Titolo
Titolo:
Werewolf alert
Fandom: Teen Wolf
Pairing/Personaggi: Stiles Stilinski/Derek Hale, Original Character
Rating: Pg13
Charapter: 1/1
Beta:
Samek
Words: 2820 (fiumidiparole)
Genere: simil avventura, future!fice su Stiles al college
Warning: slash, un pochettino di violenza accennata
Summary: Essere al college era fantastico, comunque.
Note: scritta per la Missione 4 della
Settima Settimana del Cow-T 3 di
maridichallenge sul prompt “viaggio”.
DISCLAIMER: vorrei tanto possedere Derek, ma no, né lui né
nessun altro mi appartiene .__. Neanche Stiles, no *sigh*
Le lancette del grande orologio sopra la porta riempivano
il silenzio della grande aula piena di studenti. Le matite grattavano sui fogli,
disegnando formule su formule per dare risposte che speravano essere corrette,
correndo contro i minuti.
«Tempo scaduto» annunciò la voce del professore, dalla
cattedra. «Giù le matite e depositate i fogli mentre uscite» scandì,
controllando che tutti eseguissero senza protestare.
Stiles si alzò, raccolse la borsa e caracollò fuori dal suo
posto, il test dell’esame in una mano e la bottiglina d’acqua malamente chiusa
nell’altra. Posò il foglio sulla cattedra ed uscì, bevendo. Si scontrò con
qualcuno, sputacchiò uno «scusa» e ricominciò a camminare.
Attraversò il corridoio, dribblando tra i vari corsisti che
correvano da un lato all’altro dell’Università. Poteva facilmente riconoscere
ogni tipo di studente: il tipo a), che trottava per raggiungere l’aula designata
per la lezione successiva; il tipo b), che preferiva passare l’ora buca
dirigendosi in biblioteca; e infine il tipo c), quelli che – come lui –
prendevano un attimo di respiro nei giardini del campus.
Una volta fuori strizzò gli occhi, contro il sole
abbacinante di metà marzo e sbatté le palpebre, nel tentativo di rimettere a
fuoco. Sfilò il telefonino dalla tasca e controllò la presenza di messaggi,
puntando poi l’ombra sotto un albero, poco distante da lì. Ci si lasciò cadere
sotto e poggiò la schiena al tronco, sfilandosi la tracolla e lasciando la borsa
abbandonata lì accanto, il cellulare ancora tra le mani. Digitò velocemente un
sms, poi richiuse la schermata e se lo infilò nuovamente in tasca. Bevve un
nuovo sorso, richiuse la bottiglina e la gettò nella borsa, per poi scavare nel
suo interno in cerca del quaderno di matematica.
«Ma che diavolo...» borbottò, quando non riuscì a trovarlo
e decise di rivoltarla sull’erba ai suoi piedi per sicurezza. Non c’era,
confermato.
«Signor Stilinski?» lo richiamò una voce, facendogli
rialzare gli occhi. Il Professor Thompson gli sorrise, porgendogli un
quadernetto rosso tutto spiegazzato. «Le è caduto mentre fuggiva dalla mia
classe» spiegò, mentre lui lo accettava, grato.
«Lei non mi odia» fu la prima cosa che disse – e dandosi
dell’idiota subito dopo, perché davvero – «Volevo dire... grazie e,
uhm, non stavo scappando. Avevo finito e ho un appuntamento. Più o meno,
quindi...» lasciò cadere la frase nel nulla e vide il professore aprirsi in un
sorriso.
«Ho visto il suo compito» disse e Stiles si tese perché
qualcosa gli diceva che stava arrivando la parte in cui cominciava a venir preso
di mira da professori frustrati e pronti a sfogarsi su poveri studenti il cui
unico difetto era quello di parlare troppo. La storia della sua vita, in
pratica. «Un ottimo lavoro» disse invece quello, sorprendendolo e lasciandolo
boccheggiante sotto l’albero frondoso.
«Sì!» urlò, col pugno in aria, quando il professore era
ormai lontano e lui era uscito dal loop. Poi il cellulare squillò, avvisandolo
dell’arrivo di un messaggio e lui l’aprì con un sorriso entusiasta sul viso.
