Opera al Nero

di Dira_
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Capitolo XVI





It doesn't matter what you did, who you were hanging with
We could stick around and see this night through
(Young Folks, Peter Bjorn & John)
 
 
Londra, Mattina.
Casa di Roxanne e Dionis Radescu.
 
Svegliarsi il giorno dopo una festa come quella di Scorpius era sempre piuttosto orribile.
Lily si svegliò infatti con un’emicrania formato famiglia che le rimbalzava da sinapsi a sinapsi e con il braccio pesante del proprio ragazzo che le bloccava la respirazione. Scalza, sgusciò fuori dal letto tentando di non svegliare l’altro – anche se a giudicare da come era inerte avrebbe potuto innescare uno degli scherzi di suo zio George senza avere reazioni. Fu dunque in pieno stordimento che scivolò lungo il corridoio della gigantesca casa di Roxanne e Dionis alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
Salato. Ho bisogno di cibo salato e succo di arancia. Litri. Morgana, la mia testa…
Non ricordava quanto avesse bevuto, ma per dormire della grossa dati i suoi recenti incubi…
… molto. Limitiamoci al molto. Al locale e poi qui. Lily, cattiva cattiva ragazza.
Ricordava che la festa, come tutte quelle che coinvolgevano il suo multiforme clan, era finita a casa di Roxanne, quella tra di loro con più metri quadrati a disposizione e pochi problemi ad ospitare gente alticcia e schiamazzante.
Ehi, stiamo parlando della figlia di George Weasley, il magnate dello scherzo.
Aveva anche vaghi ricordi del fatto che Sören li avesse seguiti di buon grado dopo aver ritrovato Dionis, con il quale si era salutato amichevolmente.
Dion è sempre stato dalla mia parte se facevo il suo nome. In effetti, a ben pensarci, un po’ si somigliano. Rigorosi, bravi ragazzi.
Avevano quindi passato il post-festa sul grande divano del salotto a parlare e dare fondo al carrello della spesa – sul serio, un carrello – di bevande Babbane che Dominique aveva Materializzato dal 24/7 più vicino. A dirla tutta Sören aveva cercato del whisky e si era versato solo quello, ma non l’aveva giudicato nonostante fosse un alcolico da vecchietto: ognuno aveva i suoi modi per concludere la serata.
Era stato strano, ma bello; complice forse l’atmosfera rilassata e la notte fonda, nessuno della cerchia ristretta dei sopravvissuti al party era sembrato a disagio o infastidito dalla presenza del tedesco.  
È stata un bel fine serata … Sul serio.
Solo che non aveva memoria di come fosse veramente finita. L’ultima cosa che ricordava era di essersi accoccolata sul divano, cullata dalla voce dell’amico e di Scott, quest’ultimo seduto a terra, che discutevano di chissà quale libro complicato che entrambi avevano apprezzato. Aveva poi sprazzi di immagini dove qualcuno la prendeva in braccio e la portava a letto, sfilandole le stilettos con cura: a giudicare da chi si era ritrovata affianco quella mattina doveva essere stato Scott.  
Entrata in cucina fu graziata dal profumo di pancetta croccante e pane tostato. Roxanne in vestaglia, capelli raccolti e soprattutto cucinante era una visione paradisiaca.
“Meravigliosa cugina.” Borbottò tendendo le mani. “Ti amo.”
“Buongiorno Rossa.” Rispose senza distogliere gli occhi dalla cottura. “Sei la prima.”

“Ad amarti? Dion dissentirebbe.”
“Scema.” Sbuffò. “Intendevo a venir qui … Se non conti Malfoy.” Indicò qualcosa a terra e Lily, con una risatina, notò il biondo addormentato; stava russando della grossa, abbracciato a quello che sembrava un enorme cane di peluche.
Da dove diavolo l’ha preso? Meglio non chiedere.  
“Se sono la prima cosa vinco?” Chiese invece dirigendosi verso lo scaffale della dispensa dove era posto un perenne Incanto Refregerante – era come avere una versione magica di un frigo. Vi tolse la caraffa di succo d’arancia e meditò se scolarsela senza la mediazione di un bicchiere.  
“La possibilità di fare colazione in pace prima che i miei ormoni di donna incinta abbiano la meglio e vi cacci tutti fuori di casa.” Replicò l’altra con una serietà preoccupante, prima di stemperarla nel famigerato ghigno paterno. “Hai una faccia orribile.”
“Pozioni per alleviare le conseguenze del mio comportamento dissoluto?”
“Prima colazione, poi pozione.” Recitò automaticamente  e si scambiarono un sorriso; la citazione era tutta di nonna Weasley.
“Dovresti vedere Scotty comunque.” Esordì dopo qualche attimo di silenzio passato a bere salvifico succo. “Credo rimarrà clinicamente morto fino all’ora di pranzo. Per essere così grosso è un peso piuma, lo immagineresti mai?” Scivolò su una sedia, dando un calcetto leggero a Scorpius che grugnì, rigirandosi con uno sbuffo. “Bella festa comunque.”
Roxanne confermò con un cenno della testa. “Avrei voluto godermela di più.” Chiuse il fornello con un colpo della bacchetta e spedì la padella a servirle la colazione.  “Essere l’unica strega sobria della serata mentre persino tuo marito ormai risponde nella sua lingua madre?” Scosse la testa con una smorfia. “Non è divertente.”
“Sì, mi ricordo che ad un certo punto lo capiva solo Ren. Ha dovuto fare da traduttore.” Aggrottò le sopracciglia. “A proposito, è ancora qui? È rimasto a dormire?”  

“È stato l’ultimo ad andarsene, prima ci ha dato una mano a mettere ordine nel caos che avevate seminato.” Rispose puntellando le mani sul ripiano dei fornelli. “È un bravo ragazzo.” Osservò.
Lily sorrise, sentendo un piccolo, interno moto di trionfo.  
L’altra notando la sua espressione sbuffò. “Okay, avevi ragione.” Concesse. “Dion lo adora. Finalmente qualcuno che sembra esser piombato come lui da un romanzo di cappa e bacchetta.”
“Questi cavalieri senza paura. C’è da cadere fulminate, vero?”
Roxanne fece un mezzo sorriso schivo, il suo modo per mostrarsi innamorata senza venir meno alla sua fama di strega tutta di un pezzo. “Tu ne sai qualcosa.” Ritorse, ma lo fece senza troppi pensieri quindi Lily scrollò le spalle e le rispose con lo stesso sentimento.
“Già.” Diede una forchettata di pancetta e la masticò con voluttà perché era ciò di cui aveva bisogno.
“Scott ha dormito con te?” Le chiese poi con uno strano tono di voce che Lily non riuscì ad inquadrare.
Poteri di LeNa e post-sbronza non vanno d’accordo.
“Dove vuoi che abbia dormito?” Si strinse le spalle. “ È stato lui a portarmi a letto.”
“Veramente no, non ti ricordi? È stato Sören, Scott ti ha seguita dopo.”
Lily ricollegò di colpo le braccia salde, ma non massicce che l’avevano cinta nel dormiveglia, come le mani bollenti che le avevano sfilato le scarpe per metterle ordinatamente accanto al letto – Scott le avrebbe lasciate sparse per la stanza senza preoccuparsene troppo, disordinato come e quanto lei.
“Oh.” Non trovò di meglio da dire. “Gentile da parte sua.”
“Gli sei finita sulle gambe mugolando che avevi sonno, che avrebbe dovuto fare?”

Lily pregò un pantheon di divinità magico-babbane di non star arrossendo, perché il calore delle sue guance e l’espressione sbigottita di sua cugina non erano un buon segno. “Che altro ho fatto?” Chiese con tutta la nonchalance che poteva simulare.
Oddio, Scotty mi ucciderà. Cioè, non è geloso, e lo sa che divento espansiva quando bevo, però …
No, chi prendo in giro, non è per Scott. È per Sören. Chissà cosa avrà pensato!
Roxanne indossava un’espressione ilare che pochi erano in grado di farle fare: lei e le sue cavolate ne avevano la palma. “Niente di tremendo.” La consolò. “Era solo la tua solita sbronza con carenze affettive.”
“Che avrei dovuto evitare con un ragazzo che non è il mio ragazzo.” Borbottò trai denti finendo quello che rimaneva del suo succo. “Morgana, che imbecille!”
Roxanne si strinse nelle spalle, mettendo poi a cuocere uno sterminato esercito di uova: avendo vissuto per un periodo della sua vita con quel goliarda di Freddy Junior aveva imparato a gestire l’alba del giorno dopo meglio di chiunque altro e dai rumori che si sentivavano per la casa – imprecazioni e lamenti - il resto della truppa si stava svegliando. “Da quando ti fai problemi?” Le chiese. “Perché mi ricordo che la leggendaria pazienza del tuo scozzese emerge soprattutto in questi contesti.”

