Note
di Trick - nessun bla-bla, questa
volta. Soltanto un grazie di cuore a tutti quelli che hanno letto e
apprezzato questa mini-long.
1) Credevate che riuscissi a evitare i bla-bla? Siete
troppo ottimisti. I tre capitoli che hanno composto questa storia
prendono nome da tre santi (ma dai?) e io suppongo che voi sappiate chi
siano (poi non so) perché non sono proprio San Teocrazio o
Santa Ermenegilda, insomma, qua si parla di gente famosa. Sono San
Tommaso, quello che ha infilato il dito nel costato di Gesù
perché "se non vedo, non credo"; San Pietro, il furbastro
che ha rinnegato Gesù subito dopo il suo arresto; infine,
ecco San Giovanni, e adesso il bla-bla
ve lo faccio sul serio, così non si può dire che
non abbia studiato l'argomento. Secondo non troppo accertati studi
cristiani, San Giovanni è l'ultimo degli Apostoli a morire -
anzi, sembra addirittura l'unico a non subire alcun martirio e a
raggiungere una veneranda età. San Giovanni Fortunello, in
pratica.
*
Santi
di cartastraccia
Capitolo
Tre
San
Giovanni – Fui l'unico
a sopravvivere
«Scrivo
a voi, giovani, perché avete vinto il maligno».
Atti
di Giovanni, 2, 13
Sapeva
che svuotare la stanza che aveva occupato al numero dodici di
Grimmauld Place sarebbe stato difficile, ma aveva dovuto varcare la
soglia dell'ingresso per rendersi conto di quanto
lo sarebbe
stato davvero.
Era
sempre stato un posto tetro, Grimmauld Place. Lo era perfino nei
racconti di Sirius, quando tutti loro frequentavano Hogwarts e c'era
ancora il tempo e la voglia di ridere delle teste mozzate degli elfi
e delle smanie di grandezza dei Black.
Attraversando
con passo felpato lo stretto androne principale, Remus si rese conto
che la breve permanenza dell'Ordine della Fenice non era stata in
grado di rendere quel posto meno lugubre. Perfino la cenciosa carta
da parati sembrava odorare di cose morte e cose dimenticate. E quella
volta, quella dannata volta, c'era perfino l'eco
della risata
canina di Sirius a rimbombare fra la polvere.
Remus
cercò di raggiungere le scale senza fermarsi davanti al
grande
soggiorno.
Quante
sere aveva trascorso seduto davanti al camino in compagnia di Sirius
e di una delle bottiglie della nobile riserva di suo padre?
Centinaia, forse – a pensarci meglio, si disse, forse avevano
trascorso insieme ognuna di quelle sere. Forse avevano preferito non
lasciarsene sfuggire nemmeno una perché avevano capito
quanto
potesse essere facile perderle tutte in un colpo solo.
Remus
iniziò a risalire i gradini di legno. Perfino il loro
lamentoso
scricchiolare suonava come un elogio funebre.
«Avrei
potuto pensarci io» lo raggiunse la voce flebile di Tonks.
«Hai
lasciato il San Mungo contro il parere dei Guaritori» la
ammonì
lui. “E contro il mio” aggiunse mentalmente.
«Non dovresti
nemmeno pensare di sottoporti a simili
sforzi».
Lei
lo seguì in silenzio fino al primo piano. Remus rimase
qualche
istante in mezzo al corridoio e si voltò per lanciarle
un'occhiata
inquisitoria. Tonks recava ancora tutti i segni della battaglia
nell'Ufficio dei Misteri. Pesanti ombre scure si allargavano sul suo
viso pallido e per quanto cercasse di nasconderlo, zoppicava ancora
vistosamente. Non aveva ancora beneficiato del tutto dell'effetto
delle Pozioni Cura-Ferite con cui l'avevano rimesta in sesto al San
Mungo e il suo sopracciglio sinistro era diviso in due da un taglio
che aveva appena iniziato a cicatrizzarsi.
«Da
solo non ce l'avresti fatta» esordì lei con
franchezza, trattenendo
a stento una smorfia nell'appoggiare la gamba dolorante sull'ultimo
gradino.
«Ho
fatto più cose da solo di quante tu non possa
immaginare».
«E
ne è valsa la pena?» replicò lei con un
sorriso triste. «Io direi
di no».
Rimase
a guardarla mentre gli voltava le spalle e si dirigeva con cautela
verso la sua stanza. Paragonata agli altri Auror che aveva avuto modo
di conoscere nel corso degli anni, Tonks era davvero una cosetta
minuscola. Le punte dei suoi capelli colorati raggiungevano appena
l'altezza delle spalle di Remus. E poi aveva i polsi sottili, i
fianchi stretti, le gambe magre come quelle di una cavalletta e le
mani piccole e lisce come quelle di una ragazzina... la veste da
Auror che sfoggiava con tanto orgoglio la faceva apparire molto
più
simile a un soldatino giocattolo.
Il
ricordo del sapore delle sue labbra appoggiate contro le proprie lo
metteva ancora a disagio. Aveva sperato di trovare il momento giusto
per parlare con lei di quella sconveniente situazione, ma il mondo
era cascato addosso a entrambi e non gli era rimasto nemmeno il fiato
nel petto.
Quando
l'aveva vista soccombere ai colpi di Bellatrix Lestrange aveva
provato la più lancinante paura della sua vita –
non se ne era
accorto fino a quel momento, fino a quando non l'aveva immaginata
perduta, e poi ogni cosa era esplosa, Sirius era
morto e si
era trascinato all'inferno un pezzo di ognuno di loro.
