Capitolo XVI
It
doesn't matter what you did, who you were
hanging with
We could stick around and see this night through
(Young
Folks, Peter Bjorn &
John)
Londra,
Mattina.
Casa
di Roxanne e Dionis Radescu.
Svegliarsi il giorno dopo
una
festa come quella di Scorpius era sempre piuttosto orribile.
Lily si svegliò
infatti con
un’emicrania formato famiglia che le rimbalzava da sinapsi a
sinapsi e con il
braccio pesante del proprio ragazzo che le bloccava la respirazione.
Scalza, sgusciò
fuori dal letto tentando di non svegliare l’altro –
anche se a giudicare da come
era inerte avrebbe potuto innescare uno degli scherzi di suo zio George
senza
avere reazioni. Fu dunque in pieno stordimento che scivolò
lungo il corridoio
della gigantesca casa di Roxanne e Dionis alla ricerca di qualcosa da
mettere
sotto i denti.
Salato.
Ho bisogno di cibo salato e succo di arancia.
Litri. Morgana, la mia testa…
Non ricordava quanto avesse
bevuto, ma per dormire della grossa dati i suoi recenti
incubi…
…
molto. Limitiamoci al molto. Al locale e poi qui. Lily,
cattiva cattiva ragazza.
Ricordava che la festa, come
tutte quelle che coinvolgevano il suo multiforme clan, era finita a
casa di
Roxanne, quella tra di loro con più metri quadrati a
disposizione e pochi
problemi ad ospitare gente alticcia e schiamazzante.
Ehi,
stiamo parlando della figlia di George Weasley, il
magnate dello scherzo.
Aveva anche vaghi ricordi
del
fatto che Sören li avesse seguiti di buon grado dopo aver
ritrovato Dionis, con
il quale si era salutato amichevolmente.
Dion
è sempre stato dalla mia parte se facevo il suo
nome. In effetti, a ben pensarci, un po’ si somigliano.
Rigorosi, bravi
ragazzi.
Avevano quindi passato il
post-festa sul grande divano del salotto a parlare e dare fondo al
carrello
della spesa – sul serio, un carrello
– di bevande Babbane che Dominique aveva Materializzato dal
24/7 più vicino. A
dirla tutta Sören aveva cercato del whisky e si era versato
solo quello, ma non
l’aveva giudicato nonostante fosse un alcolico da vecchietto:
ognuno aveva i
suoi modi per concludere la serata.
Era stato strano, ma bello;
complice forse l’atmosfera rilassata e la notte fonda,
nessuno della cerchia
ristretta dei sopravvissuti al party era sembrato a disagio o
infastidito dalla
presenza del tedesco.
È
stata un bel fine serata … Sul serio.
Solo che non aveva memoria
di
come fosse veramente finita.
L’ultima
cosa che ricordava era di essersi accoccolata sul divano, cullata dalla
voce dell’amico
e di Scott, quest’ultimo seduto a terra, che discutevano di
chissà quale libro
complicato che entrambi avevano apprezzato. Aveva poi sprazzi di
immagini dove
qualcuno la prendeva in braccio e la portava a letto, sfilandole le stilettos con cura: a giudicare da chi
si era ritrovata affianco quella mattina doveva essere stato Scott.
Entrata in cucina fu
graziata
dal profumo di pancetta croccante e pane tostato. Roxanne in vestaglia,
capelli
raccolti e soprattutto cucinante era una visione paradisiaca.
“Meravigliosa
cugina.”
Borbottò tendendo le mani. “Ti amo.”
“Buongiorno Rossa.” Rispose senza distogliere gli
occhi dalla cottura. “Sei la
prima.”
“Ad amarti? Dion
dissentirebbe.”
“Scema.”
Sbuffò. “Intendevo a
venir qui … Se non conti Malfoy.”
Indicò qualcosa a terra e Lily, con una
risatina, notò il biondo addormentato; stava russando della
grossa, abbracciato
a quello che sembrava un enorme cane di peluche.
Da
dove diavolo l’ha preso? Meglio non chiedere.
“Se
sono la prima cosa vinco?” Chiese invece
dirigendosi verso lo scaffale della dispensa dove era posto un perenne
Incanto
Refregerante – era come avere una versione magica di un
frigo. Vi tolse la
caraffa di succo d’arancia e meditò se scolarsela
senza la mediazione di un
bicchiere.