“Ne parli come se mi ubriacassi e mi buttassi addosso a sconosciuti tutti i fine settimana!”
“C’è stato un periodo in cui succedeva.” Fu la replica impietosa. E veritiera. “Da quando stai con Ross no, è vero, ma Prince non è uno sconosciuto.”

“No.” Seppellì la testa tra le braccia in cerca di sollievo. “Certo che non lo è. È proprio questo il punto.”  
Siamo amici … E dovrà accettare anche questo lato di me, credo.
… Dovrei mandargli un Gufo per spiegarglielo?
Era straniante fare quel genere di pensieri; aveva amici maschi, ma non aveva mai dovuto preoccuparsi del fatto che il suo comportamento avrebbe potuto esser visto come sconveniente da uno di loro. 
Forse perché la metà sono tuoi parenti mentre gli altri hanno un rapporto blindato con le loro ragazze. O ragazzi.
Il tedesco non si ascriveva a nessuna di quelle categorie; era un amico, puro e semplice.
E questo rende tutto più complicato? Forse. Anzi, mi sa di sì.  
“Non dire niente.” La avvertì percependo che stava per arrivare una delle ramanzine per cui la cugina era famosa. “Perché so che non mi piacerà.”
“Stai facendo tutto da sola.” Fu la perfida replica. “Dico solo … Scott deve preoccuparsi?”
Eh?
“Eh?” Ripetè acutamente. La risposta le fu risparmiata dall’ingresso scaglionato del resto degli ospiti, una piccola armata di zombie barcollanti e poco comunicativi.
Scott, l’ultimo a chiudere la fila, le si sedette accanto, con un’aria così terminale che non ebbe cuore di farci ironia. Gli versò piuttosto una dose massiccia di caffè per passargli poi le dita trai capelli schiacciati dal cuscino. “Buongiorno bellissimo.” Non potè fare a meno di motteggiare. “Come ci sentiamo?”
“Domanda di riserva?” Borbottò strofinandosi le mani sul viso. “La prossima volta toglimi la birra di mano, sul serio piccola. Costringimi fisicamente a non bere.”
Rise sollevata perché sembrava che l’altro non avesse registrato nulla di sconveniente la sera prima.

O mi terrebbe il muso.
Potere in post-sbronza o meno, Scott era sempre meravigliosamente semplice da leggere; era una delle cose più amava di lui. “Promesso ragazzone.”
“Tu non dovresti neanche essere qui e in ‘ste condizioni, c’hai dieci anni. Gail e Gus dovrebbero mettere un Incanto della linea dell’età all’ingresso del pub … Che diavolo.” Diceva intanto Hugo rivolto a Meike, la quale esibiva degli strategici e preoccupanti occhiali da sole.
“Ma falla finita, sto messa meglio di voi vecchiacci.”
“E gli occhiali da sole?”
“Sono fotosensibile.” Replicò con un sussiego che sembrava aver copiato da Tom, mentre si sedeva afferrando pezzi di toast a manciate. “E se lo dici a vati ti tolgo il saluto.”
“Dai cugino, abbiamo bevuto succo di zucca fino a quando non ha schiodato assieme a Sissy. Non rovinare tutto!” Le fece eco Louis sprofondando le dita nella massa incolta dei propri lunghi ricci prima di reclinare la testa sullo schienale della sedia. “Sono troppo bello per morire Maledetto da quel paz-ahia!” Piagnucolò quando la serpeverde gli tirò uno schiaffò velenoso sulla nuca.
“Sta’ al tuo posto, tassoscemo.”
“Sei perfida Serpico, mi fa male la testa!”
“Perché, ne hai una?”    
“Meike è minorenne e Tom, che Morgana abbia pietà delle nostre anime, è il suo tutore legale quindi dovrebbe saperlo.” Sospirò Rose tenendosi una mano sulla fronte ed ignorando il bisticciare dei due adolescenti.
“Non è già abbastanza brutto svegliarsi così?” Sbuffò Hugo. “Possiamo evitare?”
“Infatti. Meike non è mai stata qui.” Borbottò mentre la quindicenne annuiva allegramente. “Sul serio, parliamo piano, mangiamo, prendiamo le dovute pozioni e fingiamo di non stare morendo, okay?” Si guardò attorno e poi localizzò Scorpius con un lamento scornato. “Fatemi capire, il mio promesso sposo è l’unico demente che dorme per terra?”
La risposta di Dionis fu in rumeno e nessuno si prese la briga di tradurla.
La colazione si svolse in un ruminare di mascelle e qualche commento o battuta smorzata dando così la possibilità a Lily di distrarsi dalla conversazione avuta mentre la WWN trasmetteva a basso volume un successo piuttosto azzeccato.
 
Sunday morning and I'm falling
I've got a feeling I don't want to know

 
Perché la mattina del giorno dopo si doveva declinare solo così.
Non pensando.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Casa di James Potter e Ted Lupin, mattina.

 
James rotolò sul fianco e scoprì che tutto quello che rimaneva di Teddy nel loro letto era la forma sul cuscino. Aprendo gli occhi realizzò che il tatto non l’aveva ingannato: si era svegliato da solo.
Ma che cazzo…
Perplesso si rese anche conto che la sveglia digitale che aveva comprato al professorino per buttarsi giù dal letto durante l’anno scolastico segnava le nove di mattina.
Da quando Teddy si sveglia prima delle undici? Siamo in estate!
Era una faccenda bizzarra e in quanto tale, da auror, era suo dovere investigarla. Si alzò e beatamente senza vestiti cominciò a girare per la casa alla ricerca del proprio compagno; c’era qualcosa di glorioso nel poter stare con le chiappe al vento senza doversi per questo beccare reprimende materne o battutacce fraterne.
Adoro avere una casa mia.
La sera prima era stata … rilassante. Aveva evitato di ingozzarsi di alcolici come Malfoy e i cugini e si era dedicato completamente all’altro, ignorando i richiami alla goliardia sfrenata che provenivano da ogni dove; aveva avuto i suoi momenti pazzi e sapeva quando rinunciarvi quando era il caso.
I suoi sforzi erano stati ripagati, dato che l’altro era riuscito finalmente a togliersi le ombre dallo sguardo e persino a ridere e divertirsi.  
Trovò Ted in salotto, di fronte allo specchio vicino all’ingresso, preso ad allacciarsi la cravatta, accessorio che metteva solo in rarissime occasioni.
Okay. Eh?
L’intera storia stava assumendo contorni inverosimili.
È in vacanza! Che sta succedendo?
 “Teddy!” Lo richiamò all’ordine. “Stai uscendo?”
L’altro si voltò e per un secondo, mentre lo guardava in tutta la sua ovvia bellezza statuaria, i capelli sfumarono nel rosso. Poi si schiarì la voce. “Vestirti immagino non sia contemplato…” Osservò. “Buongiorno Jamie.”
“Buongiorno.” Replicò urbanamente. “Fa troppo caldo e non abbiamo ospiti che possa traumatizzare con la mia vigorosa virilezza.”
Virilità.” Lo corresse reprimendo un sorrisetto da professorino stronzo. “Ti ho lasciato la colazione in caldo, uomo virile.”
“Sarà il caso … Dove stai andando?” Si avvicinò e gli afferrò la cravatta, sia per stuzzicarlo sia per impedirgli seriamente di mettere piede nel camino, visto come lo occhieggiava irrequieto. “Odio svegliarmi e non fare sesso la domenica. È una bestialità!”
“Lo dici trecentosessantacinque giorni l’anno.” Gli fece notare passandogli un braccio attorno alla vita e baciandogli la testa affettuosamente. Il modo in cui gli passò un dito sul tatuaggio lungo il collo fu invece molto meno innocente. “Non volevo tirarti giù dal letto, so che è presto.” Alla sua occhiata perplessa, aggiunse. “Ho un appuntamento al Ministero.”