Sorriso che sparì l’attimo dopo e Stiles sbuffò, riposando l’aggeggio e dandosi
mentalmente dell’idiota per averci sperato.
Aprì il quaderno e il libro, e cominciò a studiare.
***
Essere al college era fantastico, comunque. No, davvero.
Niente lupi mannari, niente kanima, niente streghe che cercano di strapparti il
fegato per uno dei loro riti, né veterinari che ti mandano al macello con la
scusa che il tuo migliore amico è un licantropo e non permetterà a nessuno di
ucciderti. Sì, okay, e di mutilarlo? Di torturarlo? Di picchiarlo fino a
svenire?
Okay che spesso e volentieri era lui stesso a infilarsi nei
guai, ma questo non giustificava le volte in cui erano gli altri a spingercelo.
Comunque, per ritornare al concetto iniziale, essere al
college era fantastico. Era la sua piccola bolla di pace, la sua isola felice,
dove la preoccupazione maggiore era di consegnare in tempo la relazione e
passare gli esami.
Il Paradiso, davvero.
Per questo, quando una freccia si conficcò nel muro a pochi
millimetri dalla sua testa, il suo primo pensiero fu Oh, andiamo!
Era uscito dalla biblioteca che era ormai il tramonto,
fischiettando una di quelle canzoncine stupide di cui ultimamente Scott gli
aveva passato i video. Si era beccato un'occhiataccia ammonitrice dalla
bibliotecaria e si era defilato con un sorriso di scuse, già pregustando la
cena. Aveva passato il pranzo a studiare, visto che era stato piantato in asso,
quindi aveva decisamente fame.
Il suo piano era semplice: tornare in camera, abbandonare
la borsa, fiondarsi magari sotto la doccia e poi decidere di cosa cibarsi,
magari convincendo il suo compagno di stanza a staccarsi dal rewatching de Il
Signore degli Anelli e fare con lui una o due sfide all'Xbox.
Era sovrappensiero, mentre attraversava il corridoio verso
l'uscita del corpo centrale per raggiungere i dormitori, posti a est del campus.
Era sovrappensiero, dunque, e sarebbe stato sicuramente beccato in pieno se non
fosse stato per il suo istinto di sopravvivenza, affinato dalla lunga convivenza
con lupi scontrosi e dalle zanne affilate. Non seppe neanche lui come fece, ma
schivò il colpo e si ritrovò a fissare la punta di metallo conficcata nel muro
ad occhi sgranati, prima che un secondo sibilo attirasse la sua attenzione.
Caracollò all'indietro, riuscendo, di nuovo a schivare l'attacco, e poi si voltò
e scappò nella direzione da cui stava venendo, cercando di seminare chiunque
avesse deciso di usarlo come tiro al bersaglio mobile.
Voltò un angolo, immettendosi in un corridoio secondario,
sulla destra, e continuò a scappare, proteggendosi la testa con le braccia
quando una freccia attraversò le finestre di fianco a lui, facendogli piovere
pezzi di vetro addosso.
Stiles accelerò, il cuore che batteva all'impazzata, la
borsa che sbatteva contro i suoi fianchi, grattandogli la spalla, e voltò ad un
nuovo angolo, infilandosi nella prima porta che trovò, che scoprì essere un'aula
molto piccola. Si richiuse la porta alle spalle e vi ci si appoggiò contro per
riprendere fiato – salvo poi rendersi conto di essere un bersaglio fin troppo
facile in quel modo e scostarsi il più lontano possibile di lì.
Si accostò al muro e respirò a fatica, fissando la porta
nell'attesa e nel timore che l'arciere pazzo l'aprisse.
Ebbe appena il tempo di ricordarsi di avere il cellulare e
frugare nelle sue tasche, che la porta diede uno scattò, gelandogli il sangue.
Okay, ecco fatto, è arrivata la mia ora. Addio Stiles,
sei troppo sfigato per questo mondo di pazzi, si disse, strizzando con forza
gli occhi, i telefono stretto tra le mani e il 911 già composto sulla tastiera.
Quando però tutto ciò che sentì fu solo un ringhio – e pure
abbastanza familiare – aprì gli occhi, venendo subito dopo strattonato fuori di
lì.