Si
era fatto tutto un po' troppo difficile.
Aveva
creduto che il tempo dei baci e dei sorrisi rubati potesse arrivare
anche per lui. Se ne era quasi illuso, e quando aveva sfiorato la
guancia arrossata di Tonks era arrivato a sfiorare la vera
felicità
per la prima volta in vent'anni... ma tutto gli scivolava sempre fra
le dita. Era stato uno sciocco a scordarsene.
«Oh,
Tosca... il pavimento è sotto a tutti questi
libri?» fu il
drammatico brontolio della ragazza davanti alla porta della sua
stanza.
Remus
si appoggiò allo stipite e si guardò intorno.
Alte pile di libri
ingombravano gli angoli della stanza, circondavano la scarpiera,
ricoprivano la consolle accanto alla finestra e si impennavano
pericolosamente ai piedi del letto. A qualche passo dalla porta c'era
un grande acquario vuoto e impolverato, e c'erano dei libri allineati
perfino al suo interno. Tonks si voltò per rivolgergli
un'occhiata
sconcertata e lui fece le spallucce con aria rassegnata.
«Mi
piace leggere».
«Questo
lo so... ma perché non ti sei preso una
libreria?».
«Mancanza
di abitudine, presumo».
«Abitudine?»
ripeté lei con la fonte aggrottata.
«Le
librerie costano, Ninfadora.
Tonks
fece un sospiro rassegnato, ma nei suoi occhi balenò un
guizzo
affettuoso. Si avvicinò al letto, spalancò le
braccia come un
angelo e vi si lasciò cadere sopra a peso morto. Rimase
ferma a
osservare il soffitto per qualche secondo. Remus provò
l'impulso di
sedersi accanto a lei, ma fu lesto a metterlo a tacere. La sua
vicinanza lo stordiva, lo rendeva inerme, istintivo... e lui odiava
essere istintivo.
«So
che è un momento di merda per te, per me e per tutto il
resto del
globo... ma se non parliamo di quello che è successo, mi
esploderà
la testa. Ripulire i resti del mio cervello da tutti questi libri
potrebbe essere un compito noiosissimo per te».
Remus
socchiuse le palpebre con aria stremata. Avrebbe dovuto immaginare
che lei non sarebbe stata disposta a gettare alla spalle quel dannato
bacio. Tacevano entrambi, ma condividevano la stessa sconcertante
sensazione di aver mosso le pedine troppo in fretta. C'era un intero
burrone di paure e incertezze a un centimetro dalle punte dei loro
piedi, una guerra fuori dalla finestra e un intero esercito di
psicopatici in attesa di strappare le viscere di entrambi.
«Non
credo sia il momento migliore per parlarne».
Tonks
emise un verso sarcastico e intrecciò le mani dietro la nuca.
«Oh,
beh... vorrà dire che ci metteremo comodi e aspetteremo che
questo
schifo finisca. Ma ho come l'impressione che questa guerra ci
mangerà
uno alla volta, sai?».
«Questa
volta non è come l'ultima volta. Siamo
più--».
«--preparati,
attrezzati, addestrati...» gli fece il
verso lei. Il tono
cinico che vibrava nella sua voce lo fece rabbrividire. «Lo
siamo
davvero, Remus?».
Non
ebbe più la forza di mentire nemmeno a se stesso. Si
avvicinò al
letto, si sedette sul bordo opposto al lato sul quale lei giaceva
supina e si coricò al suo fianco. Scrutò le
chiazze umide del
soffitto per qualche secondo e negò con un sospiro
rassegnato.
«Siamo
fottuti».
Tonks
voltò il capo verso di lui e fece una smorfia beffarda.
«È
la prima volta in cui ti sento dire una parolaccia e tu la sprechi
articolando la risposta più schifosa e apocalittica che
potessi
darmi... buon Dio, Remus, ogni tanto dovresti mentire».
Lui
si passò una mano fra i capelli e arricciò le
labbra in un vago
sogghigno.
«Non
tirare in mezzo Dio e i suoi santi... si arrabbiano
facilmente».
«Come
fai a saperlo?».
«“Colpì
ogni primogenito della terra d'Egitto”»
citò lentamente. «Una
creatura piuttosto rancorosa, Dio».
«Però
ha liberato il popolo d'Israele dopo secoli di
schiavitù».
«Per
poi farli sterminare per tutto il resto del tempo libero che aveva
gentilmente donato loro».
Tonks
si sollevò appena, appoggiò il volto al palmo
della mano e si
mordicchiò confusa l'interno della guancia. I suoi occhi
scuri
divennero due sottili linee inquisitorie.
«Mi
avevi detto di essere stato battezzato in una chiesa
cattolica».
«Un
battesimo irlandese farebbe barcollare perfino la fede di
Gesù
Cristo».
«Questa
è blasfemia».
«No,
questa è una constatazione. Avrebbero dovuto aggiungerla al
Vangelo».
Tonks
soffiò divertita.
«Dal
Vangelo secondo Remus Lupin: “Non battezzate i vostri figli
in
Irlanda o cresceranno come dei buddisti con la sindrome
d'abbandono”».
«Io
non sono buddista» replicò con voce neutra.
«E non ho la sindrome
d'abbandono». “Eppure sei solo” aggiunse
mentalmente.
