto però.
Apre la porta senza far rumore, pregando che suo padre sia
già abbastanza ubriaco da non sentire lo scatto della
serratura. Non ha voglia di litigare, non ne varrebbe la pena, e gli
lascerebbe ancora meno tempo per dormire. È per questo che
lascia le luci spente e procede a tentoni nel buio. Non è un
gran problema, conosce quella casa a memoria, potrebbe percorrerne i
corridoi ad occhi chiusi. Lo ha fatto decine di volte in passato,
quando lui e Damon erano piccoli e giocavano a turno a fare i
prigionieri dei pirati.
Quindi avanza oltre la soglia con cautela (ha bevuto un po' troppo, gli
gira la testa e anche la stanza minaccia di mettersi a girare da un
momento all'altro), ma comunque con una certa sicurezza. Si toglie la
giacca e le scarpe e li lascia all'ingresso, poi si dirige verso il
punto in cui, secondo i suoi nebulosi calcoli, dovrebbero esserci le
scale.
È a quel punto che qualcosa di duro e legnoso si abbatte
contro la parte destra della sua nuca.
Il dolore esplode come un fuoco d'artificio, e scintille bianche gli si
formano davanti agli occhi. Cade a terra gridando e portandosi le mani
alla testa. Sente il sangue fluirgli contro le dita ed imbrattargli i
capelli, la faccia, i vestiti.
Viene assalito ancora, con calci nello stomaco e al petto. L'oggetto di
legno che l'ha colpito la prima volta cala di nuovo su di lui,
prendendolo alla spalla. Gli ci vorranno quasi due mesi di
riabilitazione per riuscire a muovere il braccio senza sentire dolore.
Stefan rotola via, sottraendosi all'attacco. Si rimette in piedi a
fatica, sostenendosi contro la parete. L'assalitore sbuffa e bestemmia
tra i denti, cercandolo nel buio, ed è quella voce a
svelargli l'identità dell'uomo che sta tentando di
massacrarlo di botte.
«Papà! Papà sono io, fermati!
Fermati!»
La puzza di alcool lo investe nel momento esatto in cui suo padre,
guidato dalle sue grida, riesce infine ad inchiodarlo contro il muro.
Una mano gli afferra la gola, mozzandogli il respiro e le parole.
Stefan capisce al volo che suo padre è troppo ubriaco per
riconoscerlo, e allo stesso tempo identifica l'oggetto con cui l'ha
colpito. Non è né un bastone né una
mazza, come aveva pensato all'inizio: è il suo fucile. E, da
quello che il ragazzo può ricordare, quel fucile
è sempre stato carico. Pronto per essere usato nel caso in
cui dei ladri avessero avuto l'infelice idea di visitare casa loro.
“Pensa che sia un ladro”, realizza Stefan
all'improvviso. Gli viene da ridere, perché è una
cosa così stupida e paradossale che non può
davvero stare accadendo.
All'improvviso il peso dell'uomo gli viene tolto di dosso, e la voce di
suo fratello risuona spaventata come non ricorda di averla
più sentita da anni, ormai. Stefan si accascia sul
pavimento, annaspando per cercare aria, tentando di liberarsi da quella
sensazione di soffocamento.
Sente suo fratello e suo padre lottare, e tenta di rimettersi in piedi,
di fare qualcosa, di fermare quella follia. Lo scatto metallico della
sicura gli fa perdere un battito. Urla il nome di suo fratello
più e più volte, ma nel buio non riesce a
trovarli.
Altri rumori di mobili che vengono rovesciati, di grugniti e
imprecazioni.
Poi lo sparo.
~
«È
stato un incidente», ripete Stefan. «Stupido e
senza senso. Come tutti gli incidenti, immagino.»
Elena
annuisce perché non sa cos'altro fare. Ma le sembra troppo
poco, quindi allunga di nuovo una mano e la chiude su quella di lui.
«Katherine
è sparita il giorno dopo. Ci abbiamo messo qualche giorno
per accorgercene, a causa dei... be', dei funerali, dell'ospedale e di
tutto il resto. Poi è venuto fuori che lei e Damon
avevano... una tresca. E le cose tra me e mio fratello erano
già abbastanza difficili, come puoi immaginare»,
conclude Stefan.
«Non
saprei dire chi dei due ha la famiglia più sfortunata, a
questo punto», commenta Elena.
Stefan
sorride tristemente e le accarezza il dorso della mano con il pollice.
«A
proposito...», comincia poi.
«Katherine
se n'è andata», gli risponde Elena. «Ho
chiesto a tutte le infermiere, e una di loro mi ha detto di averla
vista uscire dall'ospedale più di mezz'ora fa. Sta bene, ha
solo qualche livido, o così mi hanno detto.»
Se
Stefan ne è sorpreso, lo nasconde benissimo.
«Anche
tuo fratello sta bene, ma il medico ha detto che probabilmente
dovrà restare qui almeno un paio di giorni, in
osservazione.»