“La
possibilità di fare
colazione in pace prima che i miei ormoni di donna incinta abbiano la
meglio e
vi cacci tutti fuori di casa.” Replicò
l’altra con una serietà preoccupante,
prima di stemperarla nel famigerato ghigno paterno. “Hai una
faccia orribile.”
“Pozioni per
alleviare le
conseguenze del mio comportamento dissoluto?”
“Prima colazione,
poi
pozione.” Recitò automaticamente e
si
scambiarono un sorriso; la citazione era tutta di nonna Weasley.
“Dovresti vedere Scotty comunque.”
Esordì dopo qualche attimo di silenzio
passato a bere salvifico succo. “Credo rimarrà
clinicamente morto fino all’ora
di pranzo. Per essere così grosso è un peso
piuma, lo immagineresti mai?” Scivolò
su una sedia, dando un calcetto leggero a Scorpius che
grugnì, rigirandosi con
uno sbuffo. “Bella festa comunque.”
Roxanne confermò con un cenno della testa. “Avrei
voluto godermela di più.”
Chiuse il fornello con un colpo della bacchetta e spedì la
padella a servirle
la colazione. “Essere
l’unica strega
sobria della serata mentre persino tuo marito ormai risponde nella sua
lingua
madre?” Scosse la testa con una smorfia. “Non
è divertente.”
“Sì, mi ricordo che ad un certo punto lo capiva
solo Ren. Ha dovuto fare da
traduttore.” Aggrottò le sopracciglia.
“A proposito, è ancora qui? È rimasto a
dormire?”
“È
stato l’ultimo ad
andarsene, prima ci ha dato una mano a mettere ordine nel caos che
avevate seminato.”
Rispose puntellando le mani sul ripiano dei fornelli.
“È un bravo ragazzo.”
Osservò.
Lily sorrise, sentendo un
piccolo, interno moto di trionfo.
L’altra notando la
sua
espressione sbuffò. “Okay, avevi
ragione.” Concesse. “Dion lo adora. Finalmente
qualcuno che sembra esser piombato come lui da un romanzo di cappa e
bacchetta.”
“Questi cavalieri
senza paura.
C’è da cadere fulminate, vero?”
Roxanne fece un mezzo
sorriso
schivo, il suo modo per mostrarsi innamorata senza venir meno alla sua
fama di
strega tutta di un pezzo. “Tu ne sai qualcosa.”
Ritorse, ma lo fece senza
troppi pensieri quindi Lily scrollò le spalle e le rispose
con lo stesso
sentimento.
“Già.”
Diede una forchettata
di pancetta e la masticò con voluttà
perché era ciò di cui aveva bisogno.
“Scott ha dormito
con te?” Le
chiese poi con uno strano tono di voce che Lily non riuscì
ad inquadrare.
Poteri
di LeNa e post-sbronza non vanno
d’accordo.
“Dove vuoi che
abbia dormito?”
Si strinse le spalle. “ È stato lui a portarmi a
letto.”
“Veramente no, non
ti ricordi?
È stato Sören, Scott ti ha seguita dopo.”
Lily ricollegò di
colpo le
braccia salde, ma non massicce che l’avevano cinta nel
dormiveglia, come le
mani bollenti che le avevano sfilato le scarpe per metterle
ordinatamente
accanto al letto – Scott le avrebbe lasciate sparse per la
stanza senza
preoccuparsene troppo, disordinato come e quanto lei.
“Oh.”
Non trovò di meglio da
dire. “Gentile da parte sua.”
“Gli sei finita sulle gambe mugolando che avevi sonno, che
avrebbe dovuto
fare?”
Lily pregò un
pantheon di
divinità magico-babbane di non star arrossendo,
perché il calore delle sue
guance e l’espressione sbigottita di sua cugina non erano un buon segno. “Che
altro ho fatto?” Chiese con tutta la
nonchalance che poteva simulare.
Oddio,
Scotty mi ucciderà. Cioè, non è
geloso, e lo sa
che divento espansiva quando bevo, però …
No,
chi prendo in giro, non è per Scott. È per
Sören.
Chissà cosa avrà pensato!