Ed
ecco che il passato tornava a inondargli con prepotenza la mente. Era
sempre così, rapido e doloroso. James sghignazzava nei suoi
ricordi
come un eterno adolescente e scambiava pacche sulle spalle con
Sirius. Non era il vecchio spettro che si era riconsegnato alla
prigionia di Grimmauld Place, non era quell'uomo derelitto che
sorrideva come un teschio... no, era Padfoot, era
il
quindicenne rampollo dei Black con i capelli neri troppo lunghi e il
sarcasmo troppo perfido. Il paffuto Peter era ancora Peter, ancora
Wormtail, e lui, Remus, era davvero convinto che i
Malandrini
fossero destinati a durare per l'eternità.
Sarebbe
stata un'eternità meravigliosa. Avrebbero potuto organizzare
scherzi
e scappatelle nelle cucine, infilarsi di soppiatto a Hogsmeade,
cercare invano di infilarsi nei dormitori delle ragazze e mai nessuna
guerra sarebbe venuta a reclamare la loro gioventù. Sarebbe
stato
per sempre il prefetto Lupin, solo Moony, solo il
ragazzino
macilento cresciuto da un piccolo esercito di donne O'Buckley
irlandesi che di tanto in tanto scandiva “och”
senza rendersene
conto.
E
Lily avrebbe inseguito James e Sirius, avrebbe riservato loro le
più
colorite minacce – ma quelle per James sarebbero sempre state
un
poco peggiori – e alla fine si sarebbero arresi e avrebbero
chiesto
scusa con gli occhi bassi e la labbra arricciate come due bambini.
Lily ne avrebbe riso, avrebbe riso di cuore, e Remus avrebbe riso con
lei, perché qualunque uomo avrebbe riso insieme a Lily. E
sì... sì,
Remus sarebbe stato un uomo. Non umano, magari... ma un uomo, quello
sì, quello avrebbe potuto esserlo sul serio.
La
stiracchiata allegria sul pallido viso di Tonks lasciò
spazio a
un'espressione rigidamente severa. Parve intuire la natura
dell'improvviso silenzio di Remus, perché si fece
più stretta a lui
e gli appoggiò la mano sul petto. Lui socchiuse ancora gli
occhi e
si conficcò i denti nel labbro inferiore.
«È
tutto sbagliato» mormorò con voce roca.
«Che
cosa?».
«Tutto
ciò che è accaduto è
sbagliato» insisté ancora. Il suo tono
suonava incerto. Sotto le palpebre chiuse gli occhi iniziarono a
bruciare. «James e Lily, Sirius... e io
sono qua. Sono qua e
non ne conosco il motivo».
Tonks
prese ad accarezzargli piano i capelli. Il bacio che posò
sulla sua
fronte parve leggero come un alito di vento primaverile.
«Abbiamo
bisogno di te più che mai, Remus. L'Ordine ha bisogno di
te... Harry
ha bisogno di te.».
«Nessuno
ha bisogno di me».
Lei
alzò un sopracciglio con eloquenza.
«Mio
padre ha sempre detto che gli uomini migliori sono proprio quelli che
pensano di non servire a niente».
Lo
sguardo di Remus si fece d'un tratto tagliente.
«Io
non sono un uomo».
«“Sono
Remus Lupin, il sanguinario Lupo Mannaro dell'Ordine della
Fenice”»
gli fece il verso con insofferenza Tonks. «“Sono
una feroce
Creatura Oscura che divora vergini e bambini, lo sterminatore
più
temuto da ogni mago o strega della Gran Bretagna”. Di',
è questo
che vuoi sentire? Vuoi che ti dica la verità. Eccola: sei un
idiota»
la sua voce si era accesa con una note esasperata. I suoi occhi scuri
parevano scintillare. «“Nessuno ha bisogno di
me”, “io non
sono un uomo”... vaffanculo, Remus. Se ti
ostini a dire di
essere un mostro, la gente ti riterrà un mostro per tutto il
resto
della tua vita».
Remus
si alzò di scatto a sedere con stizza. Sentiva la rabbia e
l'indignazione montargli nel petto, eppure c'era una piccola parte
della sua testa che sapeva chi dei due aveva
davvero ragione.
Era la coscienza che si faceva trascinare dall'eco delle voci di
Sirius e James, dalla risata di Lily, dal ricordo di una pacca sulla
spalla e una fotografia scattata ai piedi della capanna di Hagrid.
“ Tu
non sei un mostro, Moony”. E lui lo sapeva, lo sapeva davvero:
quando veniva paragonato a Fenrir Greyback scoppiava come una furia,
umiliato e rancoroso; e Dolores Umbridge, l'Unità di
Cattura, suo
padre... Remus detestava ognuno di loro. Il mostro era
soltanto
ciò che loro desideravano lui fosse. “Hai solo un
piccolo problema
peloso, amico”. Non era un mostro, non lo era mai stato.
Aveva
sempre combattuto contro i propri istinti, aveva trattenuto artigli,
zanne e ferocia dentro di sé per tutti quegli anni, si era
fatto a
brandelli da solo, plenilunio dopo plenilunio, perché l'idea
di
poter diventare una bestia era più terrificante della morte
stessa.
“Och, ragazzo” scherzava spesso sua madre.
“Tutti gli irlandesi
sono dei mostri. Mai metterti contro di loro, perché
l'Irlanda gli
ha insegnato a mordere”.
Lui
mordeva come un irlandese battezzato a metà, come un mago
che non
ricordava di essere mai stato umano, come un Lupo Mannaro che non
conosceva il sapore della carne di un altro uomo... mordeva la vita a
metà, saltellando da una parte all'altra senza trovare il
proprio
posto nel mondo.
Ma
negare era più facile. Ostinarsi e battere i piedi, chinare
il capo
e sopportare, alzare la spalle e scuotere la testa era facile.
