CAPITOLO 16
Mi
svegliai sul divano del salotto, con alcuni pop-corn incollati alla
perfezione
sulla guancia, quasi come tatuati, feci colazione e mi vestii per
andare al
lavoro.
La
bufera era passata, anzi, sembrava non ci fosse nemmeno stata.
I
Bobcat spalavano la neve ad un ritmo costante, liberando le strade
della
capitale inglese. Tutto funzionava alla perfezione.
Passai
davanti alla stanza di Simone. La porta era ovviamente sigillata.
Né
Celeste, né Leonardo erano rincasati a causa della tempesta. La mia
migliore
amica non mi aveva fatto sapere più nulla e sperai che avessero trovato
una
qualche sistemazione, anche improvvisata.
Invece
tu te ne sei stata al
calduccio, nevvero?
Il
mio Cervello, di prima mattina, sapeva essere tedioso come pochi.
D’accordo,
era impossibile rimuovere ciò che era successo la notte prima, quello
che aveva
fatto.
Avevamo…
Sì,
giusto. Quel “noi” che mi perseguitava.
Strinsi
il colletto della camicia con forza, mi aggiustai la gonna, mentre
l’odore del
caffè riempì la cucina. Ero in orario. Presto mi sarei diretta verso
l’ufficio
della Abbott&Abbott e avrei inseguito il mio sogno.
Con
la S minuscola.
Erano
finiti i tempi dei giochi. Quella sera avevo oltrepassato un limite che
mai mi
sarei aspettata di varcare ed era arrivato il momento di metterci una
bella
pietra sopra, un freno.
Prima
che fosse troppo tardi.
Feci
colazione e ricontrollai i documenti che James mi aveva chiesto di
esaminare
durante le vacanze, poi vidi gli appuntamenti nell’agenda.
I
passi di Simone riecheggiarono nel corridoio facendomi venire la pelle
d’oca.
Non
riuscii ad alzare lo sguardo dal telefono. Avevo paura che se avessi
incontrato
di nuovo quegli occhi, i miei buoni propositi sarebbero sfumati.
Lui
d’altro canto non disse nulla. Si limitò a circumnavigare l’isola della
cucina
e tirò dritto verso il caffè, versandosene un po’ nella tazza.
Lo
sciabordio del liquido versato fu l’unico rumore che si udì nella
stanza.
Cercai
di concentrarmi sul meeting che avrebbe avuto luogo quella mattina
stessa,
prima del nuovo anno. Affrontare il 2013 senza essere nemmeno riuscita
a
riesaminare il caso, non era certo una buona prospettiva.
Inoltre,
era chiaro come il sole che Mr. Abbott aveva la chiara intenzione di
stracciare
St. James accaparrandosi il Caso dell’anno – qualora fosse stato reso
noto.
Un
brivido mi attraversò la schiena.
Quella
mattina avrei incontrato il mio collega, nonché ex-presunto-fidanzato,
e con
quale faccia sarei riuscita a parlargli?
Il
suo braccialetto è ancora
nella sala hobby, dopo che te la sei svignata mentre il bello
addormentato
sonnecchiava.
Sentii
la gola improvvisamente ricoperta di sabbia.
Ci
eravamo addormentati dopo averlo fatto, lì, su quel divano di fronte al
fuoco
che stava lentamente spegnendosi. Verso le due del mattino, mi ero
svegliata e
mi era sembrato più che logico tornarmene nella mia “stanza”
provvisoria.
Simone
aveva fatto lo stesso.
Se
Celeste e Leonardo fossero tornati all’improvviso, cosa avrebbero detto
altrimenti?
E
così me l’ero svignata di soppiatto neanche fossi stata l’amante di
qualcuno.
Posai
il cellulare sul ripiano della cucina e cominciai a cercare il mio
mazzo di
chiavi, per poi uscire dalla porta dritta filata, senza nemmeno alzare
lo
sguardo.
«A che ora
torni?»
mi chiese lui con noncuranza.
Cazzo.
Perché
se ne usciva con quelle domande idiote proprio quanto stavo facendo di
tutto
per evitarlo?
Frugai
nella ciotola delle chiavi, facendo volontariamente rumore.
«Non lo so,» risposi
distrattamente. «Ho
una riunione.»
Sperai
che non indagasse ancora, altrimenti avrei ceduto. Era maledettamente
difficile
comunicare con qualcuno senza guardarlo negli occhi.
Quegli
occhi che mi avevano bruciata viva.
«Mh…» sbuffò e lo
sentii succhiare volontariamente il caffè dalla tazza.
Alle
volte si comportava come un bambino, senza alcuna difficoltà. Inoltre,
quelle
maledette chiavi non ne volevano sapere di essere trovate.
«Le tue chiavi
sono lì,»
disse Simone improvvisamente.
D’istinto,
senza riflettere, alzai lo sguardo su di lui e lo vidi indicarmi il
divano. Il
mazzo di chiavi era finito tra le pieghe dei due cuscini e non lo avrei
trovato
nemmeno volendo.
Ciò
non toglieva nulla alle iridi del calciatore che ora mi scrutavano
soddisfatte.
«Che vuoi?» risposi
brusca, afferrando il mazzo con una mano e la valigetta con l’altra.
Ora
mancava soltanto il cappotto e sarei stata libera.
Lo
indossai proprio quando Simone iniziò a mangiare un Ringo. Dio,
soltanto lui
poteva mangiare un dannato biscotto in quel
modo.
Guardò
prima il biscotto con attenzione, quasi contemplandolo, poi fece un po’
di
pressione, ruotandolo leggermente, e separò le due metà. Mangiò subito
il
biscotto senza ripieno, leccandosi le labbra e godendo di quel piccolo
piacere.
Dannato,
dannato, dannato!
Quel
piccolo infido maledetto bastardo sapeva che lo stavo guardando! E
stavolta non
si trattava nemmeno di un sogno.
In
seguito si dedicò all’altra metà del biscotto, leccando via tutta la
cioccolata
e sporcandosi gli angoli delle labbra. Quando passò al secondo dolce,
decisi
che o me ne sarei andata di lì in fretta e furia, oppure tanto valeva
che
chiamassi l’ufficio.
«Nemmeno
saluti?»
commentò, non appena posai la mano sul pomello della porta.
Ero
rigida come un pezzo di ghiaccio. «A dopo, ciao,» tagliai
corto.
In
un soffio mi fu dietro. Sentii lo spostamento d’aria e quel suo profumo
che mi
riportò a quella notte appena passata senza nemmeno bisogno del
teletrasporto.
Simone
mi voltò con impeto, bloccandomi ogni via d’uscita.
«Intendevo un
saluto come si deve,» ghignò,
carezzandomi il labbro inferiore con il pollice.
Voleva
che facessi la prima mossa. Subdolo figlio di puttana.
E
poi lo sguardo mi cadde su quelle macchie di cioccolato all’angolo
della sua bocca.
Ne aveva anche un po’ sul mento.
Fu
quel particolare che mi fece perdere del tutto la ragione.