Roxanne
indossava un’espressione ilare
che pochi erano in grado di farle fare: lei e le sue cavolate ne
avevano la
palma. “Niente di tremendo.” La consolò.
“Era solo la tua solita sbronza con
carenze affettive.”
“Che avrei dovuto
evitare con
un ragazzo che non è il mio
ragazzo.”
Borbottò trai denti finendo quello che rimaneva del suo
succo. “Morgana, che
imbecille!”
Roxanne si strinse nelle spalle, mettendo poi a cuocere uno sterminato
esercito
di uova: avendo vissuto per un periodo della sua vita con quel goliarda
di
Freddy Junior aveva imparato a gestire l’alba del giorno dopo
meglio di
chiunque altro e dai rumori che si sentivavano per la casa –
imprecazioni e
lamenti - il resto della truppa si stava svegliando. “Da
quando ti fai
problemi?” Le chiese. “Perché mi ricordo
che la leggendaria pazienza del tuo
scozzese emerge soprattutto in questi contesti.”
“Ne parli come se
mi
ubriacassi e mi buttassi addosso a sconosciuti tutti i fine
settimana!”
“C’è stato un periodo in cui
succedeva.” Fu la replica impietosa. E veritiera.
“Da quando stai con Ross no, è vero, ma Prince non
è uno sconosciuto.”
“No.”
Seppellì la testa tra le
braccia in cerca di sollievo. “Certo che non lo è.
È proprio questo il punto.”
Siamo
amici … E dovrà accettare anche questo lato di
me, credo.
…
Dovrei mandargli un Gufo per spiegarglielo?
Era straniante fare quel
genere di pensieri; aveva amici maschi, ma non aveva mai dovuto
preoccuparsi
del fatto che il suo comportamento avrebbe potuto esser visto come
sconveniente
da uno di loro.
Forse
perché la metà sono tuoi parenti mentre gli altri
hanno un rapporto blindato con le loro ragazze. O ragazzi.
Il tedesco non si ascriveva
a
nessuna di quelle categorie; era un amico, puro e semplice.
E
questo rende tutto più complicato? Forse. Anzi, mi sa
di sì.
“Non dire
niente.” La avvertì
percependo che stava per arrivare una delle ramanzine per cui la cugina
era
famosa. “Perché so
che non mi
piacerà.”
“Stai facendo
tutto da sola.” Fu
la perfida replica. “Dico solo … Scott deve
preoccuparsi?”
Eh?
“Eh?”
Ripetè acutamente. La
risposta le fu risparmiata dall’ingresso scaglionato del
resto degli ospiti,
una piccola armata di zombie barcollanti e poco comunicativi.
Scott, l’ultimo a
chiudere la
fila, le si sedette accanto, con un’aria così
terminale che non ebbe cuore di
farci ironia. Gli versò piuttosto una dose massiccia di
caffè per passargli poi
le dita trai capelli schiacciati dal cuscino. “Buongiorno
bellissimo.” Non potè
fare a meno di motteggiare. “Come ci sentiamo?”
“Domanda di
riserva?” Borbottò
strofinandosi le mani sul viso. “La prossima volta toglimi la
birra di mano,
sul serio piccola. Costringimi fisicamente
a non bere.”
Rise sollevata perché sembrava che l’altro non
avesse registrato nulla di
sconveniente la sera prima.
O
mi terrebbe il muso.
Potere in post-sbronza o
meno,
Scott era sempre meravigliosamente semplice da leggere; era una delle
cose più
amava di lui. “Promesso ragazzone.”
“Tu non dovresti
neanche
essere qui e in ‘ste condizioni, c’hai dieci anni.
Gail e Gus dovrebbero
mettere un Incanto della linea dell’età
all’ingresso del pub … Che diavolo.”
Diceva
intanto Hugo rivolto a Meike, la quale esibiva degli strategici e
preoccupanti
occhiali da sole.
“Ma falla finita,
sto messa
meglio di voi vecchiacci.”
“E gli occhiali da
sole?”
“Sono
fotosensibile.” Replicò
con un sussiego che sembrava aver copiato da Tom, mentre si sedeva
afferrando
pezzi di toast a manciate. “E se lo dici a vati
ti tolgo il saluto.”