Trovare l'orgoglio di gridare al mondo: “Io sono un Lupo
Mannaro e
vengo a reclamare il mio diritto alla vita”... quello era
impossibile. Significava combattere da solo una guerra contro tutti.
«Tu
non sai cosa vuol dire essere me».
«No,
non ne ho idea» replicò con schietta
sincerità Tonks. Sembrava
diventata improvvisamente più adulta e matura di quanto non
avesse
mai cercato di apparire. I suoi capelli rosa cicca stonavano con la
fiera gravità del suo volto. «Ma so cosa vuol dire
essere me.
So cosa vuol dire essere la figlia di una donna che agli occhi della
comunità magica rimarrà per sempre una Black. La
sorella della più
dannata Mangiamorte fra le fila di Lord Voldemort, della moglie
di
un Mangiamorte, cugina di altri Mangiamorte,
traditori e
bastardi». Storse il naso con un fremito d'ira e fece un
profondo
respiro. «Io sono un'Auror... ho sempre desiderato poter
diventare
un'Auror, ho sputato l'anima per diventare un'Auror, ma al Ministero
la voce che si sussurra non cambia mai. Giorno dopo giorno, anno dopo
anno... credono che non li possa sentire, ma non è vero.
“Sua
madre è una Black”» sputò
l'ultima parola con enorme disgusto.
«“Non combinerà niente di buono. I suoi
parenti sono dei
Mangiamorte... e tutti gli altri sono solo dei Babbani”.
E
sai, Remus... molti ritengono sia meglio avere il Marchio Nero
sull'avambraccio piuttosto che non avere la bacchetta fra le
mani».
Lui
la guardò a lungo. Aveva degli occhi meravigliosi, limpidi e
vivaci,
ma in quel momento brillavano di cupa tristezza. Remus si rese conto
di non avere mai avuto la più pallida idea di quale fosse il
loro
vero colore. Non sapeva nemmeno come fossero in realtà i
suoi
capelli – e dire che li avevi visti rosa, verdi, blu. Quello
che
stava guardando avrebbe potuto essere il volto di una giovane donna
che non esisteva, ma la sua angoscia era genuina. Lo erano le lacrime
che stava ricacciando indietro, le labbra strette, i pugni serrati.
Era
vera.
In
una situazione diversa avrebbe replicato che non c'era alcuna
analogia fra la sua situazione e la propria. “La discendente
di una
lunga dinastia di assassini e figli di puttana che ha potuto
scegliere cosa fare della propria vita. Io non ho mai potuto
scegliere nemmeno il colore dei miei vestiti”. Eppure le
parole gli
restarono annodate in gola come un'indistricabile matassa di lana.
Sapeva
che avvicinarsi a lei era uno sbaglio di cui si sarebbe pentito, ma
la baciò ugualmente.
*
Fenrir
Greyback non avrebbe mai riconosciuto il figlio di John Lupin nel
lacero straniero che era arrivato nei bassifondi di Dock Road, ma
Remus non avrebbe mai scordato il fetore del suo alito. Era rimasto
appiccicato addosso ai suoi peggiori incubi per quasi trent'anni,
insieme ai suoi famelici occhiacci gialli e al lento incedere delle
zampe nel fango. E le zanne, gli artigli, l'acuto dolore dei denti
che affondavano nella sua carne... e la pioggia di Durham che
scivolava sul suo piccolo viso, il sangue che gli riempiva la gola,
sua madre che gridava nell'oscurità e urla distanti e
allarmate di
gente che correva e si trascinava in strada per capire cosa fosse
accaduto.
E
Fenrir doveva essere ancora lì, protetto dai bassi boschi
della
piccola contea a scrutare con gioia animalesca il risultato del
proprio lavoro. Remus era la sua vittoria, la sua vendetta, ed era di
nuovo davanti a lui, con una camicia lercia e stracciata e la barba
incolta incrostata di terriccio.
Il
suo volto era stanco e pallido, ma i suoi occhi lampeggiavano di
vivida attenzione. Teneva una mano sprofondata in una delle tasche
dei vecchi jeans che aveva indossato e l'altra stretta alla cinghia
di una logora tracolla di pelle.
Pioveva
così tanto che la tesa del cappello che indossava si era
appesantita
d'acqua e continuava a piegarsi e a inondargli la faccia di acqua.
Remus rimaneva tuttavia rigidamente immobile davanti a Fenrir. Il suo
era stato un battesimo da blasfemi e aveva sputato
nell'acquasantiera, ma era sempre per metà un irlandese di
Kinsale –
e sua zia Maire diceva che l'unica cosa che a Kinsale non sarebbe mai
finita era la pioggia. E il brodo di pecora.
«Sei
l'irlandese che chiamano O'Buckley?».
Remus
schioccò distratto la lingua. Gli tornò in mente
sua madre:
ripeteva lo stesso gesto fra una Rothmans e
l'altra. Cosa
avrebbe detto nel vedere il proprio unico figlio cercare di
abbindolare il licantropo che aveva distrutto loro la vita?
“Cercherebbe di prenderlo a sberle” si disse.
“E poi
prenderebbe a sberle me”.
«Och,
dipende da chi lo cerca».
Aveva
strascicato con forza le vocali. Erano anni che non risentiva la
propria voce calcare con tanta decisione sull'accento della costa
meridionale. Il tempo trascorso in Inghilterra non gli aveva lasciato
molto del retaggio affibbiatogli dalle donne O'Buckley, ma parte di
quella strana parlata non lo avrebbe mai abbandonato del tutto. La
gente non se ne accorgeva subito. Perfino Kingsley, che aveva detto
di avere una nonna di Cork, si era stupito di scoprire che Remus
aveva trascorso in Irlanda buona parte della sua vita. “Un
mezzo
irlandese battezzato a metà”.