Al
diavolo il lavoro, al diavolo la riunione, chissenefrega di Celeste o
Leonardo,
oppure di James che mi avrebbe giudicata. Poco m’importava.
Con
una lappata gli portai via la cioccolata sul mento, poi mi appropriai
di nuovo
delle sue labbra.
Riuscii
ad arrivare allo studio con dieci minuti di ritardo.
Ed
eri in orario.
«Passate bene
le vacanze?»
trillò la voce acida ed odiosa di Yuki.
Per
l’occasione, indossava una gonna a scacchi rossa e una camicetta
bianca.
Sembrava appena uscita da un manga.
«Benissimo,» le risposi.
James
mi affiancò subito, salutando la giapponese e richiedendo
immediatamente la mia
presenza con la massima urgenza. Cosa aveva da dirmi?
Un
“bip” mi avvertì del messaggio appena ricevuto sul cellulare. Ebbi il
tempo di
leggerlo appena prima di entrare nell’ufficio di James.
stamattina
ti sei fatta perdonare.
sappi
che nessuno molla simone sogno sgattaiolando
alle due del mattino.
-simonator
Rimasi
allibita. Era davvero così cretino?
Ma
soprattutto, si era davvero firmato Simonator?
Pregai
tutti i santi in paradiso che avesse sbagliato numero, poi nascosi il
cellulare
in fretta e furia prima che James se ne accorgesse. Ci mancava solo una
brutta
figura con lui.
«Come va?» mi chiese
sorridente, scartabellando tra alcuni fogli.
Feci
spallucce. «Bene.»
Considerando
che hai appena fatto
sesso con colui che dovresti difendere.
Si
udì un fruscio di carta. «Hai
passato al meglio il Natale? Io a Liverpool mi sono annoiato.» Sghignazzò. «Quando si ha
una famiglia numerosa, è sempre un gran trambusto.»
Oh,
lo so benissimo.
Visto
e considerato che casa Sogno era stata invasa da tutti i suoi elementi
in una
sola giornata.
«Già. Comunque
è andato tutto benissimo, grazie.»
«Sono contento,» sorrise.
Quel
gesto mi scaldò il cuore. Per quanto odiassi me stessa per quei
pensieri così
puerili, per quel comportamento che lentamente mi stava facendo
somigliare alle
persone che più odiavo al mondo, mi ritrovai a pensare quanto James
fosse
importante per me.
E
molto.
Un
altro “bip” mi riportò alla realtà.
quando
torni, prendimi una ciambella.
Perlomeno
questa volta non si era firmato. Un notevole passo avanti.
Mi
sentii in dovere di rispondergli un Non
sono la tua serva. Scendi e compratele da solo. quando la
segretaria ci
annunciò che la riunione stava per iniziare.
Bene.
Almeno avrei avuto la scusa per spegnere il cellulare.
Mr.
Abbott era già nella sala, mentre all’appello vidi che mancavano alcuni
soci importanti
dello studio. James mi aveva detto che era di routine fare un meeting
prima del
nuovo anno, una sorta di bilancio del 2012 che se ne andava.
«Accomodatevi,» ci disse il
signor August, rivolgendo un sorriso bonario al nipote.
Nervosa
mi sedetti vicino a James, senza proferire parola.
Non
avevo idea degli argomenti che sarebbero stati trattati, eppure mi
sentivo come
se stessi affrontando uno degli esami di Sheperd, a Cambridge.
«Siamo in
attesa di Mark e Carl,»
sorrise Mr. Abbott. «Nel
frattempo, posso chiedervi come sta andando con il caso di Mr. Sogno.
Ci tengo
particolarmente, visto che Marco è un mio carissimo amico, anche se non
lo
sento da tempo.»
E
ci credo bene. Non sapeva nemmeno che suo figlio fosse citato in
giudizio!
James
prese la parola. «Miss
Cloverfield ha fatto sapere, tramite il suo avvocato, che non intende
scendere
ad alcun tipo di patteggiamento. Ha detto che vuole la paternità del
piccolo e
ha aggiunto che Mr. Sogno deve prendersi la responsabilità di ciò che
ha fatto.»
Rabbrividii.
Lentamente
la possibilità che Simone fosse davvero il padre del bambino cominciò a
insinuarsi dentro di me, facendomi tremare.
Dovevo
tagliare i ponti il più presto possibile. Ero ancora in tempo, in fondo
avevamo
scopato solo una volta.
Ecchessaràmai!
Mr.
Abbott annuì pensieroso. «Mh,
capisco. C’era da aspettarselo,»
commentò, poi alzò quegli occhi azzurri su di me. «Lei cosa ne
pensa, Miss Donati. Come dovrebbe agire lo studio?»
Ed
ecco la mia occasione.
C’era
chi aspettava da una vita di riceverla, chi ci sperava ogni giorno.
Prima
facevo parte anche io di quella cerchia. Finalmente era giunto il
momento per
riscattarmi, ma era caduto nel periodo sbagliato. Proprio quando le
“vacanze”
mi avevano portato via del tempo per rivedere gli appunti.
«Beh…» arrancai,
cercando James. «Miss
Cloverfield è stata chiara. Non credo si possa giungere ad un accordo.»
«Questo lo
sapevamo, vada avanti,»
mi spronò l’avvocato.
La
verità era che non sapevo cosa dire. Gli avrei potuto raccontare
dell’arrivo di
Celeste, del timballo di melanzane di nonna Annunziata, della quantità
infinita
di Barbie di Susanna e di quanto fosse bella Londra dalla ruota
panoramica.
Del
caso, invece, sapevo poco e niente.
«Forse…» tentò di
salvarmi James in corner.
Mr.
Abbott alzò una mano interrompendolo. «Lascia parlare la ragazza,» s’impose.
E
il silenzio ripiombò nuovamente nella sala riunioni. Mi sentii come
quando fui
interrogata per la prima volta, alle elementari. Avvertii lo stesso
groppo alla
gola, le parole che si aggrappavano alla faringe senza riuscire ad
uscire.
Potevo
anche dire addio al posto nello studio, ora.
«August,
eccoci,»
disse Carl, salvandomi.
I
due soci arrivarono proprio nel momento adatto, distraendo Mr. Abbott e
facendogli momentaneamente perdere la concentrazione. Avvertii
immediatamente
la mano di James stringersi alla mia e infondermi forza.
Era
fredda.
Dopo
qualche secondo non riuscii più a sopportarla.
«Vado un attimo
alla toilette,»
gli sussurrai, a riunione iniziata.
James
annuì distrattamente, troppo concentrato ad ascoltare ciò che i suoi
colleghi
avevano da dire sul piano annuale dello studio.
Corsi
a perdifiato per l’edificio, alla ricerca di ossigeno. Scesi le
scalette e mi
riversai in strada, sentendo un forte peso che mi opprimeva il cuore.
Caddi
sulle ginocchia, con le calze di nylon a stretto contatto con la neve
fredda.
Cercai
il cielo solo per sfuggire da quella morsa che lentamente mi stava
offuscando
anche la vista. Avevo rischiato troppo per la mia negligenza.