“Dai cugino,
abbiamo bevuto
succo di zucca fino a quando non ha schiodato assieme a Sissy. Non
rovinare
tutto!” Le fece eco Louis sprofondando le dita nella massa
incolta dei propri lunghi
ricci prima di reclinare la testa sullo schienale della sedia.
“Sono troppo
bello per morire Maledetto da quel paz-ahia!”
Piagnucolò quando la serpeverde gli tirò uno
schiaffò velenoso sulla nuca.
“Sta’ al
tuo posto,
tassoscemo.”
“Sei perfida Serpico, mi fa male la testa!”
“Perché,
ne hai una?”
“Meike
è minorenne e Tom, che
Morgana abbia pietà delle nostre anime, è il suo
tutore legale quindi dovrebbe
saperlo.” Sospirò Rose
tenendosi una mano sulla fronte ed ignorando il bisticciare dei due
adolescenti.
“Non è
già abbastanza brutto
svegliarsi così?” Sbuffò Hugo.
“Possiamo evitare?”
“Infatti. Meike
non è mai
stata qui.” Borbottò mentre la quindicenne annuiva
allegramente. “Sul serio, parliamo
piano, mangiamo, prendiamo le dovute pozioni e fingiamo di non stare
morendo,
okay?” Si guardò attorno e poi
localizzò Scorpius con un lamento scornato.
“Fatemi capire, il mio promesso sposo è
l’unico demente che dorme per terra?”
La risposta di Dionis fu in
rumeno e nessuno si prese la briga di tradurla.
La colazione si svolse in un
ruminare di mascelle e qualche commento o battuta smorzata dando
così la
possibilità a Lily di distrarsi dalla conversazione avuta
mentre la WWN
trasmetteva a basso volume un successo piuttosto azzeccato.
Sunday morning and I'm falling
I've got a feeling I don't want to know
Perché la mattina
del giorno
dopo si doveva declinare solo così.
Non
pensando.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Casa di James Potter e Ted Lupin, mattina.
James rotolò sul
fianco e
scoprì che tutto quello che rimaneva di Teddy nel loro letto
era la forma sul
cuscino. Aprendo gli occhi realizzò che il tatto non
l’aveva ingannato: si era
svegliato da solo.
Ma
che cazzo…
Perplesso si rese anche
conto
che la sveglia digitale che aveva comprato al professorino
per buttarsi giù dal letto durante l’anno
scolastico
segnava le nove di mattina.
Da
quando Teddy si sveglia prima delle undici? Siamo in
estate!
Era una faccenda bizzarra e
in
quanto tale, da auror, era suo dovere investigarla. Si alzò
e beatamente senza
vestiti cominciò a girare per la casa alla ricerca del
proprio compagno; c’era
qualcosa di glorioso nel poter stare con le chiappe al vento senza
doversi per
questo beccare reprimende materne o battutacce fraterne.
Adoro avere
una casa mia.
La sera prima era stata
…
rilassante. Aveva evitato di ingozzarsi di alcolici come Malfoy e i
cugini e si
era dedicato completamente all’altro, ignorando i richiami
alla goliardia
sfrenata che provenivano da ogni dove; aveva avuto i suoi momenti pazzi
e
sapeva quando rinunciarvi quando era il caso.
I suoi sforzi erano stati
ripagati, dato che l’altro era riuscito finalmente a
togliersi le ombre dallo
sguardo e persino a ridere e divertirsi.
Trovò Ted in
salotto, di
fronte allo specchio vicino all’ingresso, preso ad
allacciarsi la cravatta,
accessorio che metteva solo in rarissime occasioni.
Okay.
Eh?
L’intera storia
stava assumendo
contorni inverosimili.
È
in vacanza! Che sta succedendo?
“Teddy!”
Lo richiamò all’ordine. “Stai
uscendo?”
L’altro si
voltò e per un
secondo, mentre lo guardava in tutta la sua ovvia
bellezza statuaria, i capelli sfumarono nel rosso. Poi si
schiarì la voce. “Vestirti
immagino non sia contemplato…” Osservò.
“Buongiorno Jamie.”
“Buongiorno.” Replicò urbanamente.
“Fa troppo caldo e non abbiamo ospiti che
possa traumatizzare con la mia vigorosa virilezza.”
“Virilità.”
Lo corresse reprimendo un
sorrisetto da professorino stronzo. “Ti ho lasciato la
colazione in caldo, uomo
virile.”
