Pairing/Characters: Sherlock
Holmes, Joan Watson
Rating: G
Warnings: Gen,
Fluff, post 2x16 ma nessuno Spoiler.
Word
Count: 2078
(fdp)
Disclaimer: Niente
di mio, non ci cavo un euro.
N/A: Scritta
per il COWT#3 @ maridichallenge,
missione #3, prompt “L'essenziale” (notare la mia
fantasia per i titoli, prego), e per 500themes_ita,
prompt #80.
Dietro i sorrisi.
L'essenziale
Se
la ritrova tra le mani quando va a prendere la posta quella mattina, in
pigiama e a piedi nudi, con una tazza di tè in mano:
è una busta raffinata, fatta di carta rigida e finemente
decorata, sicuramente molto costosa, che non può non
spiccare in mezzo a tutte le altre ― perlopiù bollette e la
solita pubblicità di viaggi o di sconto per detersivi.
Sul
retro della busta, in una scrittura corsiva nera e piena di svolazzi,
ci sono entrambi i loro nomi. Ed è questo che la sorprende
di più, a dire il vero.
Non
le servono le capacità deduttive di Sherlock per capire che
è un invito ad un qualche tipo di evento mondano e, siccome
lei non ha amicizie di quel genere, non è certo qualcuno di
sua conoscenza ad averli invitati. Quindi quello che non capisce
è, prima di tutto, chi tra le conoscenze di Sherlock
potrebbe sapere abbastanza di lei al punto da includerla in un invito
del genere e, in secondo luogo, chi mai, conoscendo Sherlock, potrebbe
ritenere una buona idea invitarlo ad una festa.
Una
festa in
maschera,
addirittura, scopre poi, una volta aperta la lettera.
Rimane
a fissarla per un po', tanto che la tazza di tè le diventa
tiepida tra le mani, poi si avvia a grandi passi verso il salone, dove
il forte rumore di ferraglia le annuncia che Sherlock sta risistemando
i suoi lucchetti per l'ennesima volta.
Sherlock
guarda il cartoncino dell'invito come altri guarderebbero la fotografia
dettagliata di un'autopsia, e sebbene Joan non ne sia stupita, non
può fare a meno di esserne divertita. Un istante
più tardi, però, si rimprovera per quella macabra
similitudine. Lavorare con Sherlock ha sicuramente anche dei brutti
effetti, e questo ne è uno.
«Qualche
idea su chi l'abbia inviato?», domanda Joan, sorseggiando
quel che resta del suo tè ormai freddo.
«Forse.»
Joan
alza gli occhi al cielo.
«Credi
che sia un caso?», domanda ancora.
Sherlock
alza lo sguardo dal cartoncino a lei, e la fissa con un'espressione che
potrebbe essere interrogativa ― con Sherlock non si può mai
essere sicuri di niente ― stampata sul volto.
«Perché
pensi che lo sia?», chiede lui a sua volta, grattandosi un
lato della testa.
«Be',
perché è un invito misterioso ad una festa in
maschera, ed è rivolto a te», risponde Joan.
«Magari
hanno semplicemente sentito parlare delle mie doti di grande
intrattenitore e vogliono avere la possibilità di
incontrarmi di persona.»
Joan
alza un sopracciglio.
«O
magari no», ammette Sherlock.
«Quindi
è un caso», ripete Joan.
L'uomo
continua a grattarsi la testa con fare meditabondo.
«Forse»,
ripete infine.
Joan
alza di nuovo gli occhi al cielo e sospira.
«L'unico
modo per saperlo è andarci, allora», conclude alla
fine. E siccome non sente alcuna replica da parte dell'altro, decide di
prendere il suo silenzio come un assenso. «Ci serviranno
delle maschere», aggiunge poi. E sorride soddisfatta nel
vedere l'espressione a metà tra orrore e disperazione di
Sherlock.