Lentamente e
senza quasi accorgermene stavo mandando a rotoli tutto ciò per cui
avevo
lavorato con tanta fatica.
Per
cosa poi?
Nemmeno
una relazione seria sarebbe valsa il sacrificio. Quella con James non
era
nemmeno cominciata e con Simone… era solo sesso.
«Ehi…»
Una
voce familiare mi riportò alla realtà, così alzai lo sguardo e trovai
gli occhi
azzurri della mia migliore amica.
«E voi cosa ci
fate qui?»
Leonardo
rispose per lei, sorridendo. «È
da quando siamo arrivati che vuole vedere dove lavori. Visto che il
locale di
ieri sera era qui vicino, ce l’ho portata.»
Ovviamente.
«Che bella
sorpresa, non sapevo conoscessi l’indirizzo dello studio,» dissi,
rialzandomi in piedi e aggiustandomi il tailleur.
Celeste
sorrise. «Infatti,
non lo sapevamo, ma abbiamo incontrato Simone da Starbucks,
che comprava una ciambella.»
Che
fortuna sfacciata.
«Eccolo che
arriva,»
sbuffò Leonardo, con le mani in tasca.
La
mia migliore amica mi fissò con occhi brillanti. «Ci ha accompagnati fin qui, è
stato carino. no?»
«Adorabile,» grugnii scettica, mentre il
sorriso di quel demente si allargava da orecchio a orecchio.
Simone
fece il suo solito ingresso trionfale, col petto in fuori e
quell’espressione
sul viso che diceva solamente “ammiratemi”.
Che
razza di pallone gonfiato.
Mi
fissò con sufficienza, ingurgitando la ciambella da cui uscivano chili
e chili
di burro. Ma dove metteva tutta quella roba?
«Alla fine sono
dovuto uscire,»
bofonchiò acido.
«Ti facesse
male…»
borbottai.
Neanche
l’avessi programmato, non appena fummo tutti impalati di fronte al mio
ufficio,
sentii la porta cigolare e un paio di scarpe eleganti che si muovevano
frettolosamente sul selciato. Mi voltai e James mi restituì uno sguardo
preoccupato.
Non
disse nulla. Aveva visto Simone.
«Ero venuto a
vedere come stavi,»
sospirò, cercando di ignorare il calciatore. «Sei scappata via nemmeno la
stanza avesse cominciato a bruciare.»
Avvampai
di colpo. Non mi ero resa minimamente conto dell’effetto che avevo dato
scappando via così, magari Mr. Abbott c’era rimasto di stucco.
«Avevo bisogno
d’aria,»
risposi.
«Tu devi essere
James,»
disse Celeste, avanzando di qualche passo e tendendo la mano al
bell’avvocato. «Ho sentito un
tuo messaggio in segreteria.»
Da
gentleman qual era, James si fiondò a stringere la mano alla mia
migliore
amica, sorridendole con garbo. Più lo guardavo e più sembrava un uomo
d’altri
tempi.
«Piacere mio,» sorrise,
mentre Leonardo lo linciava da lontano. «Tu sei…?»
«Celeste, la
migliore amica di Ven,»
sorrise, lanciandomi uno sguardo furbo.
Vidi
i due cugini Sogno sul ciglio della strada innevata. Stavano mangiando
le
rispettive ciambelle con sincronismo e non la smettevano di fissare
James con
l’aria di chi lo avrebbe ucciso a morsi. Quei due erano terribilmente
simili,
mi trovai a pensare, ma non mi sarei mai azzardata a dirlo ad alta
voce,
altrimenti avrei scatenato l’inferno sulla terra.
Leonardo
si decise a muoversi. «Io
so’ Leonardo. Er ragazzo suo,»
grugnì in un forte accento romano.
James
ci mise un po’ a decifrare, ma tutto sommato capì. Era un uomo dalle
mille
risorse.
«Oh, sei l’altro
calciatore!» disse
innocentemente.
Simone
sghignazzò, mentre Leonardo diventò davvero color aragosta. Decisi di
intervenire prima di ritrovarmi senza un avvocato che potesse
spalleggiarmi
durante il caso Sogno-Cloverfield.
«Dobbiamo
tornare in riunione, ci vediamo a casa,» dissi, prendendo James
sottobraccio. Quel mio gesto non sfuggì allo sguardo scuro di Simo.
S’irrigidì
tutto d’un tratto ed io provai un profondo brivido, come se mi sentissi
in
colpa.
Okay,
avevamo fatto sesso una volta – forse due –, e il nostro rapporto si
era
evoluto, ma nessuno aveva parlato di legami.
Eppure
sentivo come un fastidio.
Ignorai
Simone e salutai la mia migliore amica, tornando a lavoro.
Dovevo
darmi una svegliata, altrimenti c’era il rischio che davvero mettessi
in secondo
piano il lavoro. Prima c’era stato James a distrarmi, ora Simone. Si
rincorrevano l’un l’altro nei miei pensieri, mandandomi ai pazzi.
Li
lasciai a guardarmi rientrare lì nel vicolo, su un marciapiede sporcato
dalla
neve di quella notte. Una notte che difficilmente avrei dimenticato.
James
si fermò nell’atrio. «Dovremmo
parlare,»
disse ed io rabbrividii.
«Mi servirebbe
un incontro con Mr. Sogno. È arrivato il momento di rimboccarci le
maniche e
lavorare sul serio, fino a tardi, coi libri del college sotto mano. Non
ci
hanno ancora fissato il giudice al processo, ma penso che col nuovo
anno
arriveranno altre brutte notizie.»
Feci
un mentale sospiro di sollievo, perché James si riferiva al caso,
ovviamente.
«Hai ragione.
Le cose mi sono sfuggite di mano ultimamente.»
Diciamo
che di mano, non ti è
sfuggito poi tanto.
James
sorrise. «Non
preoccuparti, è vacanza. Ti capisco,» mormorò, gentile come sempre. «Però ho come
la vaga impressione che Mr. Sogno abbia una certa confidenza con te,
forse
sarei di troppo?»
Deglutii
a fatica. «Macché!» sbottai,
mettendo le mani avanti. Possibile che avessi scritto in faccia “Hofattosessoconuncalciatore”? «Figurati se io
e quello lì potremmo mai andare d’accordo.»
Fuori
dal letto.
Sì,
nessuno è perfetto.
«Okay, mi fido,» sorrise,
posandomi una mano sulla spalla.
Sembrava
imbarazzato, come se volesse dirmi qualcosa ma non sapeva se fosse il
momento o
il luogo adatto. Gli afferrai gentilmente il polso.
«C’è qualcosa
che vuoi chiedermi?»
lo incitai.
James
sgranò quei grandi occhioni blu che mi fermarono il cuore. «Beh,
veramente…»
soffiò imbarazzato. Era raro che perdesse il controllo. «La notte di
San Silvestro, mia zia organizza un party. Zio August mi ha chiesto se
volevo
invitarti e beh…»
temporeggiò ancora.
L’ossigeno
sparì in tre nanosecondi.
«Io vorrei
invitarti,»
concluse, fissandomi serio.
Mayday,
mayday, mayday. Schianto
previsto tra un minuto.