«Lo
cerco io».
«Allora
temo proprio di non conoscere nessun O'Buckley».
Greyback
fece una smorfia.
«Ti
ho già visto da qualche parte».
Nonostante
fosse piuttosto a disagio e sentisse la situazione sfuggirgli fra le
mani sempre più in fretta, Remus si limitò a
mostrare i palmi.
«Il
mondo è pieno di irlandesi che non stanno in Irlanda e pare
abbiano
tutti la stessa faccia».
«Non
tutti gli irlandesi sono dei Lupi Mannari. E non tutti i dannati Lupi
Mannari si chiamano Malachy O'Buckley».
Remus
si chiese quanto fosse saggio aggiungere una menzogna a un'altra
menzogna. “Speriamo ci sia un santo protettore dei bugiardi
che
abbia voglia di darmi una mano”.
«Sono
io».
Il
pugno di Greyback arrivò così rapido e brutale da
non lasciargli
nemmeno il tempo di arretrare. Lo schianto delle nocche sul suo
zigomo fu terribile. Colto totalmente alla sprovvista, Remus si
piegò
in avanti e portò una mano al viso, tenendo d'istinto il
capo alzato
per controllare che non sopraggiungessero altri colpi. Si
lasciò
sfuggire un roco grido di dolore e un'imprecazione fra i denti, e non
riuscì a schivare nemmeno il violento calcio che parve
trapassargli
lo stomaco. Boccheggiò privo di fiato e cadde in ginocchio
nelle
pozzanghere. La tracolla gli sfuggì dalla spalla e la
consunta
Bibbia di Gora O'Buckley scivolò fuori.
Greyback
ne fu talmente incuriosito da commettere l'errore di chinarsi. Remus
colse l'occasione al balzo: estrasse la bacchetta con un gesto
fulmineo e gliela puntò alla gola.
«Non
un respiro o giuro su Dio che ti ammazzo, figlio di puttana».
Si
rialzò in piedi con fatica, facendo cautela a ogni movimento
del
licantropo. La testa gli doleva terribilmente e lo sterno sembrava in
procinto di esplodere, ma nei suoi occhi brillava un feroce odio. Era
tutto per Fenrir Greyback, per l'infanzia che gli aveva strappato,
per l'adolescenza che era stato costretto a rubare con la punta delle
dita, per tutto il resto di una vita di stenti e miseria, per Tonks
che aveva dovuto abbandonare in mezzo a una guerra che non sembrava
destinata a finire... era l'odio di un'intera esistenza vissuta a
metà.
«Remus
Lupin...» sibilò con rabbia Greyback.
«Dovevo immaginarlo».
«Non
sei mai stato dotato di particolare immaginazione».
Gli
occhi gialli di Greyback brillavano di inumano disgusto. Digrignava i
denti come una bestia affamata e dalla sua gola risaliva un basso
ringhio, ma non sembrava intenzionato a chinare la testa davanti al
proprio avversario. Sollevò le mani in segno di resa, ma la
sua
espressione era beffarda e malefica.
«Avanti,
ragazzo... uccidimi».
Il
suo fiato puzzava di carogne e fumo stantio, ma Remus restò
impassibile. Le loro ombre si allungavano tremolanti alla luce dei
lampioni. Erano diverse come l'alba e il tramonto. “Io sono
un
uomo”. Greyback inclinò appena la testa. La
pioggia aveva
schiacciato i suoi lunghi capelli grigi davanti alla fronte alta e
scarna.
«Uccidimi,
Remus Lupin. Liberati di me».
«Io
non sono come te».
«Lo
sei sempre stato».
“ E
dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, Gesù
ebbe
fame” recitò mentalmente. La mano che
stringeva la bacchetta
fu scossa da un tremito impercettibile. Sarebbe stato così
facile... così pratico...
aveva già ucciso, dopotutto.
Non era certo di essere sopravvissuto alla guerra, ma non poteva dire
di non esserci cresciuto in mezzo. E quella era una guerra –
la sua
guerra, quella che era costretto a fronteggiare da quando era
solo un bambino. La morte di Fenrir Greyback avrebbe rappresentato la
fine del proprio Inferno. Niente più notti insonni, niente
più
paure remote tornate a disturbare il suo riposo... la formula
dell'Anatema Che Uccide fremeva sulla punta della sua lingua.
“La
luna piena non smetterà di sorgere. Io resterò un
Lupo Mannaro e a
ogni mese sarà come se nulla fosse cambiato”.
«Silente
pensa di averti addomesticato, eh?». Greyback si
passò la lingua
sulla labbra. «Ti ha infilato addosso una veste da dannato mago...
ma non lo sei, Remus. Non lo sarai mai».
«È
questo il motivo per cui stai scodinzolando ai piedi di Lord
Voldemort?» lo rimbeccò con sfrontata ironia.
«Vuoi una vestaglia?
E dopo che farai? Indosserai una cuffia e un paio di occhialetti e
andrai in giro a mangiare bambine con il cappuccio di rosso?».
L'orrenda
bocca di Greyback si distorse in un raccapricciante sogghigno.
«O
forse assaggerò quella graziosa strega dai capelli rosa che
ti porti
a letto».