“Di domenica? Chi è l’idiota che lavora di domenica?”
“È un favore che ho chiesto ad un mio ex-compagno di Casa.” Gli spiegò. “Malcolm Whitby, ti ricordi?”

“L’ex di Lenny?” Aggrottò le sopracciglia ma non espresse commenti, anche se per colpa di quel coglione dalla mascella enorme cinque anni prima avevano quasi mandato al diavolo ogni ipotesi di convivenza; era amico dell’altro ma morisse se riusciva a farselo piacere. “A proposito di cosa?”
Ted lo guardò impaziente, ma la sua incapacità di eludere una domanda ebbe la meglio ancora una volta. “Devo parlare con un funzionario della Divisione Bestie per la faccenda di Ben. Voglio scoprire qualcosa in più … Sai che ogni Mannaro è registrato al Ministero, no?”
James si dovette mordere la lingua per non fare una smorfia scontenta; Ted aveva passato una bella serata grazie a lui, sì, ma non si era affatto tolto quel peso dalle spalle.

Lo ha solo posato per un momento. Cavolo.
“Vuoi che ti accompagni?” Tentò perché anche se tutto quello che voleva fare era divorare la colazione e strisciare di nuovo a letto non poteva sottrarsi ai suoi doveri di compagno suppportivo.
L’altro scosse la testa. “No, fa’ colazione e torna a letto … Potrei dover aspettare un bel po’ senza fare niente. So che odi le sale d’attesa.”
“Con tutta la mia dannata anima.” Convenne sollevato che l’altro avesse capito l’antifona. “Sicuro?”

“Sicuro.” Gli diede un leggero pizzicotto sul sedere che lo fece sobbalzare infastidito e gli piacque in egual misura. Il dannato Tassorosso lo sapeva. “Cercherò di sbrigarmi, te lo prometto.”
“Ti conviene, perché questo …” Si indicò in basso in maniera impertinente “… non resterà in vetrina a lungo.”
L’altro inarcò le sopracciglia, mentre gli occhi sfumavano – letteralmente dato che era un Metamorfomago – in una sfumatura nera e densa. “La tua propensione al nudismo non è cosa di oggi però.” Constatò. “Problemi?”
“Non di quelli spiacevoli.” Ridacchiò prima di baciarlo. James sapeva che tutta quella tranquillità d’animo apparente nascondeva in realtà un lavorio interiore da paura, ma preferì glissare.
Se gli rompessi l’anima non sarei tanto diverso da una fidanzatina rompicoglioni. E se c’è qualcuno che lo è, qua, nossignore, non sono io.
… Non mi facesse preoccupare ci crederei di più, cazzo.
Lo lasciò andare dandogli un pugno giocoso sulla spalla. “Tempo contato, Teddy. Torna a casa presto.” 
Che razza di domenica era, altrimenti?
 
****
 
Diagon Alley, Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Mattina.
 
Albus sorrise quando sentì le labbra di Tom sfiorargli la nuca in un bacio leggero. Nel stato di dormiveglia in cui si trovava al mattino si scopriva spesso ad apprezzare quanto ormai fosse naturale levare la mano e sentire la guancia liscia di rasatura dell’altro.
“Se è l’alba ti ammazzo…” Bofonchiò comunque, inarcandosi in un delizioso sfregamento contro il tessuto spugnoso dell’asciugamano che l’altro indossava. “È domenica, è il mio giorno libero.”
“L’unico giorno in cui puoi celebrare la tua accidia.” Replicò con un mormorio di una significativa ottava più bassa. Quel tono era capace di mettere sull’attenti ogni suoi singolo ormone. E altro. “Svegliati e renditi utile. Sono già le nove e mezzo.”

Le nove e mezzo? Di domenica non esistono le nove e mezzo.
“Non sono la sua geisha, Signor Dursley.” Sbuffò schiacciando il viso contro il cuscino. “Dico sul serio, dovrai far meglio di così per convincermi ad alzarmi.”

La risposta – e dovette ammettere che se l’era cercata – fu una mano congelata che gli si piazzò sul suo povero e sensibile interno coscia. Con uno schizzo fu a sedere. “Tom! Come diavolo fai ad avere le mani gelate a Luglio?” Piagnucolò tirandosi le coperte al petto come una scolaretta pudica e traumatizzata.
Il bastardo, in tutto il suo splendore di pelle pallida ed espressione malvagia, sogghignò con la pigrizia di un gatto assopito sul davanzale. “Cattiva circolazione?”
“Spero tu muoia d’infarto allora.” Grugnì tirandogli un cuscino fiaccamente. “Di solito la gente sveglia la propria dolce metà con una colazione a letto! Non con una mano da cadavere tra le gambe!”
L’altro inarcò le sopracciglia. “Io non sono la gente.” Osservò. “Comunque hai ragione. Ho fame.”
“Dov’è Mei? Non ti ha preparato qualcosa?”

“Ieri sera è rimasta a intossicarsi a casa di tua cugina Roxanne in compagnia di quel debosciato di Louis.” Spiegò contrariato, come se la quindicenne gli avesse fatto un torto personale a non essersi presentata padella alla mano al suo risveglio.
Chioccia pretenziosa.
Albus sospirò, liberandosi delle coperte e dirigendosi verso il bagno. “Metti su almeno il the, vuoi?” Lo apostrofò. Aprì poi l’acqua calda della doccia, liberandosi con un paio di lanci mirati della maglietta e dei boxer. Sogghignò quando sentì un ringhio provenire dalla stanza, la cui porta era stata lasciata aperta; Tom odiava che seminasse roba in giro quanto odiava che gli finisse in testa.
Centro.
Non fece in tempo ad entrare nel vano doccia che si sentì voltare e schiacciare contro il muro opposto. Con una risata trai denti intrecciò le dita trai capelli lisci dell’altro, di nuovo bagnati dal getto d’acqua che scorreva su di loro.
“Non avevi già fatto la doccia?” Chiese tirandoselo contro. “Non ti senti mai un po’ maniaco ad insidiarmi così?”
“No.” Fu la risposta immediata come immediato fu il passargli le mani lungo il basso schiena, esplorando e causandogli un gemito di intenso apprezzamento. “Non quando sei così consenziente.”
Touché.

Non era sciocco, né si riteneva tale; aveva capito che il comportamento di Tom in quei giorni era sintomo di qualcosa.
L’attacco al San Mungo. Sì, certo, anche. Ma non solo.
La testa della metà della sua anima era un susseguirsi rutilante di piani, congetture e modi per volgere a favore ogni situazione: era fatto così sin da bambino.
Calcolatore come un politico di professione …
Non si sarebbe stupito se al momento si fosse trovato nel bel mezzo di una delle sue macchinazioni, se non  il suo centro.
Ma finché questi sono gli effetti, perché lamentarsene?
Aveva imparato che cercare di indagare nelle intenzioni dell’altro fosse spesso sterile, oltre che nocivo dato che Tom, se pressato in richieste di spiegazioni, finiva sempre per giocare in difesa.
Me lo dirà. O se lo lascerà sfuggire ed io lo capirò. Stessa cosa.
“Perfetto, moriremo di fame…” Mormorò soffocando un ansito quando la lingua dell’altro scivolò lungo il collo, sulla clavicola e sempre più in basso. “Questo o un giorno finiremo per divorarci a vicenda.”
Lo sentì sorridere. “Come adesso?”

 
Il rumore di qualcosa che sbatteva contro la finestra del bagno attirò la sua attenzione mentre era preso a cercare di dare una forma passabile ai suoi capelli dopo che l’altro ci aveva passato le dita innumerevoli volte.
Sesso mattutino. Grandioso, ma tremendo per i miei capelli.
Tom, ora impeccabilmente vestito, gli lanciò un’occhiata mentre asciugava meticoloso la doccia, onde evitare che rimanessero aloni sul vetro. “Apri, o quel dannato Gufo la sfonderà.”
“Questa tua malattia ha un nome, sai?” Indicò il vetro della doccia e il modo in cui l’altro ripiegò millimetricamente il panno che usava esclusivamente per quello scopo.