Non
sapevo cosa dire, né cosa rispondere. Celeste stava organizzando quella
notte
da tempo, erano addirittura rimasti intrappolati in quel disco-pub pur
di
andare ad informarsi, con Sofi, ed ora io mi trovavo ad un bivio.
Sapevo
che Simone non aveva alcuna voglia di passare il Capodanno fuori, non
ora che
non poteva trombarsi tutto ciò che si muoveva, ma non avevo idea di
quali
fossero i suoi programmi.
Davvero
ti interessa?
No.
Bugiarda.
«Volevo passare
il Capodanno con Celeste. Lei il giorno dopo tornerà a Roma,» spiegai,
cercando di non ferirlo.
James
abbassò lo sguardo. «Capisco.» Poi cercò di
nuovo il mio. «Nel
caso potremmo raggiungerli verso le ventidue, così abbiamo la scusa
perfetta
per mollare la noiosissima festa di zio August.» E sorrise.
Bellissimo.
Non
potei fare a meno di vedere soltanto lui in quel contesto. «Perfetto.
Allora possiamo andare alla festa dai tuoi, poi passare dai miei amici,» ricapitolai.
Soltanto
dopo averlo detto, mi accorsi che suonava molto
da fidanzatini. Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Il
sorriso di James mi scaldò il cuore. «Sarà una serata stupenda,» poi aggiunse
sotto voce. «Perché
ci sarai tu con me.»
Ven,
sei una zoccola.
Amen.
La
trama fitta della carta da parati non era mai stata così interessante
come in
quel momento. Avevo sparsi sul divano tutti i fogli riguardanti il caso
di cui
dovevo occuparmi, compresi i file di Miss Cloverfield che James si era
fatto
passare dal suo avvocato.
Ovviamente
il compromesso ormai era da escludere. L’importante sarebbe stato
arrivare al
processo senza ulteriori scandali, sia per la carriera della ragazza
che per
quella di Simone.
Se
non si fosse raggiunto un accordo, ci sarebbe stato il test del DNA.
Era
l’ultima spiaggia a cui potevamo appellarci e sia io che James
contavamo sulla
risoluzione del caso molto prima di quell’asso nella manica.
Persa
in questi pensieri, mi ero ritrovata a fissare i ghirigori della carta
da
parati e a riflettere su quanto era successo in quegli ultimi giorni.
C’era
stato un bacio, poi un altro, infine c’era stata una pioggia di baci,
carezze,
effusioni. Infine c’era stato il sesso.
Ora
però mi trovavo schiacciata tra due fuochi, senza avere la minima idea
di cosa
fare. Ero partita dall’Italia con la chiara intenzione di fiondarmi di
petto
nel lavoro, senza lasciare spazio a tutto il resto, poi però avevo
incontrato
James e poi Simo.
Simone
che mi era entrato dentro e si era rannicchiato in un piccolo angolino,
proprio
lì vicino al cuore.
James,
invece, c’era sempre stato.
Ed
ora? Farai la fine di Bella o
delle classiche eroine dei romanzi d’Ammmore?
Il
problema non era il classico triangolo di cui aveva parlato anche
Renato Zero.
La verità era che non c’erano le basi per costruire chissà quale idea.
I
fatti erano presenti, d’accordo. Mi era piaciuto fare sesso con Simone,
due
volte, e l’avrei rifatto. Era solo attrazione fisica, nient’altro.
James,
invece... tutt’altro paio di maniche. Era come se finalmente fossi
riuscita a
trovare qualcuno che mi completasse, ma non potevo
starci insieme.
Non
fin quando il processo non si fosse concluso.
Mi
ero cacciata in un bel guaio accettando l’invito per Capodanno,
soprattutto
perché avrei dovuto trovare il coraggio di dirlo alla mia migliore
amica. Una
serata tutta per noi, che io avrei diviso con un uomo.
Non
era mai successo che ci separassimo per un ragazzo.
Ero
stata proprio una sciocca.
«Ehi.»
La
voce di Sofia mi sorprese, così balzai a sedere senza nemmeno
accorgermene. I
suoi occhi azzurri, grandi come due piattini da caffè, erano talmente
limpidi
che mi ci potevo specchiare dentro.
«Ehi,» le risposi,
sorridendo.
Sofia
si accomodò vicino a me, spostando qualche scartoffia sul tavolino.
«A quanto
ricordo, questo divano è stato sempre scomodo. Come fai a dormirci?» mi domandò
incuriosita.
Scrollai
le spalle. «Dopo
un po’ ci si fa l’abitudine,»
smozzicai, rimettendo in ordine i documenti prima che li perdessi
un’altra volta.
Sofia
guardò con interesse ogni mio movimento. La sua pelle era così chiara e
le sue
labbra così rosa che pensai fosse davvero la Biancaneve bionda
delle mie favole di bambina.
«Sai che è come
se ci fosse qualcosa di nuovo in te?» mi sorprese. «Come un taglio
di capelli, un nuovo profumo addosso… una ventata di novità, insomma.»
Rabbrividii.
Se Sofia avesse lavorato per Scotland Yard, l’FBI o la CIA, a quest’ora
non ci
sarebbero più terroristi in giro per il mondo.
Cercai
di cambiare discorso, o almeno ci provai.
«Sarà l’arrivo
dell’anno nuovo?»
ridacchiai nervosa.
Sofia
mi sorrise divertita, nonostante avesse ancora quella
luce furbesca negli occhi.
Cadde
il silenzio e mi sentii in dovere di cominciare pur da qualcuno, così
parlai e
decisi di vuotare il sacco, almeno per liberarmi da quel “peso”.
«James mi ha
invitata ad un party per Capodanno,» sputai tutto in una volta.
Era
un sollievo riuscire a dirlo finalmente, almeno prima di affrontare
direttamente la mia migliore amica. La biondina mi fissò allibita. «E tu cosa gli
hai risposto?»
chiese poi.
Guardai
verso il basso, le mie dita intrecciate che torturavano un lembo del
pullover.
«Ho accettato,» smozzicai
imbarazzata. «Però
ha promesso che andremo via per le ventidue. Vi raggiungeremo prima
della
mezzanotte,»
aggiunsi immediatamente, come se mi sentissi in dovere di dare delle
spiegazioni.
Sofia
però non smise quell’aria sorpresa. «Ah,» disse. Si afferrò una ciocca di
capelli biondi e se la rigirò tra le dita, nervosa.
Era
strano vederla così seria, lei che aveva sempre stampata l’ombra di un
sorriso
in volto.
Abbassò
lo sguardo. «Beh,
contavamo molto sulla tua presenza,» mormorò. «Ero riuscita a
convincere anche Simone, dicendo che venivi. Ora non penso voglia più
partecipare.»
Mi
sentii doppiamente in colpa dopo quella confessione, quasi come se
avessi
commesso chissà quale grave reato. Mi diedi mentalmente dell’idiota e
mi
maledetti per aver accettato quello stupido invito.
«Sono ancora in
tempo per disdire…»
smozzicai, dispiaciuta.