«Non
gli piacerà», borbotta Stefan, ma sembra comunque
molto sollevato.
«Scommetto
di no», conferma Elena con un sorriso. «Per quanto
riguarda i tuoi amici, nessuno sembra ferito gravemente. La furia
bionda─»
«Quale
delle due?»
«Quella
che voleva fare lo scalpo a mia sorella.»
«Caroline,
allora. Anche se scommetto che nemmeno Rebekah disdegnerebbe
l'idea.»
«Katherine
non ha molte amiche, qui a Mystic Falls, vero?»
«Non
molte, no», sospira Stefan.
«Be',
Caroline ha detto che forse può mettere una buona parola con
lo sceriffo.»
«Lo
credo bene: è sua madre», commenta Stefan.
«Dio, che razza di casino», aggiunge subito dopo,
nascondendo la faccia nelle mani.
«Non
dirlo a me», ribatte Elena. «Non conosco nessuno di
voi, non so nemmeno come faccia a conoscervi Katherine e, a ben
guardare, a quanto pare non conosco nemmeno lei.»
Stefan
solleva le sopracciglia, sorpreso.
«Non
sei di Mystic Falls?»
Elena
scuote la testa.
«Ci
sono cresciuta, ma a quattordici anni ho cominciato a frequentare un
istituto privato. Ci torno solo per le vacanze.»
«Buon
per te.»
«Dici?
A quanto pare succedono un sacco di cose... interessanti in questo
posto.»
«Non
davvero», nega Stefan con un mezzo sorriso. Poi torna serio,
si passa una mano nei capelli e la guarda dritto negli occhi.
«Dovresti andare a cercare Katherine. Credo che abbiate
parecchio di cui parlare.»
Elena
annuisce.
«E
tu dovresti andare da tuo fratello. Ha chiesto di te»,
è una bugia, ma a fin di bene.
Stefan
se ne accorge, ma la accetta senza commenti. Fa comodo anche a lui
crederci.
Elena
si alza, si solleva in punta di piedi e stende le braccia,
stiracchiandosi, poi sopprime uno sbadiglio con la mano.
«Meglio
che vada. Mia zia sarà già qui ed è
meglio muoverci se vogliamo trovare Katherine. Sembra davvero brava a
nascondersi.»
«Lo
è», conferma Stefan, alzandosi in piedi a sua
volta. «Be', arrivederci, allora», aggiunge.
Elena
si ravvia i capelli e sorride, nervosa.
«Arrivederci», lo saluta a sua volta. E prima che
la situazione diventi ancora più imbarazzante, gli volta le
spalle e si avvia verso l'uscita. A metà corridoio,
però, ci ripensa e torna indietro di corsa, fermandolo prima
che lui riesca ad aprire la porta della stanza di suo fratello.
«Io
sono Elena Gilbert», si presenta, ridendo e tendendo la mano.
«Ti ho detto tutto tranne questo.»
«Stefan
Salvatore», risponde l'altro, anche lui ridendo. «E
con questo direi che ormai conosciamo tutto l'uno dell'altra.»
~
Con
tutta la buona volontà che uno può metterci, non
è facile allontanarsi molto quando si è a piedi e
si ha l'aspetto di una Catwoman che ha avuto la peggio in un incontro
di lotta libera con l'incredibile Hulk, e Katherine lo sperimenta a sue
spese.
Quando
la macchina di Jenna si accosta al ciglio della strada dove sta
inutilmente tentando di fare l'autostop è quasi un sollievo.
«Sali»,
dice semplicemente Elena. E Katherine obbedisce senza una parola.
Più
tardi, sedute sul divano con una tazza di tè bollente tra le
mani, Elena la costringe a raccontarle la verità. Katherine
le dice il minimo indispensabile perché sua sorella non
prenda a colpirla per la frustrazione, e per Elena è
sufficiente, almeno per il momento.
Sapere
che Katherine è cresciuta lì a Mystic Falls, da
sola e senza quasi nessun supporto, mentre lei era in un altro stato
è un brutto colpo. Sapere che suo padre non solo ne era a
conoscenza, ma che le passava dei soldi tutti i mesi senza farne parola
a nessuno ─ nemmeno alla diretta intestataria di suddetti assegni, che
l'ha scoperto solo dopo l'apertura del suo testamento ─ è
ancora peggio. Ma in fondo se può conviverci Katherine
può farlo anche lei. O comunque può provarci.
Alla
fine si addormentano sul divano del soggiorno, quasi
contemporaneamente, più vicine di quanto avrebbero mai
creduto o sperato fino a poche ore prima.
~
Stefan
si siede sulla stessa poltroncina occupata poco prima da Katherine, e
rivolge a Damon uno sguardo altrettanto curioso e preoccupato.
«Mi
dispiace», mormora per l'ennesima volta in quell'infinita
giornata. «E non fare finta di dormire, non sei
credibile.»
«Dovete
smetterla di continuare a dirmi quello che so e che non so
fare», grugnisce Damon in risposta, senza aprire gli occhi.