Fu
come essere essere stritolato nella morsa di un Acromantula. Le
parole di Greyback gli squarciarono la pelle e si insinuarono nel suo
torace, serrandosi attorno allo stomaco, ai reni e ai polmoni.
Cedette ancora al ricordo della notte in cui le zanne del Lupo
Mannaro erano sprofondate nel suo fianco e per un istante fu di nuovo
un bambino terrorizzato.
“ Ripulire
i resti del mio cervello potrebbe rivelarsi noiosissimo”
riecheggiò
nella sua testa. La risata e il sapore delle labbra di Tonks erano il
peggior predatore che gli avesse mai dato la caccia. Rideva con brio,
lanciava battute scanzonate e afferrava la vita a piene mani. Ma era
giovane, era irruente, era un fiume in piena che quella guerra
avrebbe potuto fermare in un battito di ciglia. Mentre la immaginava
crollare con la gola squarciata fra le braccia di Fenrir Greyback, si
sentì pervaso da una rabbia cieca e indomabile. La
maledizione gli
sfuggì dalle labbra prima ancora di rendersi conto di cosa
stesse
facendo.
«Crucio!».
La
notte si riempì delle grida di dolore del Lupo Mannaro. Fu
il suo
turno di crollare in ginocchio, lercio e umiliato. Rotolò
sulla
schiena in preda a lancinanti sofferenze. Remus non abbassò
la
bacchetta. I suoi occhi erano folli, la sua mente annebbiata.
“Uccidilo!” si disse. “Uccidilo ora!
Uccidilo adesso!”, ma
gli ordini di Silente non erano quelli.
Remus
avrebbe dovuto mescolarsi fra i licantropi, convincerli
a
scendere in battaglia contro Lord Voldemort, mostrarsi migliore.
Ma era così facile stare in piedi davanti alla creatura che
gli
aveva distrutto la vita, fissandola gemere e dimenarsi alla luce
stiracchiata dei lampioni...
“ Tu
non sarai un brav'uomo, Remus. Tu sarai un uomo straordinario”.
Indietreggiò
di colpo e osservò stranito la sagoma spezzata di Greyback.
Si
osservò una mano come se non potesse credere che facesse
parte del
proprio corpo. “Io sono un uomo. Io sono un uomo. Buon Dio,
io sono
un uomo”.
Raccolse
la Bibbia e osservò la croce sulla copertina di pelle con
sguardo
vago e distante.
“ Disse
Satana: «Sei sei Figlio di Dio, gettati, poiché
sta scritto: il
Signore darà ordini ai suoi Angeli affinché non
abbia a urtare
contro un sasso il tuo piede». Ma Gesù disse:
«Non tenterai il
Signore Dio tuo»”.
Remus
socchiuse gli occhi. La pioggia scendeva dal suo viso e svaniva nella
barba incolta portandosi dietro lacrime di furia e vergogna.
“ Dio
mio, Dio mio... perché mi hai abbandonato?”.
*
La
Stamberga Strillante era un posto chiuso e soffocante, e l'aria era
resa rancida da secoli di polvere lasciata ad accumularsi. A ogni
passo di Tonks vaghe nuvolette grige si sollevavano dal pavimento. Si
muoveva con cautela attraverso lo stretto corridoio, sorreggendosi
con una mano alla parete e tenendo l'altra davanti al volto, con la
punta della bacchetta illuminata come unica guida. Il suo piede
inciampò in ciò che restava di un vecchio
tappetto consunto e cadde
a terra.
«Porca
puttana!» imprecò con rabbia mentre si rialzava.
«Invece di uno
stupido zerbino, io avrei comprato un lampadario!».
Abbassò
piano la maniglia di ottone. La porta si aprì con un
lamentoso
cigolio. Fu felice di trovare la stanza piacevolmente illuminata da
un paio di fiamme galleggianti. Non l'avrebbe mai definito un posto
confortevole, ma perlomeno avrebbe avuto la possibilità di
guardare
dove metteva i piedi.
Remus
era accucciato ai piedi del letto con le braccia appoggiate alle
ginocchia piegate e una Bibbia aperta fra le mani.
Madama
Chips le aveva riferito di averlo visto sgattaiolare fuori
dall'infermeria prima che riuscisse a controllare che stesse bene.
“ È
un incosciente” si era lamentata con gli occhi arrossati dal
pianto
e un fazzoletto umido stretto fra le dita tremanti.
“È sempre
stato un incosciente... ha preso un sacco di botte, stasera, e
abbiamo bisogno di lui, e invece se ne va senza nemmeno la decenza di
farsi visitare. Beh, perlomeno sappiamo che non ha le gambe
rotte”.
“ Alla
Stamberga Strillante, Tonks” aveva mormorato con un filo di
voce
Hermione, seduta su un alto sgabello di legno in un angolo
dell'infermeria. Ron annuì in silenzio.
“C'è un passaggio segreto
sotto il Platano Picchiatore. Il professor Lupin deve essere andato
là”.
“ Come
fai a saperlo?”.
La
ragazza aveva indicato con aria distratta una delle finestre che si
affacciavano sul gigantesco parco di Hogwarts. Il maestoso albero si
intravedeva appena nella nebbia dell'alba.
“ I
rami sono fermi. Qualcuno è scivolato da poco fra le
radici”.
Tonks
osservò Remus con più attenzione. Aveva gli occhi
cercati da ombre
più scure di quanto non avesse mai avuto, era sinistramente
più
pallido e il sottile rigolo di sangue che si era rifiutato di farsi
medicare si era ormai incrostato sulla sua tempia. Il suo sguardo era
spento.