Quando
scende nel salone quella sera, Joan trova Sherlock conciato in un modo
che non avrebbe mai e poi mai immaginato di vedere. Non nudo, no
— lo ha già visto nudo una mezza dozzina di volte,
suo malgrado, e comunque ormai è abituata a vederlo andare
in giro in vari stati di seminudità, quindi non ci fa
nemmeno più troppo caso.
Sherlock
ha addosso uno smoking.
«Ti
sei mascherato da persona civilizzata?», domanda Joan, ancora
ferma sull'ultimo gradino per la sorpresa.
Sherlock
si agita, evidentemente a disagio sia con la cravatta ― indossa la
cravatta! ― sia con le scarpe lustre e rigide.
«Sono
mascherato da una delle figure professionali più spregevoli
che la società umana si sia mai sognata di
inventare», risponde in un borbottio.
«Non
ricominciare coi banchieri.»
«Va
bene. Allora dirò che mi sono mascherato da James
Bond.»
Joan
ride.
«Quello
è un semplice smoking, non una maschera. Hai
barato», lo rimprovera poi.
Sherlock
si volta a guardarla con le braccia incrociate al petto e un
sopracciglio alzato. La squadra per quasi un minuto in quel modo, e
dopo un po' Joan assume di riflesso la stessa posa.
«Cosa?»,
domanda infine.
Lui
indica il kimono che ha addosso.
«Il
mio sguardo di disapprovazione era volto a sottolineare che accusare
qualcuno di barare quando si è a propria volta bari
è quantomeno ridicolo.»
«È
una maschera!», protesta Joan.
«È
un costume tradizionale della tua cultura», obietta Sherlock.
«Vale
anche come maschera.»
«Non
credo proprio. Imbrogliona.»
«Di
chi è la cultura in questione?»
«Potremmo
sempre telefonare a tua madre e chiedere il suo parere»,
propone Sherlock, e il cellulare appare come per magia nella sua mano.
«Non
ti azzardare!», lo minaccia Joan.
Rimangono
a fissarsi per qualche secondo in ostile silenzio, poi la donna sospira.
«D'accordo,
allora. Entrambi i nostri costumi sono validi. Nessun baro. Ora
vogliamo andare o no, Mr. Bond?»
Sherlock
sorride, poi le apre la porta e indica il taxi che li sta
già aspettando.
«Non
chiamarmi Mr. Bond, però», la rimbecca mentre si
accomodano sul sedile, quasi come un ripensamento.
«Preferisci
Signor Holmes?», domanda Joan, aggiustandosi lo chignon.
Sherlock
grugnisce di nuovo, ma per tutta la serata non si lamenta
più del nomignolo estemporaneo.
Il
taxi li deposita sulla soglia di una grande casa coloniale e
lì vengono ricevuti da un maggiordomo con una maschera da
topo che li accompagna nel salone principale.
Joan
si prende qualche minuto per osservare lo spettacolo delle sete e dei
lampadari di cristallo, dei tappeti sontuosi e dei quadri
rinascimentali, delle signore dai bellissimi costumi colorati,
impreziositi da brillanti sicuramente veri, e dei signori altrettanto
riccamente abbigliati. Sembra quasi il set di un film.
Al
suo fianco Sherlock gioca nervosamente con i bottoni della giacca,
rivolgendo alla sala la stessa occhiata mezza disgustata che ha
riservato all'invito.
Joan
lo nota e gli posa una mano sul braccio.
«Scopriamo
per quale motivo ci hanno invitato e poi torniamocene a casa,
d'accordo?», gli mormora a bassa voce.
Lui
annuisce, sempre con quell'espressione di disagio.
«Credo
che per prima cosa dovremmo parlare con i padroni di casa»,
aggiunge Joan. «Che ne dici?»
«Buona
idea», le concede Sherlock e, dopo un istante di esitazione,
le porge un braccio. «Andiamo?»
Non
trovano i padroni di casa da nessuna parte, pur attraversando tutto
l'elegante salone per almeno due volte.
Sono
in molti a conoscere Sherlock, nota Joan, ma sono pochi quelli a cui
Sherlock è disposto a concedere la grazia di rispondere
garbatamente, scopre anche.