“Sarà il caso … Dove stai
andando?” Si avvicinò e gli afferrò la
cravatta, sia
per stuzzicarlo sia per impedirgli seriamente di mettere piede nel
camino, visto
come lo occhieggiava irrequieto. “Odio svegliarmi e non fare
sesso la domenica.
È una bestialità!”
“Lo dici trecentosessantacinque giorni
l’anno.” Gli fece notare passandogli un
braccio attorno alla vita e baciandogli la testa affettuosamente. Il
modo in
cui gli passò un dito sul tatuaggio lungo il collo fu invece
molto meno innocente. “Non
volevo
tirarti giù dal letto, so che è
presto.” Alla sua occhiata perplessa, aggiunse.
“Ho un appuntamento al Ministero.”
“Di domenica? Chi
è l’idiota
che lavora di domenica?”
“È un favore che ho chiesto ad un mio ex-compagno
di Casa.” Gli spiegò.
“Malcolm Whitby, ti ricordi?”
“L’ex di
Lenny?” Aggrottò le
sopracciglia ma non espresse commenti, anche se per colpa di quel
coglione
dalla mascella enorme cinque anni prima avevano quasi mandato al
diavolo ogni
ipotesi di convivenza; era amico dell’altro ma morisse se
riusciva a farselo
piacere. “A proposito di cosa?”
Ted lo guardò
impaziente, ma
la sua incapacità di eludere una domanda ebbe la meglio
ancora una volta. “Devo
parlare con un funzionario della Divisione Bestie per la faccenda di
Ben.
Voglio scoprire qualcosa in più … Sai che ogni
Mannaro è registrato al
Ministero, no?”
James si dovette mordere la lingua per non fare una smorfia scontenta;
Ted
aveva passato una bella serata grazie a lui, sì, ma non si
era affatto tolto quel peso dalle
spalle.
Lo
ha solo posato per un momento. Cavolo.
“Vuoi che ti
accompagni?”
Tentò perché anche se tutto quello che voleva
fare era divorare la colazione e
strisciare di nuovo a letto non poteva sottrarsi ai suoi doveri di
compagno
suppportivo.
L’altro scosse la
testa. “No,
fa’ colazione e torna a letto … Potrei dover
aspettare un bel po’ senza fare
niente. So che odi le sale d’attesa.”
“Con tutta la mia dannata anima.” Convenne
sollevato che l’altro avesse capito
l’antifona. “Sicuro?”
“Sicuro.”
Gli diede un leggero
pizzicotto sul sedere che lo fece sobbalzare infastidito e gli piacque
in egual
misura. Il dannato Tassorosso lo sapeva.
“Cercherò di sbrigarmi, te lo prometto.”
“Ti conviene,
perché questo …”
Si indicò in basso in maniera impertinente
“… non resterà in vetrina a
lungo.”
L’altro
inarcò le
sopracciglia, mentre gli occhi sfumavano – letteralmente dato
che era un
Metamorfomago – in una sfumatura nera e densa. “La
tua propensione al nudismo
non è cosa di oggi però.”
Constatò. “Problemi?”
“Non di quelli
spiacevoli.”
Ridacchiò prima di baciarlo. James sapeva che tutta quella
tranquillità d’animo
apparente nascondeva in realtà un lavorio interiore da
paura, ma preferì glissare.
Se
gli rompessi l’anima non sarei tanto diverso da una
fidanzatina rompicoglioni. E se c’è qualcuno che
lo è, qua, nossignore, non
sono io.
…
Non mi facesse preoccupare ci crederei di più, cazzo.
Lo lasciò andare
dandogli un
pugno giocoso sulla spalla. “Tempo contato, Teddy. Torna a
casa presto.”
Che razza di domenica era,
altrimenti?
****
Diagon
Alley, Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Mattina.
Albus sorrise quando
sentì le
labbra di Tom sfiorargli la nuca in un bacio leggero. Nel stato di
dormiveglia
in cui si trovava al mattino si scopriva spesso ad apprezzare quanto
ormai
fosse naturale levare la mano e sentire la guancia liscia di rasatura
dell’altro.
“Se è
l’alba ti ammazzo…” Bofonchiò
comunque, inarcandosi in un delizioso sfregamento contro il tessuto
spugnoso
dell’asciugamano che l’altro indossava.