«Cosa--» cominciò, richiudendo poi la bocca, non sapendo
come continuare e finendo quindi per fissare la schiena del suo salvatore
dal tempismo perfetto e la solita giacca di pelle nera – davvero, qualcuno
doveva convincerlo a comprarsi qualcosa di nuovo. Qualcuno tipo lui. O magari
qualcuno con un po' più di senso estetico, ecco. «Che ci fai tu qui?» domandò
quindi, dandosi un A+ perché, ehi, era un'ottima domanda, quella!
Derek continuò a camminare e a trascinarlo, e gli lanciò
una singola occhiata, prima di ritornare a concentrarsi sui corridoi vuoti che
si snodavano davanti a loro. Abbastanza inquietanti, in effetti. Che fine
avevano fatto tutti?
«Ti sto salvando la vita» rispose e ah-ah-ah, ma che
simpatico, davvero.
«Avevi detto che non potevi. Problemi con il branco, hai
scritto» gli ricordò, perché, che cavolo, si era tenuto libero per lui ed era
stato mollato come un cretino per i cuccioli – Isaac, sicuramente. Era
sempre colpa di Isaac, per Stiles.
«Ho risolto» tagliò corto lui, trascinandolo per il polso
oltre la porta d'ingresso e le scale. Solo in quel momento Stiles si rese conto
che il sole era ormai calato e l'aria si era caricata della tipica umidità
notturna.
Per quanto tempo era scappato? Quanto diavolo era rimasto
nascosto?
Derek lo guidò verso i dormitori; fiutava l'aria,
fermandosi bruscamente e deviando la direzione quando qualcosa faceva scattare
il suo sesto senso. Stiles non poteva che essergliene grato, perché credeva di
aver consumato tutta la sua fortuna schivando quelle frecce.
Un gruppetto di studenti gli passò accanto, ridendo, e
qualcuno gli lanciò un'occhiata interessata – più a Derek che a lui, okay –, ma
i due continuarono per la loro strada, risalendo le scale dell'edificio fino al
piano dov'era la sua camera.
Jeff, il suo compagno di stanza, non c'era, e questo gli
fece tirare un sospiro di sollievo, perché significava non dover dare
spiegazioni su Derek.
«Credeva che tu fossi un licantropo» esordì proprio
quest'ultimo, lasciandolo finalmente andare.
«Cosa?» sbottò lui, occhi sgranati ed espressione
disperata. Perché, perché, perché la sua vita finiva sempre per essere
un'assurdità senza fine? E, soprattutto, perché finiva sempre per essere colpa
degli stupidi lupi mannari?
Derek non parve impressionato dalla sua disperazione –
perché era una persona orribile, ecco perché – e continuò a fissarlo arcigno,
braccia al petto, muscoli gonfi e tutto il resto del repertorio. «Perché?»
domandò, e Stiles allargò le braccia, esasperato. «Stiles» lo incalzò,
facendolo sbuffare esasperato.
«Davvero, non lo so! Forse nella mia vita precedente ho
fatto qualcosa di davvero terribile per cui adesso finisco perennemente
nell’essere minacciato di morte, non lo so!» sbottò, sfilandosi la tracolla e
lanciandola sul letto; l’altro fissò la sua borsa e ne estrasse qualcosa.
«O forse per via di questo» disse, mostrando un quaderno
rosso su cui spiccava una triscele disegnata a penna.
Oh. Oh.
Stiles gonfiò le guance, rilasciando il fiato in uno
sbuffo.
«Oh... sì, potrebbe anche essere per quello» ammise.
***
Okay. Okay, quindi, tecnicamente era colpa sua.
Okay, poteva conviverci, tanto non era certo la prima volta, no?
E poi, davvero, quante probabilità c'erano che incontrasse
un cacciatore di licantropi al college? Evidentemente, o erano molte, o la sua
sfiga aveva deciso di fare doppi turni. Propendeva di più per la seconda,
sinceramente.
Sospirò, strofinando le mani tra loro, e si beccò
un'occhiataccia dell'altro, fermo al lato della finestra a guardare fuori – in
cerca del loro piccolo amico arciere. Erano al buio, con la sola luce della luna
a filtrare dalle tende della camera, e in assoluto silenzio. Almeno fin a quel
momento.