“Avere una mente organizzata? So che il concetto ti è estraneo.”  
“No, essere ossessivo - compulsivi.” Ritorse andando ad aprire la finestra: il volatile, non appena sciolta la lettera dalla sua zampa, volò via. Doveva essere una raccomandata ufficiale se non aveva tentato di cavargli un occhio per avere un croccantino.
Aveva l’aria affamata quanto e più di me.
Lesse il contenuto e di colpo essersi svegliato a quell’ora disgraziatamente mattiniera ebbe un senso. “Esco.” Comunicò. “Ti faccio arrivare la colazione a casa, se vuoi. La prendo da Fortebraccio?”
Tom aggrottò le sopracciglia, spiando sopra la sua spalla. “Da dove viene?” Si informò con noncuranza, salvo prendergliela di mano per leggerla. “Dal San Mungo.” Realizzò e il conseguente tono di voce sembrò provenire dagli abissi. “A quanto pare ci sei riuscito, il Sergente Flannery è tuo paziente.”
“Non è mio, è di Sam e del Guaritore Smethwyck.” Replicò aggiustando alla bell’è meglio i capelli. “Io sono solo un tirocinante, mi limiterò ad assistere. Ci sono degli sviluppi … è positivo che me lo abbiano fatto sapere!”

“Congratulazioni.”
Albus si morse la lingua, perché ad un tono del genere non si poteva rispondere che con un insulto o un silenzio offeso. Per buona pace comune non fece nessuna delle due cose. “Tornerò per pranzo, okay?” Cercò il suo sguardo e non si arrese finché non l’ebbe trovato. “Non vorrei perdermi le polpette di zia Robbie per niente al mondo!”

La risposta fu lasciarlo senza risposta, mentre marciava in direzione della sua scrivania.
Prima di uscire si fermò a salutarlo e lo trovò irrigidito e piuttosto ostile tra tomi di libri e una tazza di caffè fumante. “Ci vediamo a pranzo.” Ribadì. “Avverti i tuoi che arriverò per via camino … L’ultima volta ho sbattuto la faccia contro il parafuoco e mi sono quasi rotto il naso.”
La risposta un borbottio non impegnativo. Gli baciò la testa asciutta, a differenza della sua, e scappò via.

 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Mattina.

 
“È permesso?”
“Se riesci ad entrare!”
La frase che gli venne rivolta era assurda, ma dato che era evidente che dietro la targa di vernice scrostata che indicava “l’ufficio relazioni con i Mannari” ci fosse qualcuno, Ted obbedì. Se ne pentì immediatamente, dato che gli finì addosso un quintale buono di pergamene di vario genere e taglia. Abituato alla sua stessa goffaggine riuscì a rinculare ed evitare quindi la commozione cerebrale, spalmandosi contro la porta.

Che diavolo!
Gli sembrava di essere appena capitato nell’occhio di un ciclone, a giudicare dalla quantità di carta, foto e referti sparsi per la stanzetta angusta. A questo si aggiungevano un vecchio divano sfondato e scatole di cibo take-away disseminate ovunque. Sorvegliava tutto dall’alto un ventilatore attaccato al soffitto.
Merlino, questo posto sembra una discarica…
Neppure nei suoi momenti peggiori di disordine aveva mai visto niente del genere.
“C’è nessuno?”  Chiese facendo qualche passo incerto trai detriti.
“Ehi!” Emerse la stessa voce di prima, stavolta alle sue spalle, facendolo sobbalzare. “Tu devi essere Lupin!”
Si voltò e si trovò di fronte una ragazza asiatica sulla trentina, viso tondo e ispidi capelli da porcospino incorniciati da un paio di occhiali dalla montatura squadrata. Sembrava spuntata dal nulla, ma probabilmente era emersa da uno degli scaffali strabordanti in cui era diviso l’ambiente. “Io sono Flynn Lin.” Si presentò tendendogli la mano e stringendogliela con una forza degno di nota per una persona tanto minuta. “Non ti ricordi di me, vero?”
“Hogwarts?” Tentò per andare sul sicuro.
“Mai andata, educata a casa.” Inarcò le sopracciglia quasi trovasse sconcertante che non avesse memoria della sua persona. “Conferenza sui diritti dei lupi mannari, a Brighton, nel 2004. Eri un ragazzino in uniforme scolastica e con i capelli blu, come quelli che hai adesso.” Indicò la sua testa. “Più brillanti però.”
Ted sorrise imbarazzato. “Mi dispiace, non sono famoso per avere una memoria di ferro.”
“Si vede!” Esclamò  senza nessun riguardo. Gli ricordò un po’ le sparate del suo James e questo lo rilassò: non era bravo con gli estranei che non fossero studenti.  

Se parlano tanto e senza filtri un po’ aiuta.
“Malcolm ha detto che sarei passato?” Preferì stornare. “Spero di non averti disturbato.”
“Sì, sì.” Si grattò la testa con la piuma che teneva in mano dalla parte del pennino. I capelli neri come inchiostro probabilmente lo mascheravano, l’inchiostro. “E no, non hai interrotto niente, siediti!” Lo invitò e Ted si trovò nella disagiante posizione di non sapere dove.

“Sto bene così.” Non trovò di meglio da dire. “Ti ha detto perché sarei venuto?
“No, per niente ma non importa …” Lo stupì. “Mi ricordo le tue domande a quella conferenza. Facesti nero il relatore.” Ghignò allegramente. “Quando ho capito chi eri, ehi, mi casa es tu casa.”
Ted esitò a quella dimostrazione di simpatia. “Mi dispiace, proprio non mi ricordo di averti conosciuta…”
“Ah, ma quello perché non ci parlammo neanche, schizzasti fuori appena finita la conferenza, penso per tornare a scuola. Riuscii a capire solo che eri uno schianto.” Gli lanciò una panoramica sfrontata, anche se meno invasiva di quelle che subiva da alcune alunne intraprendenti o dalle loro – ahimè – madri. “Lo sei ancora, per inciso. Da come ti vesti però mi sa che sei uno di quelli che non se ne rende conto, eh?”
“Io…” Si schiarì la voce, tentando miseramente di non arrossire; quando aveva chiesto all’ex compagno di Casa di fargli parlare con il funzionario capo dell’ufficio Licantropi aveva pensato ad un vecchio e accidioso ministeriale con cui avrebbe dovuto accapigliarsi, non una ragazza dalla parlantina sconcertante.
Il mondo è pieno di sorprese.
Doveva fare in modo di volgere quella situazione in positivo però, perché al di là delle battute, Flynn Lin sembrava bendisposta verso di lui. “Mi ricordo che anni fa in questo ufficio c’era un certo Morrison.”  Cominciò alla lontana.
“È andato in pensione cinque anni fa.” Scrollò le spalle voltandosi per cercare qualcosa nel mucchio selvaggio che la circondava. “Adesso sono io a capo dell’ufficio … l’unica dipendente di me stessa!” Si voltò per strizzargli l’occhio. “Non è un lavoro che la gente smania di avere, come puoi immaginare.” Fece un sorrisetto amaro e Ted si trovò a condividerlo; conosceva bene il poco interesse che la Comunità magica nutriva per i Mannari.
Solo una cinquantina di elementi, un unico branco e per giunta confinato in una zona sperduta del Galles.
Niente di cui preoccuparsi, niente di cui interessarsi.
“Come mai ti sei interessata alla materia?”  
La ragazza, dopo aver saltato un basso tavolinetto ingombro di confezioni vuote di asporto thai, si stravaccò sull’unica poltrona della stanzetta che non fosse invasa da qualcosa. “Mio nonno.” Esordì. “Morso quando aveva diciassette anni.” Fece una risatina alla sua espressione sorpresa. “Non hai mai conosciuto un altro figlio d’arte come te?”
“No.” Ammise. “Pensavo…”
“Di essere il solo mago con dei parenti Mannari?” Scrollò le spalle. “Non siamo abbastanza neanche per una squadra di Quidditch, è vero, ma lo siamo per essere annotati su questi quadernoni qua.” Indicò con un cenno della mano una serie di registri impilati su una mensola sopra la sua testa. Ted li ricordò con una certa amarezza; la prima e l’unica volta che era stato in quell’ufficio era stato prima del suo ingresso ad Hogwarts. Sua nonna aveva dovuto portarlo lì per dimostrare che non era affetto dalla Licantropia.