La
sua curiosità è seconda solo alla sua confusione,
ma le conversazioni con gli altri ospiti non durano che pochi minuti,
giusto il tempo perché Sherlock trovi qualcosa di pungente
e/o imbarazzante abbastanza da mettere l'altro interlocutore in fuga.
Joan
non sa se ridere, rimproverarlo o tentare di nascondersi dietro una
delle grandi piante che decorano la stanza. La verità
è che si sta divertendo. Tanto. A tal punto, anzi, che ad un
certo punto dimentica l'invito misterioso e il motivo per cui, almeno
in teoria, dovrebbero essere lì.
Ci
mette più tempo di quello che avrebbe dovuto per capire come
stanno davvero le cose, ma più tardi, come parziale scusante
per quel ritardo, non può fare a meno di ammettere a se
stessa che Sherlock è davvero un buon
intrattenitore. Almeno per le persone che si degna di intrattenere.
Alla
fine, comunque, capisce.
E
di nuovo non sa se essere arrabbiata o divertita. Ormai ha capito
abbastanza di Sherlock da non prendere troppo sul personale quel genere
di situazioni assurde.
«È
casa tua, non è vero?», gli domanda a bruciapelo
mentre, appoggiati alla balaustra di marmo di uno dei grandi balconi,
ammirano il cielo stellato brillare a fatica sopra di loro.
«Dovresti
conoscere casa mia, Watson. In fondo ci vivi», replica lui,
senza troppa convinzione. Deve per forza aver previsto che prima o poi
ci sarebbe arrivata.
«E
preferirei decisamente questa all'altra», lo rimbecca Joan.
«Davvero?»
Lei
ci pensa su un attimo.
«No,
non davvero. Già è difficile tenere pulita
quella, figuriamoci questa specie di castello. Potremmo rapire il
maggiordomo, però.»
Le
labbra di Sherlock si inclinano in un sorriso appena accennato.
«È
casa di tuo padre, quindi?», chiede ancora lei. Non che ci
sia davvero bisogno di chiederlo: ovvio che sia tutto di suo padre,
anche la casa dove vivono loro lo è.
«Una
delle tante», conferma comunque Sherlock. E poi, prima che
lei abbia modo di fargli altre ovvie domande, continua: «Mio
padre è un uomo potente e molto in vista, questo credo che
tu l'abbia capito. Quello che gli uomini potenti e molto in vista
devono fare, oltre a guadagnare indecenti quantità di
denaro, è mostrare al mondo che sono persone rispettabili, e
questo, sfortunatamente, non si può fare per telefono o per
email, ma organizzando banali e socialmente utili aste di beneficenza o
lussuosi e ridicoli eventi come questo», spiega veloce.
«E
ti ha chiesto di partecipare?»
«Mi
ha ordinato di
partecipare. E non solo perché rifugge le occasioni mondane
come le api rifuggono gli uccelli insettivori, ma anche per provare che
il figliol prodigo è ritornato all'ovile.»
Joan
scuote appena la testa.
«Hai
una relazione difficile con tuo padre e lui non sembra esattamente la
persona più espansiva di questo mondo, lo so, ma sono ancora
convinta che abbia a cuore la tua salute perché ti vuole
bene, non perché si sente socialmente in obbligo verso di te
o come operazione di marketing.»
Il
sorriso di Sherlock assume una sfumatura amara.
«Sei
una persona ottimista. Buon per te», commenta soltanto.
Joan
vorrebbe ribattere, ma non sa cosa dire. La famiglia di Sherlock la
incuriosisce e la spaventa allo stesso tempo, tanto che non
è poi così sicura
di voler sapere.
«Per
quanto ancora dobbiamo restare per dare un senso a questa
sceneggiata?», chiede allora. «Vorrei andare a casa
e mangiare qualcosa di più sostanzioso delle
olive.»