Sofia
scosse la testa e ritrovò il sorriso, anche se era forzato. «Alla fine è
giusto che James ti abbia qualche volta, in fondo è il tuo principe azzurro,»
spiegò cheta.
James
non era di sicuro un principe, ma sia i modi che il suo aspetto lo
facevano
somigliare molto ad un nobile d’altri tempi.
«Tenterò di
convincere Simo,»
aggiunse infine.
In
quel momento mi sentii come sotterrata da un masso. Una pietra gigante
che mi
schiacciò l’animo e mi fece assomigliare ad una vera merda.
«Ci parlo io
con Simone,»
dissi di punto in bianco, come se quello avrebbe cambiato le cose.
Già
mi immaginavo la scena del “Ciao Simo, vieni alla festa di Capodanno
che io vi
raggiungo con James a braccetto prima della mezzanotte. Giusto in tempo
per
slinguazzarci di fronte a te!”
Fantastico.
Gli
occhi di Sofia brillarono di felicità. «Davvero lo faresti? Sarebbe
fantastico… non passiamo un Capodanno insieme da anni,» soffiò
amareggiata.
Era
chiaro. Simone non si sarebbe perso una festa nemmeno per tutto l’oro
del mondo
e di sicuro non l’avrebbe passata con sua sorella, o con la sua
famiglia.
Tutto
ciò prima del caso in cui era stato
citato.
Capivo
benissimo come poteva sentirsi Sofia, com’era doloroso stare lontano
dalla
propria famiglia in quel clima di festività. Se poi il “lontano” era
inteso in
senso metaforico, il dolore raddoppiava. Era evidente che il calciatore
non si
rendeva conto della sofferenza che infliggeva agli altri, soltanto un
occhio
esterno come il mio poteva accorgersene.
E
ormai ero legata a quella famiglia in un modo che mai avrei immaginato.
«Ci proverò,» le dissi
sorridendo.
Mi
erano entrati dentro con la forza, tutti quanti. Erano riusciti a
penetrare
questo muro di cinismo, di ostilità e vi si erano annidati. Erano degli
inquilini abusivi.
A
partire dalla piccola Susanna e col finire con nonna Annunziata. Tutti
quanti.
Forse
sarebbe stato più semplice separarmi da loro, rinunciare a tutto
quello. Dire
addio a James, troncare tutto, lasciare indietro Simone e vederlo
unicamente
per il tribunale.
Forse
sarei dovuta tornare al monolocale, riprendere in mano la mia vecchia
vita.
Forse avrei dovuto dire “basta” prima che fosse troppo tardi per
tornare
indietro.
«Cosa state
confabulando?»
La
voce di Simone mi fece sobbalzare.
E
poi incontravo quegli occhi ed era difficile ragionare con la mente
lucida.
Sofia
prese la cosiddetta palla al balzo e si alzò in piedi. «Si è fatto
tardi, Ruben mi passerà a prendere tra poco, quindi vi lascio a questioni ben più importanti.» E mi fece
l’occhiolino.
Un
occhiolino davvero insistente.
Quella
scenetta da sit-com poteva davvero sembrare divertente ad un occhio
esterno,
peccato però che stavo raggiungendo l’apice dell’imbarazzo.
Simone
poi, con quel sorrisetto arrogante stampato in faccia non aiutava per
niente.
«Che hai da
sghignazzare?»
gli feci inviperita.
Lui
scosse la testa e si spostò distrattamente i capelli dal viso. Gesù,
quel gesto
era sempre da infarto. Ogni. Singola. Volta.
«Niente,» borbottò. «Mi piace
quando sei in imbarazzo.»
Lo
disse così, senza curarsene, ma non avrebbe mai immaginato che il mio
cuore
facesse un doppio salto mortale carpiato all’indietro. Odiavo questa
sua
spontaneità, il suo essere così maledettamente diretto.
Come
un bambino.
Un
poppante.
Un
marmocchio.
Bamboccione.
«Smettila!» gli dissi,
nascondendo l’imbarazzo e cercando di fare qualsiasi altra cosa.
Qualsiasi!
Mi
alzai diretta in cucina e cominciai a rovistare tra gli scaffali.
Sentivo il
suo sguardo addosso che mi accarezzava quasi fosse tangibile, ed io ci
stetti
troppo male.
Come
faceva ad influenzarmi tanto facilmente?
Sospirai,
tanto per scacciare quei brutti, bruttissimi, pensieri. Cercai il suo
sguardo
che subito si allacciò al mio, quasi come due calamite.
«Dobbiamo
parlare,»
dissi di punto in bianco.
Era
meglio tagliare la testa al toro subito, prima di rimuginarci troppo
sopra.
Sarebbe stato controproducente e non avrebbe portato da nessuna parte.
Chiaro
e tondo: James, io, Capodanno. Stop.
Simone
sulle prime non mi prese sul serio. Si avvicinò come un predatore
avrebbe fatto
con un succulento boccone e mi posò le mani sui fianchi. Rabbrividii
immediatamente a quel contatto. Mi mancavano troppo quelle mani.
Avrei
davvero voluto cedere, permettergli di fare di me quello che voleva, ma
avevo
fatto una promessa a Sofia. Via il dente, via il dolore. La sua
presenza al
party di Capodanno era fondamentale, anche per la sottoscritta.
Ero
un’egoista, e lo sapevo bene. Li volevo entrambi la notte di San
Silvestro,
tutti e due sotto lo stesso tetto.
Gli
bloccai le mani che nel frattempo erano andate a solleticare la pelle
sotto il
pullover.
«Davvero,
dobbiamo parlare,»
dissi decisa, guardandolo con serietà.
Simone
allora capì che c’era qualcosa di fondo in tutta quella storia, così
sorrise e
mi baciò la punta del naso. «Dopo.
Prima devo portarti in un posto,» disse, in tutta naturalezza.
C’erano
volte in cui pensavo di aver inquadrato un tipo come Simone, un ragazzo
giovane, bello, che aveva tutto dalla vita. E poi c’erano volte in cui
agiva
così, d’istinto, e mi trascinava dentro il suo vortice senza che io
potessi
sottrarmi.
«Promesso che
dopo parliamo?»
gli chiesi a conferma. Tanto non mi sarebbe sfuggito.
Lui
mi guardò con quelle iridi scure e profonde. Due opali. «Promesso.
Vieni.»
Mi
prese per mano e mi condusse fuori dall’appartamento, verso la sua
cinquecento
blu metallizzata parcheggiata in garage.
Il
tempo non era dei migliori, ma i meteorologi non avevano messo nevicate
in
programma per quella serata. Il viaggio fu piuttosto lungo, anche
perché
sembrava ci stessimo dirigendo fuori città, oltre la periferia di
Greenwich.
C’erano tanti quartieri alla periferia di Londra, posti che avevo visto
soltanto sul pullman quando ero arrivata dall’aeroporto di Gatwick.
Case
in mattoni rossi, a schiera, con piccoli giardini sul retro e sul
davanti. I
comignoli accesi che fumavano, le loro strutture sviluppate in altezza,
il
rosso scuro dei mattoni che spiccava in contrasto con la neve candida.