Con tanto di certificato del San Mungo alla mano… Nonna sprizzava scintille dalla bacchetta.
“Ibridi…” Fece una smorfia: era quello il modo in cui quelli come loro venivano registrati al Ministero, per via di una legge che neppure l’illuminata guida di Shacklebolt era riuscita ad abrogare, non con un’opinione pubblica ancora ostile a quel morbo spaventoso.
Anche se sei portatore sano e non ululi alla luna, anche se nessuno ha mai chiesto di consultare questi registri … Per essere ammesso ad Hogwarts come studente devi presentare un certificato di sana costituzione.
Certo, compiuta la maggiore età c’era la possibilità di richiedere la cancellazione del titolo nei propri documenti ufficiali, ma lui non l’aveva mai fatto.
È un monito. Un monito a quanto può diventare orribile la tua realtà quando ti credono tutti un diverso.
“Tu … sei…” Sondare quell’argomento era difficile: molti figli di Mannari erano portatori sani di Licantropia come lui…
Altri non sono stati così fortunati. Altri sono nati malati.
La strega intuendo il suo pensiero gli sorrise. “Sono portatrice sana, come te. Ma…”  Prese la bacchetta e se la puntò al viso: le iridi scure sfumarono in un oro inconfondibile. “Atavismo.” Spiegò. “Li Trasfiguro quasi sempre … Certi colori danno alla gente idee sbagliate.” Fece una pausa, quasi si fosse ricordata di qualcosa. Del filo del discorso, forse. “Comunque per rispondere alla tua domanda, i Mannari sono letteralmente la mia famiglia. Mio nonno ha vissuto con loro fino a quando ha conosciuto mia nonna. Storia avvincente, un giorno te la racconto.” Inclinò la testa da un lato. “Ma anche tu hai belle storie, no? Il figlio di Remus Lupin, eroe di guerra!”
“Magari un’altra volta.”
Non adesso.
L’altra capì l’antifona perché cambiò discorso. “Allora, il buon vecchio Whit è il mio imbrattacarte preferito, e visto che gli devo riportare metà di questa roba da … parecchie lune, sono piuttosto propensa a farmi corrompere per aiutare un suo amico.” Lo indicò con un cenno della mano. “Specie se poi è uno come te.”
“Come me?”
“Morgana, sei tonto!” Sbottò incredula. “Hai idea di quanto sia difficile parlare con un ragazzo carino da queste parti? Vecchi in gonnella, ne siamo pieni!” Scosse  drammaticamente la testa. “Dopo ti prendi un caffè con la sottoscritta.”
Alla faccia dell’essere diretti!
Ted non sapeva se mettersi a ridere o spaventarsi di quell’atteggiamento senza peli sulla lingua. Era propenso verso la prima ipotesi: essendo stato cresciuto dal clan Weasley era abituato a certe sparate. “Se è solo un caffè volentieri, altrimenti devo avvertirti che sono già felicemente impegnato.” Non ci girò attorno. “Con un meraviglioso ragazzo di nome James.” 
La strega roteò gli occhi al cielo, come se gli avesse appena detto di avere una moglie e due gemelli in arrivo. Apprezzava persone del genere: non ce n’erano mai abbastanza, neppure nel Mondo Magico. “Grandioso.” Fece un sospiro profondo. “Grazie per la chiarezza comunque. Non avrei potuto parlar di cose serie pensando di spogliarti sulla scrivania.” Non aspettò di vederlo recepire la frase che tornò di colpo seria. “Parliamo d’affari?”
Frastornato da quel repentino cambio di discorso si limitò ad annuire; doveva essere un’impresa star dietro ad una strega come quella, etero o meno. “Sono qui per chiederti un favore…” Esordì prendendo un grosso respiro.
“Oh, non sei il primo, sai.” Lo fermò divertita. “Che tu ci creda o no, persino in questo buco dimenticato dal Ministero la gente viene a scocciare.”   

“Di solito i favori di che genere sono?”  
La strega scrollò le spalle. “Il più delle volte è gente che vuole che confermi che c’è un Mannaro nella sua zona per poter avere la possibilità di sparare incantesimi al primo bersaglio mobile quando si fa notte. Non hanno la licenza di caccia e sperano di cavarsela mascherandosi da vigilanti dell’ordine comune.”
“Ma l’unico branco…”
“È stanziale in Galles, lo dici a me?” Rise, ma poi le pupille, che erano rimaste dorate, si posarono rapidamente su di lui, taglienti e dirette come quelle di un lupo. “Però Whitby mi ha detto che tu un Mannaro te lo sei davvero trovato dietro casa.”
“Sì, ma è morto.” Strinse i pugni per impedire ai ricordi e ai sensi di colpa di togliergli le parole di bocca.

La strega lo scrutò con quelle disagianti iridi gialle. “Sono sicura che hai fatto tutto il possibile per aiutarlo.” Disse alla fine.
“Come fai a saperlo?” Gli uscì fuori più stizzito di quanto avesse voluto. Era il retrogusto amato della speranza.
Di poter essere perdonato. Da chiunque.
“Istinto?” Suggerì scuotendo la testa. “Sembri un bravo ragazzo e Malcolm mi ha parlato bene di te. Poi voi Tassorosso non lo siete tutti?”
Ted suo malgrado distese le labbra in un sorriso. “Così dicono.”
“Avanti, Lupin, togliti il peso dallo stomaco. Di cosa hai bisogno?”
“Voglio poter parlare con qualcuno del branco.” Inspirò. “Voglio sapere chi era il Mannaro che mi è morto tra le braccia, sapere se c’era qualcosa da cui è scappato, o con cui stava scappando.”
Flynn batté le palpebre. “Credo di non seguirti … qualcosa con cui stava scappando?”

Ted le espose così i fatti, nudi e crudi, senza mediare o cercare giustificazioni. Aveva bisogno di chiudere quella storia, non soltanto per Ben – se quello era il suo nome – ma soprattutto per sé stesso.
Non posso più tornare indietro, quindi devo andare avanti.
“… per riassumere, non sai cosa Ben ha lasciato nella grotta perché i Centauri non ti fanno entrare nella foresta dopo che te la sei presa con loro. Se sapessi cos’è pensi che riusciresti a convincerli a farti passare.” Flynn concluse per lui. “Sempre stati permalosetti, quelli là.”  Si grattò di nuovo la testa con la piuma, meditabonda. “Certo, posso organizzare qualcosa se mi dai un paio di giorni … ma penso che sia meglio se sono io a far da tramite. Sono abituati a me, conoscono il mio odore.”
“Voglio esserci anch’io.” Su questo sarebbe stato irremovibile. “Per favore.”
La strega sospirò. “Se è importante … potrei far venire qui Moscardo. È il vice di Vulneraria, l’attuale capobranco. Non dovrebbe fare troppe storie, è un tipo alla mano … Ben hai detto?”

Credo si chiamasse Ben.” Ammise. “È l’ultima cosa che mi ha detto prima di morire, il suo nome … ho pensato si trattasse del suo nome.” Riflettè su un pensiero che l’aveva colto più di una volta in quei giorni. “Pensi che si riferisse a qualcun altro?”  
“Beh, un Mannaro dopo La Rinascita perde la sua identità di mago e di essere umano.” Osservò Flynn grattandosi il mento. “Via il nome, via la bacchetta, via la tua vecchia vita. Credimi, dovendo tenere i loro registri anagrafici lo so bene … È davvero come se nascessero una seconda volta.” Si voltò e prese un paio di grossi faldoni polverosi da sotto quello che sembrava un ficus malcurato. Evidentemente c’era un metodo in quel caos. “Queste sono le anagrafiche. Ci sono le foto, dagli uno sguardo e vedi se lo trovi.”
Ted non dovette penare molto per trovare ciò che cercava. Dopo una ventina di pagine e fotografie isolò Ben; in foto sembrava meno patito e privo di barba, ma indubbiamente era il Mannaro che l’aveva attaccato. “È lui.” Disse indicando la scheda. “Sono sicuro.” Lesse poi il nome vergato in inchiostro sbiadito, vecchio di decenni. Lesse  e sbatté le palpebre stranito. “Lunastorta?” Chiese. “Si chiamava Lunastorta?”