«Allora...» cominciò, perché tutta quella calma iniziava a
innervosirlo. Derek gli rivolse l'ennesimo sguardo cupo, ma non gli intimò di
tacere, quindi lui lo prese per un buon segno. «Hai risolto» disse, riferendosi
al fatto che fosse lì, dopo avergli dato buca quella mattina. Per un attimo si
chiese dopo quanto si fosse messo in viaggio – e quanto avesse corso per essere
lì appena in tempo per salvarlo. Avrebbe lavato la Camaro per ringraziarla.
«È quello che ho detto» confermò, lasciando andare la
tendina e tornando verso di lui.
Era strano. Per un attimo, seduto sul letto, con Derek che
lo sovrastava, tutto ombre scure e punti luce, gli sembrò di essere tornato ad
avere sedici anni, con la stessa stretta allo stomaco di ansia e morbosa
fascinazione per quel tipo lugubre che girava attorno a Scott.
Sorrise e poi ridacchiò, scuotendo la testa alla domanda
negli occhi dell'altro – era buio, ma, diavolo, conosceva quel bastardo come le
sue tasche, ormai.
«Ti manco» affermò all'improvviso, aprendosi in un ghigno.
Si poggiò con le mani all'indietro, sul materasso, e annuì per confermare le sue
stesse parole. «Diavolo se ti manco. Non hai saputo resistere all'idea di dover
aspettare un altro mese per vedermi e sei corso qui» rise e l'altro ringhiò,
facendolo solo ridere di più.
Derek sbuffò e gli diede un buffetto sulla coscia perché
gli facesse spazio sul letto affinché potesse sedersi anche lui, e Stiles
ubbidì, lasciandosi andare completamente all'indietro, sempre scosso
dall’allegria, le braccia abbandonate oltre la testa.
«Lo trovi divertente?» sbottò Derek, dandogli un calcetto,
e Stiles ridacchiò di nuovo, ma decisamente più quieto di prima.
«Beh... sì, direi di sì. Sai, tutta la storia del grande
Alpha cattivo e sempre indaffarato, e poi eccolo che si spara chilometri su
chilometri perché gli manca il suo ragazzo».
Derek si voltò per metà verso di lui, un sopracciglio
inarcato.
«Non sono io quello che ha disegnato la mia triscele su un
quaderno come un adolescente» disse seccamente. Stiles scrollò le spalle come
poté dalla sua posizione.
«Non ho mai detto che non fosse reciproco» ribatté, sempre
con quel sorriso sulle labbra.
Derek attese esattamente due secondi, poi si chinò e lo
baciò – il primo bacio, quello di bentornato o benvenuto, a seconda dei punti di
vista. Stiles sospirò e infilò una mano tra i suo capelli, facendola scivolare
lentamente nel mezzo, in una coccola che, aveva scoperto, essere più che
gradita. Alla fine, era solo un enorme lupo burbero. Derek rispose con un
piccolo morso al labbro inferiore e una carezza a risalire lungo il collo, fino
a chiudersi sulla sua guancia.
Dio, gli era mancato.
Okay, gli era più che mancato.
Stiles ebbe appena il tempo di afferrarlo per il bavero
della giacca e tirarselo addosso, che la porta venne aperta e la luce accesa.
«Oh mio... wow» disse Jeff, caracollando all'indietro e
voltando lo sguardo, «scusate».
«Jeff, ehi, credevo saresti rimasto fuori tutta la notte»
lo salutò Stiles, rialzandosi con Derek. «Anzi, lo speravo. Perché non vai a
dormire da... non lo so, chiunque altro?» riprese senza troppe cerimonie,
perché, diamine, ma lo sapeva da quanto non faceva sesso? E Derek era lì. Lì,
okay? Lo aveva raggiunto e Stiles aveva tutta l'intenzione di prendere i
problemi da Alpha del suo ragazzo-lupo e chiuderli fuori dalla finestra per
tutto il weekend – perché era più che ovvio che non l'avrebbe lasciato andare
prima della domenica sera. Anzi no, della domenica notte. No, meglio ancora, del
lunedì mattina.