Sembrava
quasi il quadro perfetto, degno di una cartolina.
«Dove stiamo
andando?»
chiesi.
Era
legittima come domanda, visto che l’ultima volta in macchina con lui mi
ero
buscata un bel raffreddore da dimenticare. Simone teneva gli occhi
incollati
alla strada. Quegli occhi che più volte mi avevano mangiata viva.
Mi
morsi il labbro e tentai – davvero, ci provai con tutta me stessa – di
non
pensare a quello che avevamo fatto, ma per ovvie ragioni i ricordi si
riversarono nella mia mente come uno tsunami.
«Aspetta e
vedrai,»
disse misterioso, ed io incrociai le braccia.
Perché
doveva tenermi nascoste le cose? Sapeva che non riuscivo a resistere
dal
curiosare, era più forte di me!
«Mi stai
portando al mare? Ad un ristorante? Alla villa dei tuoi antenati morti?» provai, anche
se quella mia ultima uscita lo fece sorridere.
Mi
guardò tenendo le mani sul volante. Sorrise. «Non te lo dico. È inutile che
insisti,»
soffiò, avvicinandosi pericolosamente.
Eravamo
su una strada secondaria, ma pur sempre una strada. Cosa diavolo gli
era venuto
in mente? Possibile che fosse così ritardato?
«Guarda davanti
a te,»
gli dissi, preoccupata.
Lui
tolse una mano dal volante e la posò sulla mia gamba fasciata dai
jeans. «So guidare,
Lil’Elf,»
mi ricordò.
Lo
fissai di traverso. «Anche
se non metto in dubbio il livello di preparazione della motorizzazione
anglosassone, già l’idea di essere sul lato sbagliato della strada mi
mette a
disagio…»
mi lagnai.
Okay,
la mia metà cagasotto stava uscendo fuori senza alcun controllo.
Simone
scoppiò in una fragorosa risata e tornò a guardare la strada con più
attenzione. «Certe
volte mi spiazzi proprio,»
commento tra una risata e l’altra.
Inclinai
la testa da un lato, non afferrando pienamente il suo riferimento. «Cosa ho fatto,
si può sapere?»
chiesi irritata.
Ed
ecco che ci guardammo di nuovo. Se qualcuno avesse cronometrato il
tempo delle
nostre occhiate, ero sicura che sarebbe trascorso pochissimo tra un
battito di
ciglia e l’altro.
Due
calamite che si rincorrevano.
«Qualche volta è come
se ti avessi inquadrato,»
disse, cambiando marcia e accelerando un po’. «Poi è come se avessi un’altra
persona davanti a me. Sei come un camaleonte,» concluse.
Sorrisi.
In fondo era una specie di complimento ed io pensavo quasi la stessa
cosa di
lui. «Prima
mi chiami vecchia, poi piccolo elfo, nanetta ed infine camaleonte… si
può
sapere quanti soprannomi ho?»
borbottai, fingendo di fare l’offesa.
Era
divertente stuzzicarlo in quel modo. Non ero mai riuscita a fare lo
stesso con
James.
Simone
scrollò le spalle. «Tanti,
suppongo.»
«Anche io te ne
ho affibbiati tanti,»
realizzai. «E
pensare che non ho mai dato soprannomi a nessuno, se non una semplice
abbreviazione di un nome.»
Il
calciatore accelerò ancora, facendomi voltare verso la strada. «Nemmeno io ne
ho mai dati,»
concluse conciso.
C’erano
tante cose che a mano a mano stavamo facendo diventar nostre e forse
era sbagliato.
Niente era giusto di quello che stavo combinando con Simone. Dal sesso,
alla
frequentazione, al rischio di mandare tutto il lavoro e il tirocinio
all’aria.
E
quei maledetti soprannomi, poi.
«Allora ce la
vogliamo far arrivare la nave in porto, Capitano?» sorrise lui, guardandomi
complice.
Purtroppo
era impossibile resistere. «A
vele spiegate, Marinaio,»
risposi.
***
Arrivammo
ad Aton prima del previsto e gironzolammo un po’ per trovare un
parcheggio che
non desse troppo nell’occhio. Simone aveva in mente un posto preciso,
perciò
cercò di posteggiare la Cinquecento il più vicino possibile.
Ancora
non sapevo dove mi stesse portando o cosa volesse mostrarmi.
Era
un continuo enigma passare il tempo con lui, soprattutto quando non mi
trovavo
nel suo ambiente. Le partite erano un conto, gli allenamenti anche, ma
a tutto
questo non ero abituata.
E
poi faceva dannatamente freddo.
In
campagna, o periferia, senza lo smog che creava una specie di “cappa”
sulle
case, i meno cinque gradi di quella giornata si sentivano tutti
perfettamente.
Rabbrividii subito e mi rannicchiai nel cappotto.
Allora
Simone afferrò una delle mie mani e la strinse, infilandosela nella
tasca del
piumino.
Lo
guardai stranita.
«Che c’è? Non
posso essere gentile?»
ironizzò, fissandomi divertito.
Non
poteva comportarsi così. No! Era scorretto! «Mi dici dove stiamo andando?» chiesi stufa
di tutti quei suoi giochetti da marmocchio.
Simone
continuò a camminare, poi m’indicò con un cenno del capo un piccolo
parco
recintato.
Ci
avvicinammo ed entrammo in un cancelletto nero, in ferro battuto. C’era
una
pace in quel posto da sembrare quasi una finzione.
«E questo
sarebbe…?»
dissi, tentando di cavargli le parole fuori dalla bocca.
Era
più difficile di quanto pensassi, soprattutto per una che avrebbe
dovuto fare
l’avvocato.
«Un posto,» mormorò lui.
Arrivammo
fino ad un campetto da calcio dall’aria trasandata. L’erba era incolta,
poco
curata e la neve aveva ghiacciato la maggior parte dell’area.
C’era
una panchina abbastanza pulita su cui potersi sedere.
Rimanemmo
in silenzio a sentire il vento che frusciava tra le fronde degli
alberi. Di
tanto in tanto passava un barbone, o un senzatetto, con un fagotto dei
suoi
averi che ci ignorava.
Simone
teneva ancora la mia mano nella sua tasca e l’accarezzava. Mi sentii a
disagio
in quel momento, con quella verità che ancora dovevo svelargli.
«Senti…» tentai di
dire, visto che ormai non c’era quasi più tempo.
«È qui che è
cominciato tutto,»
disse lui, interrompendomi.
«Tutto?» chiesi.
Simone
annuì e sospirò. «Dove
ho scoperto che un pallone poteva dare mille emozioni diverse.»
Un
pallone… dove aveva scoperto che il calcio era la sua vita.
«Prima
abitavate qui,»
realizzai in ultimo.
«Sì, all’inizio
non eravamo una famiglia piena di soldi e di successo. Più o meno come
il papà
di Leonardo. Si tirava avanti,»
raccontò.
Non
sapevo perché mi stesse confidando tutto quello, per quale motivo
avesse deciso
di aprirsi con me di punto in bianco. Fatto sta che non lo fermai, non
ne ebbi
il coraggio né la voglia. Dovevo sapere più di lui, dovevo abbattere
quel muro
o perlomeno provare a scalarlo.