Era il soprannome di mio padre.
Era una coincidenza così curiosa che lo fece rimanere senza parole.
Flynn si sporse oltre la sua spalla per guardare. “Ah, sì … te l’ho detto, si ribattezzano. Nel suo caso non ne ha neppure avuto bisogno.” Scorse con lo sguardo la scheda e poi annuì. “Come pensavo, è nato nel branco e non ha mai avuto un nome da essere umano.” Aggrottò le sopracciglia. “Non mi ricordo di averci mai parlato, doveva amare starsene sulle sue.”
“Non li conosci tutti?”

“In teoria. Nella pratica no.” Si strinse nelle spalle. “Ho buoni rapporti con Moscardo, e i cuccioli sono quelli più curiosi, ma il resto del branco quando vado a fare le ispezioni mensili neanche si fa vedere.”
Ted rimase in silenzio, assimilando le informazioni sconcertanti che gli erano appena state date.
Ben ha conosciuto mio padre? Sembrava avere poco più della mia età, all’epoca doveva essere un bambino di massimo uno, due anni.
Perché ha il suo nome?
Lo sguardo della strega andò alla foto e poi a lui. “Qual è il problema?” Indovinò.
Glielo disse e l’espressione dell’altra sembrò più confusa di lui. “Se tuo padre ha vissuto con il branco all’epoca di Greyback…” Si fermò di colpo con un’espressione nello sguardo che non riuscì a decifrare.  “Beh, può essere che Moscardo se lo ricordi … è una specie di vecchio saggio della comunità. Potrebbe sapere perché quel Mannaro si chiamava come il tuo vecchio.”
Ted annuì, e mentre guardava la foto di Ben – o meglio, Lunastorta - sentì lo stomaco stringersi in una morsa. Aveva come l’impressione di essere incappato in qualcosa di più grosso di un Mannaro morto.

 
 
****

Surrey, Little Whining.
Privet Drive n°4, Dopo pranzo.
 
“Cos’è quel muso?”
Tom alzò la testa per incontrare gli occhi scuri e sempre troppo truccati – secondo i suoi gusti – di sua sorella Alicia. La ragazza era appoggiata al tronco dell’albero su cui una volta era appesa l’altalena della sua infanzia e adesso un più classico dondolo su cui si era sdraiato per leggere.
“Non capisco a cosa tu ti riferisca.” Le fece eco tornando al suo libro. L’altra non si fece impressionare e gli si sedette senza troppe cerimonie sulle gambe.
Alicia.”
“Invasione degli spazi personali? Oh, povero bimbo!” Ghignò beffarda. “Senti, hai a malapena spiccicato due parole in croce per tutto il pranzo. Non che di solito tu sia un chiacchierone…” Inarcò le sopracciglia spingendo il dondolo in un irritante movimento ondulatorio. “… ma visto che ci degni della tua augusta presenza potresti almeno essere socievole.” Fece una smorfia espressiva. “Per mamma, sai.”

Tom serrò le labbra tra di loro; sua sorella non aveva tutti i torti. Il suo umore era talmente pessimo che era dovuto scappare dal salotto per non esplodere in qualche commento acido all’ennesima battuta stupida di Vern o alle domande piene di buone intenzioni ma troppo pressanti di Robin. L’unico che sembrava aver capito che vento tirava era stato suo padre.
Alicia si accese una sigaretta e reclinò la testa sul legno dipinto dello schienale. “Momento confessione?” Spiò dandogli una pacchetta sul ginocchio. “Non dirmi che è per via di Albume.”
“Non chiamarlo così.” Sbuffò al nomignolo infantile, prima di ricordarsi che ce l’aveva con lui e che quindi non avrebbe dovuto aver voglia di difenderlo. “E non pretendere di sondare i miei umori.”
“Oh, qui lo facciamo tutti da una vita, è diventato lo sport di casa, piccolo principe viziato.” Alzò gli occhi al cielo. “È perché non è riuscito a farcela per pranzo?”
La domanda non valeva neppure una risposta.

No, perché è un bugiardo.
“Sai fratellino, sei adorabile.” Se ne uscì fuori e fu piuttosto insultante. Adorabile lui? “Metti il broncio perché perdi di vista il tuo preziosissimo Al per qualche ora?” Ignorò la sua occhiata linciante e continuò. “Non doveva lavorare? È una specie di medico magico, no?”
“Un Guaritore, ed è solo un assistente.” Avrebbe davvero voluto addentrarsi nel nuovo romanzo che l’altra gli aveva prestato: aveva a che fare con troni, spade e personaggi deliziosamente perfidi, proprio il suo genere, ma sembrava ci fosse modo per liberarsi delle attenzioni non richieste di quest’ultima. “Sto leggendo.” Tentò.
“Se non mi dai retta ti dico come finisce.” Vedendo che non cedeva ghignò malvagia. “Muore uno Stark.”
“Ti ammazzo.”
Gnègnè.” Fu la replica significativa. “Avanti, che è successo? Non me ne andrò finché non me lo dirai!”

Se Meike fosse qui sarebbero in due. Non pensavo l’avrei mai detto, ma … grazie a Dio deve ancora smaltire la sbornia.
“Al aveva promesso di venire a pranzo e non è venuto.” Buttò fuori malmostoso.
La ragazza fece una risatina che le sarebbe valso un calcio se solo fossero stati ancora bambini; come sua madre, era a conoscenza del fatto che la sua convivenza con Al poco aveva a che fare con la virile amicizia e molto con il mettersi le mani addosso, ed esattamente come l’altra aveva accolto la notizia come se l’avesse sempre saputo.

Perché uscire fuori dall’armadio se non ci siamo apparentemente mai stati?
“Confermo, sei adorabile.” Ghignò.
“Lasciami in pace.” La apostrofò sentendosi ridicolo e pienamente scontroso. “Va’ a postare foto di dubbio gusto sui venti social network che infesti.”
Sopportò stoicamente lo schiaffo che gli arrivò sulla gamba. “Sei il solito stronzo, Dio solo sa come fa Al a sopportarti tutto il giorno!” Esclamò esasperata per poi alzarsi di colpo. Era un record che, con il temperamento che aveva, fosse rimasta a cercare di farlo parlare tanto a lungo.
Dovrei ringraziarla?
La lasciò comunque andar via, perché il suo malumore non poteva essere scalfito neppure da quello.
Al adesso è al San Mungo, in mezzo ai camici verdi, a Flannery e qualsiasi diavolo di cosa abbia contratto.
Ad impicciarsi di cose da cui dovrebbe star lontano.
Chiuse gli occhi passandosi una mano trai capelli e non fu sorpreso quando sentì qualcuno avvicinarsi. La sorpresa fu constatare che si trattava di suo padre che reggeva un piatto con la sua porzione di dolce. “Tua madre ci si è impegnata” Borbottò con l’aria di stare sui carboni ardenti. “Potresti almeno provarci.”
L’accusa era ben formulata, quindi fu costretto a subirla. Prese il piatto e ne diede una forchettata. “È delizioso.” Sospirò, tirando via le gambe per far sedere l’uomo.

Se è venuto a parlarmi lui quanto sono stato sgradevole?
“Com’è che riesci sempre a far saltare i nervi a tua sorella?” Considerò l’altro dopo qualche momento passato a guardare le siepi perfettamente curate del giardino.
“È una dote che si acquista con l’esperienza.” Ironizzò godendosi il sapore fresco della menta nell’impasto; era il suo dolce preferito e questo lo fece sentire ancora peggio. “Oggi non sono dell’umore.”
“L’abbiamo notato.” Convenne con piglio brusco, salvo lanciargli un’occhiata impacciata. “Tua madre mi ha spedito a vedere se avevi bisogno di qualcosa…”
“Di parlare?” Fece una smorfia. “Di quello ne ho sempre poca voglia.”
Suo padre fece un sorrisetto divertito, annuendo, quasi comprendesse il suo stato d’animo.