Poi però Jeff tirò fuori dalla giacca una balestra e tutti
i programmi di Stiles sparirono completamente dalla sua testa.
Che diavolo?
«Che diavolo?» disse, perché il filtro cervello-bocca non
glielo avevano mai installato, e scattò in piedi, Derek con lui.
Jeff rise e ciondolò con la testa. «Sai, è divertente»
cominciò, facendo un passo di lato e chiudendo la porta con un calcio. «È la
stessa cosa che ho pensato io quando ho capito cosa sei. Insomma» rise ancora,
allargando il braccio non armato e piegandosi appena sulle ginocchia, ridendo
divertito, «quante possibilità c'erano che il mio compagno di stanza
fosse un licantropo?»
Stiles e Derek si scambiarono un'occhiata, poi Stiles tornò
con gli occhi su Jeff e si leccò le labbra, nervoso.
«Cosa te lo fa credere?» domandò, spostando appena il peso
da un piede all'altro. Doveva stare attento, dannazione. Non c'erano possibilità
che questa volta la freccia lo mancasse e voleva evitare di essere colpito, o
che – peggio – venisse colpito Derek.
Jeff sorrise e annuì, indicandolo con un dito.
«Ci ho messo un po', sai, a capirlo? Ma... beh, se ci pensi
è ovvio, no? Sei sempre così nervoso durante i pleniluni» spiegò. «Non ti ho mai
visto trasformarti, ma immagino sia perché sai controllarti... anche se il più
delle volte non sembra affatto».
«O forse perché non sono io il licantropo» disse,
scrollando le spalle.
Jeff ebbe appena il tempo di sussurrare un «cosa?» che
Derek spinse Stiles verso il letto, balzò dal lato opposto e lo attaccò di
fianco, la freccia che gli passava a pochi millimetri dal viso.
La balestra venne spezzata con un affondo di artigli e la
testa di Jeff finì contro il muro, con forza, facendolo rovinare a terra
incosciente.
Durò tutto una manciata di secondi, ma Stiles ebbe, come
sempre, la spiacevole sensazione che fosse durato fin troppo a lungo. Quando
Derek rilassò i pugni, in piedi, davanti al corpo svenuto di Jeff, lui scese dal
letto e lo raggiunse, voltandolo verso di sé.
«Stai bene?» domandò, scandagliandolo con gli occhi per
sicurezza.
«Che diavolo hai fatto nella tua vita precedente per finire
sempre in questi casini?» abbaiò invece Derek, guardandolo male.
Stiles ammiccò, poi sbuffò e fece un passo indietro. «Ehi,
guarda che la colpa, stavolta, è tua. Indovina un po' perché sono nervoso
durante la luna piena? Per colpa di un certo Alpha scorbutico, ecco, perché!»
ribatté, marciando verso il letto per afferrare il cellulare, componendo un
numero.
Derek lo guardò confuso, poi guardò Jeff, ancora svenuto e
sbuffò. «Sarà meglio che la sicurezza del campus non mi trovi qui» disse,
dirigendosi verso la finestra ed aprendola. C'era un albero lì di fronte, un po'
distante, ma poteva farcela.
«Derek?» lo richiamò Stiles, facendolo voltare e posandogli
un bacio asciutto sulle labbra. «Resta nei paraggi» aggiunse, prima di fare un
passo indietro e cominciare poi a parlare con l'interlocutore al telefono.
Al tizio della secutiry disse che il suo compagno di stanza
era impazzito e l'aveva attaccato, forse esaurito dagli esami, chi lo sa
che succede nella testa di certa gente? E... niente, lo aveva attaccato e per un
puro colpo di fortuna lui era riuscito a metterlo K.O. tutto da solo, ma che ora
era svenuto in camera e lui non sapeva che farsene di lui e della balestra
(«balestra, sì. Vera, sì. Molto vera, certo! Perché dovrei essere preoccupato
per una balestra finta?»).
Quando si voltò, Derek non c'era più e
dalla finestra entrava un refolo di vento. Ma la giacca nera era sulla spalliera
della sedia, come una promessa.
Fine.
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