«Quel pallone
che ho in camera, quello rovinato che Sofia ha miracolosamente salvato
dal tuo
tornado di pulizie,»
ridacchiò guardandomi. «Sì,
me l’ha detto,»
aggiunse.
«Quel pallone è
stato il primo che mio nonno mi ha regalato, anzi, ci.
A me e a Leonardo, un Natale di non so quanto tempo fa. È
l’unico ricordo che abbiamo di lui ed è come un portafortuna.»
«Anche Leonardo
ne ha uno uguale?»
chiesi.
Lui
annuì. «Almeno
dovrebbe. Non so se l’ha conservato o se l’ha gettato via. Sono passati
dieci
anni da quando nonno è morto.»
Sì,
Celeste me ne aveva parlato qualche tempo fa. Nonna Annunziata era
rimasta
vedova abbastanza giovane e non si era mai risposata. Una donna dal
carattere
forte e davvero ammirevole.
«Quindi, questo
campetto è una specie di rifugio per te?» gli domandai, sentendo le sue
carezze affievolirsi fino a smettere del tutto.
Si
prese un po’ di tempo per elaborare il tutto. C’era un Simone diverso
di fronte
a me, un Simone che credevo non potesse esistere.
«Diciamo che è
dove ho capito cosa volevo fare della mia vita,» mi corresse lui.
«E cosa c’entra
il pallone?»
domandai ovviamente.
Lui
si alzò in piedi e cominciò a camminare verso le porte da calcio, con
le reti
scucite e penzolanti. C’era tutta la ruggine sui pali, dove un tempo
spiccava
la vernice bianca. Ormai vi erano rimasti soltanto dei residui cadenti
e
semi-incrostati.
Lo
seguii perché era chiaro che voleva dirmi dell’altro.
Si
infilò le mani in tasca e trotterellò lungo tutta la linea del campo,
seguendo
il bordo dell’area. Mi misi dietro di lui, come i vagoni di un treno
sulle
rotaie.
Il
cielo si preannunciava sempre più nero e in lontananza si sentivano i
tuoni
squarciare il cielo.
«Mio nonno è
stato come un padre per me e per Leonardo. Era l’unico che riusciva a
tenerci
uniti e il calcio, in uno strano modo che ancora non so spiegarmi, ci
ha
aiutato anche in questo.»
«Ma se vi
linciate in campo!»
sbottai, incredula.
Simone
si voltò soltanto un pochino, giusto lo spazio per guardarmi. «Si fa quel che
si può,»
rispose con un sorriso simile ad un ghigno.
Continuammo
a girare in tondo per un po’ di tempo, mentre Simone continuava a
cianciare
roba sul suo passato. Anche se tra lui e il cugino non correva buon
sangue, ne
avevano passate di avventure quei due. L’unica cosa che avevo compreso
a fine
discorso, era l’importanza di nonno Sogno e di quel pallone scucito.
«E così mi hai
portato qui perché finalmente posso immedesimarmi in quella tua
testolina e
comprenderti?»
gli chiesi sorridendo.
Lui
mi guardò sincero. Quel tipo di sguardo che leggeva l’anima. «No,» rispose
tranquillo. «Ti
ho portato qui soltanto per farti vedere il mio mondo da un’altra
prospettiva.
Non il successo, non le donne, non gli autografi o gli sponsor.
Soltanto io, un
pallone e un vecchio campetto da calcio.»
In
quel momento pensai che se fossimo stati in un altro luogo, in un altro
momento, se lui non fosse stato Simone Sogno ed io non avessi la sua
causa per
dubbia paternità che oscillava pericolosamente sulla mia testa… beh,
forse se
non fossimo stati noi, avrei potuto amarlo.
Forse.
Iniziò
a piovere in quel momento, proprio quando c’era l’occasione per
parlare, per
dire qualcosa e finalmente affrontare il famoso discorso del Capodanno.
Evidentemente nemmeno madre natura era dalla mia parte.
«Cazzo!» imprecò
Simone, coprendosi con il bavero del cappotto.
«Dobbiamo
tornare alla macchina!»
urlai.
Lui
mi afferrò la mano e cominciammo a correre, ma in direzione opposta a
dove
avevamo parcheggiato la Cinquecento.
Non
sapevo dove mi stesse portando e non avevo nemmeno il fiato per
chiederglielo.
La pioggia aveva cominciato a penetrare sui vestiti, bagnandomi fin
dentro le
ossa. Corremmo sotto l’acqua, slittando con gli stivali sulla neve e
sul
ghiaccio che c’erano ancora per la strada, finché non imboccammo un
vicolo.
La
stretta di Simone era sempre forte, ma il fiato cominciava a
scarseggiare.
Avevo
i capelli appiccicati al viso e l’acqua che mi galleggiava nelle
scarpe. Odiavo
essere così bagnata ma vivendo a Londra da quasi quattro mesi, ci avevo
fatto
un po’ l’abitudine.
«Ehi…
aspe-aspetta!»
esalai, cercando un modo di farlo fermare. D’accordo che lui era
allenato, ma
io non muovevo un passo dal liceo ormai.
Simone
rallentò, ma continuò a camminare tirandomi dietro. «Siamo quasi
arrivati,»
disse.
«Ma dove?» sbottai io,
stufa.
Dopo
aver girato a destra due volte e un’ultima a sinistra, in un piccolo
vicolo
poco illuminato ma grazioso, c’era una locanda. Le gocce di pioggia
erano
poche, i tetti fitti, ma l’umidità e la temperatura di quella giornata
mi
fecero rabbrividire.
Simone
mi sorrise e mi condusse all’interno del locale.
Un
caldo tepore mi invase appena misi piede lì dentro, avvolgendomi come
un
abbraccio caldo di una madre. Il campanello tintinnò al nostro
ingresso, così
una donna corpulenta e piuttosto bassa, con le tipiche guance rosse
anglosassoni ci accolse con un sorriso sincero.
«Benvenuti alla
Blue Rose,» disse
accogliente. «Cosa
posso fare per voi?»
Notò
subito le condizioni pietose in cui eravamo, così si adoperò
immediatamente per
portarci due calde coperte di pile.
«Oh Cielo,
questo tempaccio!»
protestò, attizzando il fuoco con qualche altro ciocco di legna. «Non ci voleva
proprio un temporale così, soprattutto con la neve dell’altro giorno!»
«Le previsioni
non avevano detto…»
intervenni.
«Tesoro, ormai
noi inglesi non diamo più retta a quello che dice il televisore,» ridacchiò.
Rimasi
sorpresa. «Come
fa a sapere che non sono di qui? È per l’accento?»
Simone
mi guardò sorridente, senza aggiungere nulla.
«Senza offesa,
tesoro,»
mormorò la donna. «Ma
in settantadue anni di vita, so riconoscere la mia gente. Inoltre, il
tuo
inglese è perfetto. Penso sia una questione di pelle,
non so come spiegarlo. E poi le abitudini…»
«Invece lui è
inglese?»
chiesi, indicando Simone.