«E dovete anche smetterla di prendermi a pugni.»
«Io
non ti ho preso a pugni», replica Stefan.
«Mh,
vero», commenta Damon. «Ma quelli che ho preso
erano tutti a causa tua. Sentiti in colpa.»
«Ti
ho già chiesto scusa.»
Damon
grugnisce di nuovo. «Portami un bicchiere d'acqua e potrei
anche considerare di accettarle, le tue scuse.»
Stefan
si affretta ad uscire in corridoio e a raggiungere il distributore.
Quando torna nella stanza, Damon è riuscito a mettersi
seduto e non sembra più avere intenzione di ignorarlo. Lo
ringrazia quando gli porge il bicchiere, e accetta il suo aiuto quando
si accorge di non riuscire a sollevarlo. È una situazione
imbarazzante per entrambi.
«Comunque
non so se io accetterò
le tue scuse»,
dice Stefan qualche minuto dopo, tanto per spezzare il silenzio.
Damon
alza un sopracciglio.
«Quali
scuse?»
«Quelle
per avermi fatto cacciare dalla band di Rebekah. Dubito mi vorranno
ancora a suonare con loro dopo quello che è successo
stanotte», spiega Stefan. Ma c'è un accenno di
sorriso sulle sue labbra.
«Dovresti
ringraziarmi. Sono degli psicopatici.»
«E
tu dovresti ringraziare me per non aver lasciato che quegli psicopatici
ti ammazzassero di botte.»
Damon
si sistema meglio i cuscini dietro la schiena.
«Sembra
che ci dobbiamo un sacco di scuse e di ringraziamenti a
vicenda», borbotta. «Quindi ecco il patto: nessun
altro mi
dispiace e
nessun altrograzie.
Facciamo che siamo pari.»
Stefan
annuisce, anche se non è molto convinto di quella tattica.
È proprio quella che hanno usato fino a questo momento, e
non sembra aver dato grandi frutti, finora. Ma può almeno
fingere fino a quando Damon non sarà un po' messo meglio.
«Sei
riuscito ad avere la tua chiacchierata, alla fine?», domanda
poi.
«Solo
con Katherine», replica Damon. «Niente che non
avrei potuto immaginare da solo, ma è sempre meglio avere la
conferma, non è vero?»
Stefan
abbassa lo sguardo sulle proprie mani.
«Mi
dis─»
«Niente
più scuse, ho detto», lo interrompe suo fratello.
«Altro capitolo chiuso. Ora perché non vai a
cercare un dottore e trovi un modo per tirarmi fuori da questo
posto?»
«Devi
rimanere qui almeno stanotte, ancora. Lo sai», ribatte
Stefan, sospirando internamente.
Damon
gli rivolge un'occhiata truce.
«Io
ti ho tirato fuori dall'infermeria quando mi hai chiamato»,
gli ricorda.
Stefan
sbuffa.
«Ma
io non le avevo prese fino a farmi spaccare le ossa», gli
rammenta a sua volta. Poi si morde il labbro perché non ha
esattamente voglia di rievocare quella particolare giornata.
Damon
decide di non infierire. Forse solo perché è
semplicemente troppo stanco per farlo.
«Rick
ha un sacco di impegni questo mese», aggiunge
però, dopo qualche minuto. «Dovremo metterci a
cercare qualcuno che lo sostituisca.»
Quelle
parole lo prendono di sorpresa. E valgono quasi quanto un abbraccio.
Non è mai stato chiaro a nessuno (tanto meno a loro stessi)
se sia stato Stefan ad andarsene o Damon a cacciarlo, ma di sicuro
c'era, fino a quel momento, che nessuno dei due aveva mai anche solo
accennato all'ipotesi di tornare indietro.
Stefan
si butta all'indietro, contro lo schienale della poltrona, e sospira
pianissimo.
«Prima
o poi dovrai spiegarmi come hai fatto a convincerlo ad unirsi alla band
in primo luogo», ribatte, perché non riesce
davvero a pensare a nient'altro, dato che i grazie gli
sono ufficialmente preclusi.
«Quando
sarai maggiorenne. Forse», ribatte prontamente suo fratello.
«...Ora
non sono più tanto sicuro di volerlo sapere»,
commenta Stefan, tentando inutilmente di trattenere uno sbadiglio.
Damon
sorride.
«Dormi»,
gli ordina poi. «E soprattutto lascia dormire me, visto che
non posso fare nient'altro.»
Stefan
annuisce, e si sistema meglio sulla poltrona. La stanchezza gli fa
subito socchiudere le palpebre. Sbadiglia ancora un paio di volte, ed
invidia tantissimo il letto di Damon. Ma
va bene anche così,
pensa poi.
Ormai
è giorno fatto e la stanza è illuminata da caldi
raggi dorati. Non ci sono ombre nemmeno negli angoli più
nascosti o, se ci sono, in quel momento Stefan non riesce a vederle.
È già un bel passo avanti.
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