“È domenica, è il mio giorno
libero.”
“L’unico giorno in cui puoi celebrare la tua
accidia.” Replicò con un mormorio
di una significativa ottava più bassa. Quel tono era capace
di mettere sull’attenti
ogni suoi singolo ormone. E altro.
“Svegliati
e renditi utile. Sono già le nove e mezzo.”
Le
nove e mezzo? Di domenica non esistono
le
nove e mezzo.
“Non sono la sua geisha, Signor Dursley.”
Sbuffò schiacciando il viso
contro il cuscino. “Dico sul serio, dovrai far meglio di
così per convincermi
ad alzarmi.”
La risposta – e
dovette
ammettere che se l’era cercata – fu una mano
congelata che gli si piazzò sul suo
povero e sensibile interno coscia. Con uno schizzo fu a sedere.
“Tom! Come diavolo fai ad
avere le mani
gelate a Luglio?”
Piagnucolò
tirandosi le coperte al petto come una scolaretta pudica e
traumatizzata.
Il bastardo, in tutto il suo
splendore di pelle pallida ed espressione malvagia,
sogghignò con la pigrizia
di un gatto assopito sul davanzale. “Cattiva
circolazione?”
“Spero tu muoia
d’infarto
allora.” Grugnì tirandogli un cuscino fiaccamente.
“Di solito la gente sveglia
la propria dolce metà con una colazione a letto! Non con una
mano da cadavere
tra le gambe!”
L’altro inarcò le sopracciglia. “Io non
sono la gente.”
Osservò. “Comunque hai ragione. Ho fame.”
“Dov’è Mei? Non ti ha preparato
qualcosa?”
“Ieri sera
è rimasta a intossicarsi
a casa di tua cugina Roxanne in compagnia di quel debosciato di
Louis.” Spiegò contrariato,
come se la quindicenne gli avesse fatto un torto personale a non
essersi
presentata padella alla mano al suo risveglio.
Chioccia
pretenziosa.
Albus sospirò,
liberandosi
delle coperte e dirigendosi verso il bagno. “Metti su almeno
il the, vuoi?” Lo
apostrofò. Aprì poi l’acqua calda della
doccia, liberandosi con un paio di
lanci mirati della maglietta e dei boxer. Sogghignò quando
sentì un ringhio
provenire dalla stanza, la cui porta era stata lasciata aperta; Tom
odiava che
seminasse roba in giro quanto odiava che gli finisse in testa.
Centro.
Non fece in tempo ad entrare
nel vano doccia che si sentì voltare e schiacciare contro il
muro opposto. Con
una risata trai denti intrecciò le dita trai capelli lisci
dell’altro, di nuovo
bagnati dal getto d’acqua che scorreva su di loro.
“Non avevi
già fatto la
doccia?” Chiese tirandoselo contro. “Non ti senti
mai un po’ maniaco ad
insidiarmi così?”
“No.” Fu
la risposta immediata
come immediato fu il passargli le mani lungo il basso schiena,
esplorando e
causandogli un gemito di intenso apprezzamento. “Non quando
sei così
consenziente.”
Touché.
Non era sciocco,
né si
riteneva tale; aveva capito che il comportamento di Tom in quei giorni
era
sintomo di qualcosa.
L’attacco
al San Mungo. Sì, certo, anche. Ma non solo.
La testa della
metà della sua
anima era un susseguirsi rutilante di piani, congetture e modi per
volgere a
favore ogni situazione: era fatto così sin da bambino.
Calcolatore
come un politico di professione …
Non si sarebbe stupito se al
momento si fosse trovato nel bel mezzo di una delle sue macchinazioni,
se
non il suo centro.
Ma
finché questi sono gli effetti, perché
lamentarsene?
Aveva imparato che cercare
di
indagare nelle intenzioni dell’altro fosse spesso sterile,
oltre che nocivo
dato che Tom, se pressato in richieste di spiegazioni, finiva sempre
per
giocare in difesa.
Me
lo dirà. O se lo lascerà sfuggire ed io lo
capirò.
Stessa cosa.
“Perfetto,
moriremo di fame…”
Mormorò soffocando un ansito quando la lingua
dell’altro scivolò lungo il
collo, sulla clavicola e sempre più in basso.
“Questo o un giorno finiremo per
divorarci a vicenda.”