Non
sapevo se la donna seguisse il calcio, oppure avesse visto Simo su
qualche
rivista. Tentai ugualmente.
La
signora rotondetta mi sorrise. Una volta aveva i capelli rossi, i suoi
tratti
somatici me lo suggerirono anche attraverso quella semi-oscurità.
«Sei così
dolce, tesoro. Mr. Sogno è fortunato ad averti trovato,» sorrise.
«Allora lo
conosce!»
esclamai, riferendomi al fatto che probabilmente lo avesse visto in
televisione, anche se aveva detto che non seguiva molto i programmi.
Sentii
la risata di Simone uscire così sincera e limpida, da riscaldarmi.
«Da quando
aveva due anni, credo,»
sospirò la donna. «E
anche allora era un piccolo sciupafemmine!»
Rimasi
lievemente perplessa. «Vuol
dire che…?»
azzardai.
Finalmente
Simone si sentì in dovere di intervenire. «Ti presento mia nonna Eleonor.»
La
donna subito mise le mani sui fianchi. «Quante volte ti ho detto di non
chiamarmi nonna? Mi fai sentire vecchia, ma sono nel fior fiore dei
miei anni!» trillò
estasiata.
Quindi
era l’altra nonna di Simone, quella materna. La nonna inglese.
«Tanto piacere.
Io sono Venera,»
dissi, porgendole la mano.
Lei
me la strinse e mi invitò ad abbracciarla. Mi sentii lievemente in
imbarazzo,
ma non mi sottrassi a quel gesto, non potevo. Io che i nonni non li
avevo più.
«Tanto piacere,
Vennie,» ridacchiò l’anziana signora. «Che ne dite di
fermarvi qui, eh? L’inverno Aton diventa un posto desolato e alla Rosa Blu non c’è quasi mai nessuno.
Inoltre è quasi buio ed è pericoloso tornare a Londra con il maltempo.»
Stavo
per protestare, quando Simone bloccò le mie parole sul nascere.
«La solita
stanza?»
sorrise.
La
donna gli restituì lo stesso gesto con malizia. «La numero sei.» E andò a
prendergli un mazzo di chiavi dall’aspetto piuttosto vecchio.
Con
“solita” cosa aveva voluto dire? Che ci portava tutte le sue
sgualdrinelle? Che
sua nonna coprisse le scopate clandestine che si faceva con le
giraffone per
non destare scandalo?
Il
mio Cervello cominciò a farsi i peggiori filmini. Nemmeno Federico
Fellini lo
avrebbe eguagliato.
Salutai
la nonna e ci incamminammo verso una stretta rampa di scale. Diciamo
che la
visuale del sedere di Simone che ondeggiava davanti al mio visto, aveva
momentaneamente dissipato ogni problema precedentemente sorto.
Tra
cui il famoso Capodanno.
«Questo posto
cos’è? Il locale segreto dove porti le tue amanti?» chiesi,
provocandolo volontariamente.
Simone
non rispose. Si limitò a infilare la chiave nella toppa e a girarla,
aprendo la
porta e facendomi entrare. Nel mentre, tirai fuori il cellulare dalla
borsa per
avvertire Celeste che non saremmo tornati.
Aprii
la casella dei messaggi, ma mi bloccai.
Cosa
avrei potuto scriverle? Era ovvio che tutto ciò sembrasse fin troppo
ambiguo,
proprio quando la mia migliore amica aveva conosciuto James.
Fu
di punto in bianco che Simone mi afferrò il cellulare. «Ehi!» protestai.
Lo
spense e se lo infilò in tasca. «Non manderai messaggini romantici
a quel baccalà in giacca e cravatta.»
Roteai
gli occhi al cielo. «Stavo
avvertendo Celeste che non saremmo rientrati, testone!» ringhiai. A
volte era proprio un moccioso.
Simone
ghignò ugualmente. «Meglio
se non lo sanno, così si faranno strane idee su di noi,» mi provocò.
Arrossii
d’istinto, ma abbassai prontamente lo sguardo per nasconderlo.
«Tra noi non
c’è nulla, e nulla da nascondere,» dissi chiara.
Ovviamente
lui nemmeno mi ascoltò. Anzi, si tolse la coperta, il cappotto e
cominciò
lentamente a spogliarsi. Un po’ troppo
lentamente.
E
mi fissava.
«Hai capito
male,»
misi subito le cose in chiaro. Non poteva rapirmi, farmi conoscere sua
nonna e
dopo pretendere di fare sesso senza che nessuno sapesse dove fossimo.
E
dovresti dirgli anche di James.
Ecco!
«Io mi sto solo
spogliando per fare una doccia calda e rilassante. Vuoi unirti?» mi chiese.
«No!» ringhiai, poi
mi misi seduta di peso sul letto –che ovviamente era matrimoniale.
Simone
allora si liberò del maglione, della maglietta sottostante,
appoggiandoli ad
una poltrona, poi cominciò a slacciarsi i jeans.
Anche
se le sue nudità non erano una novità per la sottoscritta, ed era dura
anche
ammetterlo, riusciva sempre a colpirmi. Era perfetto, in ogni cosa.
Nemmeno
Michelangelo con il suo marmo e il suo scalpello avrebbe potuto
riprodurre
qualcosa di meglio.
«Lo rivuoi, il
tuo telefono?»
mi chiese, facendomelo dondolare davanti agli occhi.
Era
rimasto in boxer. Quelli arancioni a pois viola che gli aveva regalato
Sofia
per Natale. Il pensiero di aver riconosciuto i suoi indumenti intimi
per un
nanosecondo mi terrorizzò.
«Dammelo,» gli intimai.
Simone
sfoderò quel sorriso sghembo che tanto odiavo, poi allargò l’elastico
dei boxer
e ci fece cadere dentro il blackberry.
Ero
ufficialmente fottuta.
«Ora vienilo a
prendere,»
sghignazzò ed io maledissi quel tempaccio di merda fino alla fine dei
miei
giorni.
Bene, bene, bene!
Ce l'ho fatta a pubblicare! #dovevaabdicareilpapaperchéciriuscisse ma
ce l'ho comunque fatta! Dopo mesi e mesi di estenuante attesa, ora
potete sapere cosa è successo ''dopo'' il fattaccio dello
scorso capitolo. Mi sono anche prodigata a rispondere a tutte le
recensioni arretrate #bravaragazza, nonostante ho dovuto smollare una
marea di esami e recuperare gli episodi delle millemila serie tv che
seguo ù_ù
*magari se ne seguissi di meno*
*magari se ti facessi gli affaracci tuoi*
Dopo questo teatrino, mi ritiro prima che mi internino al manicomio più
vicino. Sono davvero felice che nonostante i miei ritardi (mentali) nel
pubblicare voi fanZZ-tunZ vi fate comunque sentire, sia qui, sia nel
gruppo facebook (Crudelie).
Grazie davvero.
Mi ritaglio un ultimo pezzettino *angolo pubblicitario* per segnalarvi
due storielle pubblicate di recente:
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