Finalmente
Sherlock si volta di nuovo a guardarla, e questa volta il suo sorriso
è sincero e divertito.
«Direi
che abbiamo fatto più che abbastanza, per stasera. Se riesci
a non fare troppo rumore con quei sandali possiamo svignarcela dal
retro», annuncia felice.
Più
tardi, seduti lei sulla poltrona del salotto, lui per terra ai suoi
piedi, e con ancora i loro costumi-non-proprio-costumi addosso, si
dividono una pizza d'asporto davanti alla televisione.
«L'invito!»,
esclama all'improvviso Joan, scoppiando a ridere. «Oddio, ti
sei spedito un invito alla tua festa?»
Sherlock
ha il buon gusto di apparire, per un attimo, leggermente imbarazzato,
ma si riprende quasi subito.
«L'invito
era per te!», ribatte.
«C'era
anche il tuo nome!»
«Solo
perché sarebbe apparso sospetto non mettercelo. E
perché non ero sicuro che ci saresti andata e, anche in caso
positivo, se avresti chiesto a me di accompagnarti», risponde
lui, addentando un'altra fetta di pizza ricoperta di mozzarella fumante.
Non
per la prima volta da quando lo ha conosciuto, Joan sente l'impellente
bisogno di tirargli uno schiaffo dietro la testa.
«Se
ti serviva un'accompagnatrice avresti potuto chiederlo. Avresti potuto
semplicemente dirmi che diamine stava succedendo, invece di mentirmi e
mettere su tutto questo teatrino!», esclama esasperata.
Passata
la prima fase di divertimento, ora comincia anche quella della rabbia.
A scoppio ritardato, di nuovo, ma non è colpa sua, pensa, se
Sherlock è così bravo ad irritarla quanto a
rabbonirla.
«Non
volevo che fraintendessi», replica placidamente l'altro,
raccogliendo col dito uno schizzo di pomodoro che ha avuto l'infelice
idea di andare a schiantarsi contro la sua camicia bianca e, un tempo,
inamidata.
«Fraintendere
cosa?», domanda Joan.
«Vorrei
che fosse chiaro che intendo mantenere il nostro rapporto su un piano
strettamente professionale, e siccome il termine accompagnatrice ha
molte definizioni, alcune delle quali anche molto ambigue...»
Joan
spalanca appena gli occhi in un'espressione di educata
incredulità. Poi, siccome non sa cosa rispondere, gli lancia
contro la sua fetta pizza.
Ancora
un po' più tardi, quando Joan si è ormai liberata
del suo kimono e sta quasi per mettersi a letto, Sherlock appare sulla
soglia della sua stanza.
«Volevo
che ti divertissi», ammette, guardandosi le mani.
«Pensavo che, se non ti avessi spiegato che eravamo
lì perché non avevo altra scelta e che quindi la
nostra partecipazione era un'incombenza a cui non potevamo sottrarci,
avresti potuto goderti la serata. Le persone comuni di solito trovano
rilassante spezzare la routine andando ad una festa, soprattutto,
credo, quando la routine comprende molti omicidi.»
Seduta
sul bordo del letto, Joan lo fissa per qualche istante senza dire
niente. Pensa a tutti i modi in cui potrebbe rispondere ― alcuni non
molto educati ― e allo stesso tempo osserva il modo in cui Sherlock
evita di guardarla negli occhi.
«Mi
sono divertita molto», ammette alla fine, semplicemente.
«Ottimo!»,
esclama Sherlock, sorridendo sollevato.
«...ma
la prossima volta vorrei essere avvisata», aggiunge lei.
Lui
annuisce.
«Ricevuto,
Watson. Buonanotte, allora», risponde, e poi si allontana
prima che lei riesca ad auguraglielo a sua volta.
Infilandosi
finalmente sotto le coperte, per qualche minuto Joan non può
fare a meno di ripensare all'intera giornata. Ride tra sé, e
pensa che, in fondo, anche questo genere di situazioni fa parte dei
motivi essenziali per cui ha deciso di rimanere.
|