Da ragazzino viziato a ragazzino viziato…
Era seccante che la sua voce interiore, quella della supposta ragione, avesse il tono di Albus.
“Va tutto bene? Al lavoro, a casa?”
“Sì. Per adesso.” Il che era ancora più frustrante. Sapeva che stava arrivando un pacco di problemi delle dimensioni di una casa, se lo sentiva nelle ossa e non poter far nulla per ovviare a quel problema lo faceva infuriare. “È solo…” Esitò ma aveva bisogno di buttarlo fuori e ammetterlo era forse più difficile che farlo. “… Al sta lavorando a qualcosa che mi spaventa.”
“Qualcosa di pericoloso?” Indovinò al volo l’uomo, che Babbano era e sarebbe rimasto, ma sapeva troppo della storia familiare per non avere la capacità innata di capire quando un Potter si buttava nei guai con il piglio di un treno in corsa.

“Potenzialmente.” Convenne stuzzicando quel che restava del suo tortino alla menta.  
Suo padre fece uno sbuffo empatico. “Diavolo, non ne ha avuto abbastanza?”
“Sembra di no.” Ritorse sarcastico. “Deve sapere tutto ed essere invischiato in tutto.”
Ed è colpa mia. Ho mentito e sono sparito. Abbastanza per far sviluppare una paranoia.

… La cosa peggiore è che è colpa mia.
“Figlio di suo padre…” Considerò l’uomo con un sospiro, ignaro dei suoi pensieri, dandogli una pacca sul ginocchio. Fu breve e impacciata, ma non fastidiosa. “Riporta il piatto in cucina quando hai finito.”
Il momento di condivisione padre-figlio era stato spossante per entrambi e suo padre sembrava pronto ad infossarsi nella sua poltrona per una maratona di spazzatura televisiva domenicale; non era stato male però essere compreso da chi, prima di lui, aveva avuto a che fare con la follia Potter. Questo non significava che l’interrogatorio fosse finito però, pensò rientrando e chiudendosi la porta della veranda alle spalle.
Ora è il turno di mia madre.
 
“E tu non sei d’accordo …”
Come aveva immaginato, Robin Castellario in Dursley non aveva aspettato che di vederlo posare il piatto nel lavello per aprire le danze.   
Dovrei cominciare a riconsiderare Vern. Ci ignoriamo meravigliosamente.
“Sono preoccupato.” Incrociò le braccia al petto e guardò verso il camino che si intravedeva dal salotto; ciò che era spuntato da lì durante gli antipasti non era stata la testa arruffata di Albus, bensì una lettera di scuse.
Imperdonabile.
“Glielo hai detto?”
“Non gli importa.”
Gli diede uno  schiaffo sulla spalla, quasi trovasse riprovevole quel pensiero. “Non dire sciocchezze.” Lo apostrofò infatti. “Albus non ha fatto altro che ascoltarti da quando eravate bambini …  mi sbaglio?”

No. 
“Non lo ritiene comunque un motivo per rinunciare.” Non avrebbe voluto parlare di quello; avrebbe voluto essere in giardino a lasciarsi distrarre da un tomo cartaceo, non in una cucina tirata a lucido, con sua madre che lo guardava come se fosse un enorme infante cresciute e capriccioso.
Bello e irrealizzabile, questo tuo mondo delle intenzioni…
“Che la ritenga importante o meno … a conti fatti, che differenza fa?”
“La fa eccome.” Sua madre gli rivolse un sorriso, quasi non credesse a quanto sciocco potesse essere. Nei rapporti interpersonali forse lo era; era stata questa la sua croce e la sua salvezza. “Thomas in un rapporto non è questione di convincere l’altro che sta sbagliando, non sempre. Siete due teste dure, vi arroccate sui vostri obbiettivi … Se lo ostacolassi non ne verrebbe fuori nulla di buono.”
Fece una smorfia. “E quindi cosa mi suggerisci di fare? Assecondarlo?” Odiava sentire la campana della ragione quando non era la sua. Odiava sentirsi nell’infinita schiera di coloro che non avevano diritto di replica perché avevano fatto di peggio. “Stai dicendo che devo star zitto perché anch’io ho commesso la mia dose di sbagli?”
Sua madre non parve turbata dal suo sarcasmo. Era una dote rara. “Non è la prima volta che succede … Stavolta è lui a far qualcosa che preoccupa te e non viceversa. Avete già affrontato questo genere di problema … Come l’avete risolto?”
Assieme. Lo abbiamo affrontato e risolto assieme.

Sospirò, mentre il sorriso dell’altra diventava consapevole e si ampliava. “Vorrei solo esser lasciato in pace.” Confessò perché era la donna che l’aveva cresciuto e non avrebbe approfittato delle sue debolezze. Era una certezza che gli lasciava uno strano calore allo stomaco. “Non me lo merito, ma lo voglio comunque.”
“Sul merito non mi trovi d’accordo, ma su una cosa sì … con la famiglia di tuo zio non l’avrai mai.” Gli passò un braccio attorno alla vita e strinse appena. Aveva capito e non servivano parole: non ne servivano nella sua famiglia e per questo si riteneva immensamente fortunato.
Harry mi ha dato a loro forse con leggerezza.
Nemmeno riflettendoci avrebbe potuto far cosa migliore.
 
****
 
Londra, Farrindgon, magazzino Purge&Dowse, ovvero…
San Mungo. Pomeriggio.
 
Al guardò l’orologio da polso che Tom gli aveva regalato per il suo ventunesimo compleanno e pensò che sarebbe stato ucciso dall’altro non appena avesse messo piede in casa.
Ho saltato il pranzo con la sua famiglia quando gli avevo promesso che ci sarei stato.
Odia quando non mantengo le promesse.
Guardò demoralizzato l’enorme mole di fascicoli che erano stato spediti dall’Archivio Centrale delle Malattie Infettive Magiche di Bruxelles e calcolò mentalmente quando gli ci sarebbe voluto per spulciarli tutti alla ricerca di una casistica che avrebbe potuti aiutarli con il sergente Flannery; non aiutava il fatto che Sam e il Guaritore Smethwyck lo avessero lasciato da solo in quel compito.
Sono Guaritori di ruolo … non hanno tempo. O voglia. E indovinate chi viene chiamato?
Secoli. Ci metterò secoli.
Gli sarebbe stato benissimo se solo non fosse stata domenica e non avesse sentito lo stomaco come una caverna profonda e vuota.

“Ehi!” La voce di Sam fu celestiale quanto l’odore di sandwich al tacchino che vi era associato. “Ho pensato di venire a sfamare il povero ricercatore.”
“Ottima pensata.” Sorrise alzando la testa dai fogli e facendo fatica a mettere a fuoco la figura dell’altro mago nella penombra della biblioteca del reparto; se avesse continuato così fino alla specializzazione avrebbe rischiato gli occhiali da vista.

Come papà … e come Lils anche se si ostina a dimenticarseli ovunque.
L’uomo si sedette al tavolo con lui, allungandogli anche una tazza di fumigante cioccolata calda. L’avrebbe baciato. “Allora … trovato qualcosa?”
“Nulla, per ora.” Scosse la testa addentando il panino con gusto. “Ci hanno mandato di tutto … Forse avremo dovuto essere un po’ più selettivi con le chiavi di ricerca.
“Aumento
di magia e Cambiamenti somatici è un po’ troppo generalistico, eh?” Fece una smorfia l’irlandese reclinando la schiena sulla sedia. “Ma purtroppo sono gli unici sintomi che hanno un senso, dal punto di vista medico.”
“Già.” Sospirò. “E se fosse qualcosa di nuovo?” La sola idea lo gettava nel panico, ma ignorare quel pensiero sarebbe stato più deleterio che dirlo ad alta voce. “Qualcosa che nessuno ha mai visto o sentito?”