Lo sentì sorridere. “Come adesso?”
Il rumore di qualcosa che
sbatteva contro la finestra del bagno attirò la sua
attenzione mentre era preso
a cercare di dare una forma passabile ai suoi capelli dopo che
l’altro ci aveva
passato le dita innumerevoli volte.
Sesso
mattutino. Grandioso, ma tremendo per i miei
capelli.
Tom, ora impeccabilmente
vestito, gli lanciò un’occhiata mentre asciugava
meticoloso la doccia, onde
evitare che rimanessero aloni sul vetro. “Apri, o quel
dannato Gufo la
sfonderà.”
“Questa tua malattia ha un nome, sai?”
Indicò il vetro della doccia e il modo
in cui l’altro ripiegò millimetricamente il panno
che usava esclusivamente per
quello scopo.
“Avere una mente
organizzata?
So che il concetto ti è estraneo.”
“No, essere
ossessivo -
compulsivi.” Ritorse andando ad aprire la finestra: il
volatile, non appena
sciolta la lettera dalla sua zampa, volò via. Doveva essere
una raccomandata
ufficiale se non aveva tentato di cavargli un occhio per avere un
croccantino.
Aveva
l’aria affamata quanto e più di me.
Lesse il contenuto e di
colpo
essersi svegliato a quell’ora disgraziatamente mattiniera
ebbe un senso.
“Esco.” Comunicò. “Ti faccio
arrivare la colazione a casa, se vuoi. La prendo
da Fortebraccio?”
Tom aggrottò le
sopracciglia,
spiando sopra la sua spalla. “Da dove viene?” Si
informò con noncuranza, salvo
prendergliela di mano per leggerla. “Dal San
Mungo.” Realizzò e il conseguente
tono di voce sembrò provenire dagli abissi. “A
quanto pare ci sei riuscito, il
Sergente Flannery è tuo paziente.”
“Non è mio, è di Sam e del Guaritore
Smethwyck.” Replicò aggiustando alla
bell’è meglio i capelli. “Io sono solo
un tirocinante, mi limiterò ad
assistere. Ci sono degli sviluppi … è positivo
che me lo abbiano fatto sapere!”
“Congratulazioni.”
Albus si morse la lingua, perché ad un tono del genere non
si poteva rispondere
che con un insulto o un silenzio offeso. Per buona pace comune non fece
nessuna
delle due cose. “Tornerò per pranzo,
okay?” Cercò il suo sguardo e non si
arrese finché non l’ebbe trovato. “Non
vorrei perdermi le polpette di zia
Robbie per niente al mondo!”
La risposta fu lasciarlo
senza
risposta, mentre marciava in direzione della sua scrivania.
Prima di uscire si
fermò a
salutarlo e lo trovò irrigidito e piuttosto ostile tra tomi
di libri e una
tazza di caffè fumante. “Ci vediamo a
pranzo.” Ribadì. “Avverti i tuoi che
arriverò per via camino … L’ultima
volta ho sbattuto la faccia contro il
parafuoco e mi sono quasi rotto il naso.”
La risposta un borbottio non impegnativo. Gli baciò la testa
asciutta, a
differenza della sua, e scappò via.
****
Londra,
Ministero della Magia.
Mattina.
“È
permesso?”
“Se riesci ad entrare!”
La frase che gli venne rivolta era assurda, ma dato che era evidente
che dietro
la targa di vernice scrostata che indicava
“l’ufficio relazioni con i Mannari” ci
fosse qualcuno, Ted obbedì. Se ne pentì
immediatamente, dato che gli finì
addosso un quintale buono di pergamene di vario genere e taglia.
Abituato alla
sua stessa goffaggine riuscì a rinculare ed evitare quindi
la commozione
cerebrale, spalmandosi contro la porta.
Che
diavolo!
Gli
sembrava di essere appena capitato
nell’occhio di un ciclone, a giudicare dalla
quantità di carta, foto e referti
sparsi per la stanzetta angusta. A questo si aggiungevano un vecchio
divano
sfondato e scatole di cibo take-away disseminate ovunque. Sorvegliava
tutto
dall’alto un ventilatore attaccato al soffitto.
Merlino,
questo posto sembra una discarica…
Neppure nei suoi momenti
peggiori di disordine aveva mai visto niente del genere.