La
giovane si passò una mano fra i capelli grigio topo, fece un
lungo
sospiro rassegnato, si avvicinò a lui e lasciò
cadere sul materasso
la sacca che Madama Chips aveva riempito di bende e pozioni.
“Gli
rimetta a posto la testa, signorina Tonks, o sarò io a
staccargliela
di netto”.
«Madama
Chips era preoccupata. Sei fuggito prima che potesse metterti le mani
addosso».
Lui
fece una leggera smorfia.
«Suona
come una minaccia».
«Lo
è» replicò schietta lei, stringendo fra
le mani un pacco di garze
e una boccetta piena di un liquido verdastro.
«Tieni
quella roba lontano da me» la ammonì in fretta.
«Non
fare il bambino: è solo essenza di Dittamo».
«Viene
sciolto insieme all'Aconito».
«Non
in quantità sufficiente per ucciderti».
«Ma
in quantità sufficiente per darmi più dolore che
giovamento».
Remus frappose un indice fra di loro e aggiunse: «Sono un
Lupo
Mannaro, non--».
«Davvero?»
lo interruppe con pesante sarcasmo Tonks, inginocchiandosi accanto a
lui e avvicinando al suo viso una piccola pezzuola umida.
«Non
l'avevo capito».
Tentò
di spostarle la mano con espressione intimorita, ma la ragazza fu
più
lesta e gli afferrò rudemente il polso.
«È
solo acqua, Remus» lo rassicurò esasperata.
«Acqua. Non è
certo mia intenzione attentare alla tua lieta esistenza da licantropo
disadattato».
«Io
non--».
Le
parole di Remus si trasformarono in un soffio di dolore. Tonks
premette con più decisione sulla ferita, con le labbra
arricciate in
un'espressione compiaciuta.
«Fa
male».
«Non
lo dubito».
«Ti
stai divertendo?» le chiese con un'occhiata inquisitoria.
«È il
tuo personale modo di vendicarti per come ho... ahi!
Accidenti, brucia troppo per poter essere “solo
acqua”».
«Apri
le orecchie, razza di idiota: non sono venuta qui per farti da balia.
Hai la testa più dura che abbia mai visto e Merlino mi
è testimone,
ma al momento non mi pare messa granché bene, quindi piantala
e lasciati medicare» sbuffò indispettita. Poi
inclinò appena la
testa e inarcò con eloquenza un sopracciglio .
«Inoltre... di cosa
dovrei vendicarmi?».
«Per
amor di Godric, Ninfadora, non ricominciare».
«Tu
stavi ricominciando, non io. E prima che tu aggiunga qualcosa, Remus,
mi dispiace... ma sono troppo giovane, troppo ricca e troppo indifesa
per te». Nonostante la malevola ironia, il suo tocco si era
fatto
più delicato. «Per non contare il fatto che sei
noioso e pedante».
Remus
non interferì oltre con i tentativi di Tonks di sistemargli
la
tempia. Se ne rimase fermo con il capo basso, deciso a evitare lo
sguardo inquisitore della giovane. La pezza era solo appena
inumidita, ma a contatto con la pelle sembrava gelida e tagliente. O
forse erano le mani di Tonks, forse era la mesta consapevolezza di
averla accanto senza poterla davvero sfiorare. Forse era la
sensazione raggelante del mondo che crollava sulla loro testa.
«Buon
Dio... non posso credere che Silente sia morto».
Tonks
impietrì davanti alla sua lapidaria osservazione. La mano le
ricadde
sul grembo, le spalle sottili s'incurvarono sotto il peso di un'altra
battaglia perduta. I suoi occhi scuri si velarono di rassegnazione,
le labbra si strinsero in una linea tirata e ritornò la
bambina
confusa che essere stata un tempo, quando nessuno aveva desiderio di
spiegarle la guerra. Eppure lei capiva da sola, perché come
avrebbe
potuto non sentire il pianto spaventato della madre dall'altra parte
della parete?
Tonks
aprì la bocca per dire qualcosa, ma la sua attenzione venne
richiamata dalle pagine della Bibbia che Remus teneva ancora fra le
mani.
«Ehi,
non è inglese».
«È
gaelico».
In
un primo momento sembrò confusa. Poi schioccò le
dita a mezz'aria e
alzò gli occhi al cielo.
«Avevo
dimenticato che sei cresciuto in Irlanda».
«In
realtà non ho mai parlato molto in gaelico»
negò candidamente lui.
Davanti all'espressione perplessa di Tonks aggiunse:
«È una lingua
che sta facendo il suo decorso. Ormai si arrangia un mezzo inglese
che metta d'accordo tutti. L'unica donna che ho conosciuto che si
è
sempre rifiutata di parlarlo è stata mia nonna. Lo
conosceva, ma non
voleva usarlo. Questa Bibbia apparteneva a lei». Fece un
tiepido
sorriso. «Sai, non credo gli saresti piaciuta».
«Perché?».
«Perché
a mia nonna non piaceva nessuno» ridacchiò.
«Stessa pasta con cui
è fatta mia zia Edna, ma un po' meno stupida. Fa esorcismi
in
cucina... o almeno lo fa quando zia Maire non è impegnata a
cucinare
pecora. Sei mai stata nel sud dell'Irlanda?».
Sorridendo
appena, Tonks scosse il capo.
«E
ti piace la testa di pecora?».
Lei
emise un verso disgustato e Remus scoppiò in una blanda
risatina.
«Ricordami
di non portati mai a Kinsale. Mia zia Maire ha ucciso per molto
meno...» commentò teatralmente. «E zia
Edna brandirebbe un santino
di Santa Cecilia nella speranza di lenire il peccato di
fornicazione».