Il Guaritore di Infettive fece una smorfia. “È raro che una malattia magica esca fuori dal nulla, Al. I virus, come sai, sia che siano magici o Babbani esistono dalla notte dei tempi e dallo stesso tempo creano malattie legandosi a batteri o alle cellule del corpo umano… Però le nostre malattie nascono molto più lentamente di quelle Babbane… I nostri virus sono pochi.” Scosse la testa. “Ci devono essere dei precedenti. Forse semplicemente non in Inghilterra.”  
“Lo so, è solo … ci sono di mezzo gli auror.” Si morse le labbra e addentò di nuovo il proprio pranzo, anche se gli era passata la fame. “Uno dei sintomi è l’aumento di capacità magica e gli auror si occupano di magia oscura … Se fosse un virus creato attraverso di essa, questo cambierebbe le carte in tavola.”
Un virus creato con la magia oscura … Significa modificare qualcosa che è già nocivo, che è già portatore di malattie per renderlo … Ancora più letale?
“Non fasciamoci la testa prima che il Bolide ci abbia colpito, okay?” Gli sorrise l’uomo più anziano stringendogli appena il polso. “Al momento le condizioni del Sergente sono stabili. Abbiamo tempo per trovare la cura e restituirlo alla sua famiglia.”
Al sorrise, capendo che non avrebbe spuntato quella discussione; l’indole positiva del Guaritore Finnigan era stata temprata dalla guerra, e non sarebbe stato una malattia sconosciuta a scalfirla. Gliene fu grato, ma non poté fare a meno di pensare che tra una Maledizione e un virus, decisamente avrebbe scelto di passare per la prima.
 
****
 
Diagon Alley. Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Sera.
 
Zorba fu il primo ad accorgersi che Al era tornato a casa. Drizzò le orecchie e con un miagolio lieto saltò giù dal grembo di Tom per dirigersi verso l’ingresso.
 
I due umani con cui condivideva l’esistenza da quando era stato preso dal rifugio erano particolari. Erano giovani, sempre presi a litigare su tutto, ma in quella casa non c’era mai l’uno senza l’altro e dal punto di vista di un animale da appartamento era una buona cosa.
Significa che almeno uno dei due prima o poi si ricorda di darmi da mangiare.
Erano divertenti, i suoi umani: c’era l’Umano Alto e dall’espressione torva – aveva un nome ma a Zorba non piaceva – il più raggirabile, nonostante sembrasse sempre in conflitto con il mondo. Era il suo preferito.
Poi c’era Albus, che dei due si occupava di non mandare in malora la casa e di non farli morire tutti di fame. Gli piaceva, ma aveva un po’ troppe regole, come quelle di non farsi le unghie sui mobili o non masticare i lacci delle scarpe.
Strusciandosi contro le gambe di quest’ultimo percepì stanchezza, soprattutto per il fatto che si rifiutò di prenderlo in braccio come di solito amava fare. “Ciao Zorba.” Lo salutò chinandosi per un grattino comunque dovuto. Era il pegno per entrare. “Dove sono Tom e Mei?”

La ragazzina bionda non c’era– e gli stava benissimo dato che era fastidiosa come una batteria di coperchi, lei e il rumore che si portava sempre dietro, musica la chiamava – ma l’Umano Alto era nello studio e trovò quindi giusto guidarci l’altro.
Albus lo seguì sbadigliando e stirandosi come se fosse un gatto – non con la stessa grazia, ovvio – e sorrise quando vide la schiena dell’altro. Cosa trovasse di bello in quella schiena ossuta Zorba non lo capiva, ma doveva avere a che fare con il fatto che vi passava spesso le mani o la abbracciava.
“Ehi.”
“Sei tornato.” Il tono era simile al soffio di un gatto, ma Zorba aveva capito da tempo che era tutta scena. Poteva vederlo balzando sulla scrivania; l’Umano Alto era contento quando Albus tornava a casa, gli sorridevano gli occhi.  “Pensavo ci saresti morto là dentro.”
“Lo pensavo anch’io.” Albus si avvicinò e gli baciò la testa, serrando la presa in un abbraccio che non venne però ricambiato. “Sei ancora arrabbiato?”

“Dovrei?”
“Non rispondermi con un’altra domanda … Lo so che ti avevo promesso che sarei venuto, ma sono stato bloccato fin’ora.” Sospirò. “Dimmi che hai dato da mangiare al gatto … o a te stesso.”
Non avendo risposta Albus alzò gli occhi al cielo, e la piega nervosa delle labbra la diceva lunga su quanto si stesse frenando per non arrabbiarsi. “Non ho la forza neanche per scaldare una pizza, Tom, dimmi che riesci ad alzarti, prendere il telefono e…”
“Ho lasciato la cena in caldo.”  

Dovendo condividere la propria esistenza di Famiglio con un corvo sociopatico – chiunque avesse a che fare per più di cinque minuti con Kafka sapeva che doveva stargli lontano se aveva cara la vita – e un Gufo, Cleto, stupido come un mucchio di sassi, Zorba provava determinato affetto per i suoi umani e fu dunque felice di vedere che la piccola sorpresa dell’uno era andata a segno nello sguardo dell’altro.
“Hai cucinato?”
“Ho scaldato gli avanzi del pranzo, mia madre ci ha sommersi.”
“Merlino la grazi!” Esclamò chinandosi per baciarlo – un gesto antigenico che dalla sua infinita saggezza felina non avrebbe mai capito. “Ti amo.”
“Immagino la tua giornata sia stato un incubo.”

“Mi sanguinano gli occhi … mi hanno messo a controllare qualcosa come un milione di referti medici, non scherzo.” Fece una pausa. “Mi dispiace essermi perso il pranzo dagli zii, sul serio.”
L’Umano Alto scrollò le spalle; non sembrava del tutto convinto ma prese la mano dell’altro e lo condusse in cucina come avrebbe fatto con un bambino insonnolito. Zorba non li seguì, preferendo andare in camera da letto – gli umani la chiamavano loro, ma in realtà era una sua dependance, quella che usava quando voleva rilassarsi dopo una lunga giornata di niente.

Fu svegliato dal peso di Albus sul letto, o meglio, dal fatto che gli franò vicinissimo. Protestò con un miagolio e per tutta risposta si beccò un colpetto irrispettoso sotto la pancia. “Dai Zorba, fammi posto … Devo riuscire a dormire almeno quattro ore stanotte.”
“Ti sei portato delle cartelle a casa.” Osservò l’Umano Alto, già in direzione della sua scrivania. “Pensavi di continuare?”
“Essere assuefatti al lavoro è una malattia, non serve che tu me lo dica…” Bofonchiò con la bocca sui cuscini, ormai prossimo al sonno. Zorba fu magnanimo; gli concesse di farlo anche se era il suo posto preferito. “Volevo avvantaggiarmi ma non ce la faccio. Le leggerò domani mattina.”
Fu l’ultima cosa che disse prima di cominciare a dormire della grossa. L’Umano Alto, che era tornato alla scrivania che usava quando voleva star vicino all’altro, si alzò e andò a frugare nella borsa di tela di quest’ultimo, estraendo fogli spillati assieme. Dovevano essere i cosiddetti referti.
Li portò alla scrivania e Zorba, che gli saltò in grembo sia per avere attenzioni, sia per controllare che non fossero pericolosi, lo vide consultarli con attenzione.
“Gli esseri umani sono stupidi.” Gli venne confessato a mezza bocca. Fare da cassa di risonanza silenziosa a quei due era un altro dei suoi compiti e lo svolgeva ovviamente al meglio. “Facciamo cose assolutamente idiote per chi amiamo.”
Zorba si acciambellò su quelle gambe magre e fece le fusa; era un buon modo per assentire.

 
 
****
 
Note:
 
Non ho potuto fare l’alba del giorno dopo di tutti i ragazzi, ma non preoccupatevi, avrete pensieri e seghe mentali anche di due tedeschi e di un Mike. Tutto a suo tempo. ;)
I nomi dei Mannari: sono stata a lungo indecisa se metterli in inglese o usare la traduzione italiana. Ho deciso per la seconda ipotesi perché alla fine ho usato sempre la terminologia italiana per le Case, i cognomi e gli incantesimi.
Per quanto riguarda il secondo battesimo, e ‘i nomi’ degli OC … beh, tutta farina del mio sacco.
(Anche se i nomi Moscardo e Vulneraria sono tratti da un libro. Un cioccolatino a chi lo riconosce. :P)
Qui la canzone del capitolo.
Per chi volesse vedere Zorba qui




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