Questa
volta Tonks scoppiò in una risata sguaiata. Il tempo
sembrò
fermarsi di colpo e indietreggiare fino all'anno prima, quando tutti
insieme trascorrevano intere serate nel soggiorno di Grimmauld Place.
Sirius si divertiva a lanciarsi in dettagliate cronistorie degli anni
dei Malandrini, e in un paio di occasioni si era spinto talmente
oltre che Remus lo aveva colpito in testa con un gigantesco libro di
Antiche Rune. Bill raccontava barzellette sconce lontano dalle
orecchie delle madre e Kingsley divertiva ognuno di loro con gli
imbarazzanti resoconti dell'addestramento tutto ruzzolate e parolacce
di Tonks... era il tempo in cui quella guerra da combattere non li
aveva ancora piegati davvero. Quello in cui l'avevano sottovalutata
per l'ennesima volta.
«Ma
io e te non abbiamo fornicato» commentò con un
sopracciglio alzato.
«La
tua coscia è a dieci centimetri dal mio fianco: per mia zia
Edna
questo fa di me un filisteo e di te una meretrice»
replicò con
ironia Remus. «Potresti avere qualche speranza di fare colpo
su mia
zia Fiona, ma balbetta troppo perfino per conversare del
tempo».
«Farei
un brutta impressiona anche su tua madre?».
«Scherzi?
Indossi scarponi da uomo e imprechi con originale
trivialità...».
Le rivolse un'occhiata di profondo affetto e sorrise. «Ti
adorerebbe».
«Sembra
una famiglia divertente».
«È
l'ultimo aggettivo con cui mi sognerei di definirla».
Lei
accennò un'altra risata. Il silenzio scivolò
ancora fra di loro e
si fece più teso e soffocante. Spezzare l'aria rancida della
Stamberga con quel vago guizzo di allegria non era servito a niente.
La pesantezza di ciò che era accaduto si insinuò
prepotente fra di
loro, e nessuno sembrò sapere cosa dire. C'era troppo da
dire,
dopotutto. C'era la morte di Silente da superare in fretta, o la
guerra avrebbe superato in fretta loro; c'era il caos della
battaglia, c'era il tradimento di Severus Piton che aleggiava come
un'ombra sulle cenere di tutto ciò in cui avevano creduto; e
c'erano
loro, seduti l'uno accanto all'altra in una casa infestata dai
fantasmi di una vita passata senza più parole nella gola.
Tonks
posò la propria mano su quella di Remus e
intrecciò le dita alle
sue. Lui non reagì, ma abbassò lo sguardo per
notare quanto fossero
diverse. Le dita di Tonks sembravano sottili lingue pallide e la sua
carnagione era chiara e delicata; quelle di Remus erano screpolate e
ruvide al tocco.
«Dimmi
qualcosa in gaelico» propose improvvisamente lei.
Remus
arrangiò un mezzo sorriso imbarazzato e ci pensò
su qualche
secondo. Quando parlò, la sua voce era poco più
alta di un
sussurro.
«Tá
brón orm».
«Cosa
significa?».
«Perdonami».
Tonks
lo scrutò a lungo con espressione impenetrabile. Si morse
agitata il
labbro inferiore, sospirò e appoggiò la testa
nell'incavo della sua
spalla. Remus la circondò con un braccio e iniziò
a giocherellare
assente con i suoi capelli. Fra le sue dita, le ciocche iniziarono a
tingersi di un brillante rosa.
«Non
ti si può odiare...» commentò sfinita
la ragazza. «Dico sul
serio, Remus. Uno ci prova fino in fondo, a odiarti e a prenderti a
calci in culo, ma alla fine non funziona mai».
«Sono
ancora convinto che non ne otterremo niente di buono» la
ignorò con
voce roca. «Sono ancora convinto che sia un errore, continuo
a non
poterti offrire nulla e probabilmente il Ministero cercherà
di
seppellire entrambi ad Azkaban, e senza Silente...». Si
passò una
mano sul viso e scosse il capo. «Quasi di certo la guerra
è
perduta».
«Perlomeno
ti è rimasto un po' di ottimismo».
«Mi
rimane il tuo». Le baciò lieve la fronte e rimase
fermo, con gli
occhi serrati e un'ombra disperata sul volto segnato. «Sei
l'unica
cosa che non ho ancora perso... l'unica cosa di cui ho
bisogno».
«Vinceremo
noi» mormorò con feroce decisione Tonks.
«Non mi importa come e
non mi importa quando... ma vinceremo. Ce la faremo. Andrà
tutto
bene».
Le
credette.
Credette
alla sua determinazione, credette al suo profumo, credette alla
stretta sicura delle sua dita. Tonks conservava l'incredibile potere
di afferrare per lo stomaco la gente e trascinarla in piedi. Era
dirompente come una cascata, era semplice e limpida come l'alba che
si stava affacciando alle finestre. Baciarla era come baciare la
speranza, era come stringere la vita stessa senza timore che potesse
sfuggire come sabbia fra le dita. Forse Remus non era mai stato
davvero umano, forse non era inglese, forse non era irlandese; forse
era sempre stato un mostro o forse non lo era mai stato e non se ne
era mai accorto; forse non aveva mai creduto in Dio o forse si era
solo accontentato di credere di poter credere... ma nulla ormai
importava.
Era
lì, era con lei, e il resto del mondo non poteva toccarli.
«Andrà
tutto bene».
Le
avrebbe creduto fino alla fine.
|