“C’è
nessuno?” Chiese
facendo qualche passo incerto trai
detriti.
“Ehi!”
Emerse la stessa voce
di prima, stavolta alle sue spalle, facendolo sobbalzare. “Tu
devi essere Lupin!”
Si voltò e si
trovò di fronte
una ragazza asiatica sulla trentina, viso tondo e ispidi capelli da
porcospino
incorniciati da un paio di occhiali dalla montatura squadrata. Sembrava
spuntata dal nulla, ma probabilmente era emersa da uno degli scaffali
strabordanti in cui era diviso l’ambiente. “Io sono
Flynn Lin.” Si presentò
tendendogli la mano e stringendogliela con una forza degno di nota per
una
persona tanto minuta. “Non ti ricordi di me, vero?”
“Hogwarts?”
Tentò per andare
sul sicuro.
“Mai andata,
educata a casa.”
Inarcò le sopracciglia quasi trovasse sconcertante che non
avesse memoria della
sua persona. “Conferenza sui diritti dei lupi mannari, a
Brighton, nel 2004.
Eri un ragazzino in uniforme scolastica e con i capelli blu, come
quelli che
hai adesso.” Indicò la sua testa.
“Più brillanti però.”
Ted sorrise imbarazzato.
“Mi
dispiace, non sono famoso per avere una memoria di ferro.”
“Si vede!” Esclamò senza
nessun
riguardo. Gli ricordò un po’ le sparate del suo
James e questo lo rilassò: non
era bravo con gli estranei che non fossero studenti.
Se
parlano tanto e senza filtri un po’ aiuta.
“Malcolm ha detto
che sarei
passato?” Preferì stornare. “Spero di
non averti disturbato.”
“Sì, sì.” Si
grattò la testa con la piuma che teneva in mano dalla parte
del
pennino. I capelli neri come inchiostro probabilmente lo mascheravano,
l’inchiostro. “E no, non hai interrotto niente,
siediti!” Lo invitò e Ted si
trovò nella disagiante posizione di non sapere dove.
“Sto bene
così.” Non trovò di
meglio da dire. “Ti ha detto perché sarei venuto?
“No, per niente ma
non importa
…” Lo stupì. “Mi ricordo le
tue domande a quella conferenza. Facesti nero
il relatore.” Ghignò allegramente.
“Quando ho capito chi eri, ehi, mi
casa
es tu casa.”
Ted esitò a
quella
dimostrazione di simpatia. “Mi dispiace, proprio non mi
ricordo di averti
conosciuta…”
“Ah, ma quello
perché non ci
parlammo neanche, schizzasti fuori appena finita la conferenza, penso
per tornare
a scuola. Riuscii a capire solo che eri uno schianto.” Gli
lanciò una
panoramica sfrontata, anche se meno invasiva di quelle che subiva da
alcune
alunne intraprendenti o dalle loro – ahimè
– madri. “Lo sei ancora, per inciso.
Da come ti vesti però mi sa che sei uno di quelli che non se
ne rende conto,
eh?”
“Io…”
Si schiarì la voce,
tentando miseramente di non arrossire; quando aveva chiesto
all’ex compagno di
Casa di fargli parlare con il funzionario capo dell’ufficio
Licantropi aveva
pensato ad un vecchio e accidioso ministeriale con cui avrebbe dovuto
accapigliarsi,
non una ragazza dalla parlantina sconcertante.
Il
mondo è pieno di sorprese.
Doveva fare in modo di
volgere
quella situazione in positivo però, perché al di
là delle battute, Flynn Lin
sembrava bendisposta verso di lui. “Mi ricordo che anni fa in
questo ufficio
c’era un certo Morrison.” Cominciò
alla
lontana.
“È
andato in pensione cinque
anni fa.” Scrollò le spalle voltandosi per cercare
qualcosa nel mucchio
selvaggio che la circondava. “Adesso sono io a capo
dell’ufficio … l’unica
dipendente di me stessa!” Si voltò per strizzargli
l’occhio. “Non è un lavoro
che la gente smania di avere, come puoi immaginare.” Fece un
sorrisetto amaro e
Ted si trovò a condividerlo; conosceva bene il poco
interesse che la Comunità
magica nutriva per i Mannari.
Solo
una cinquantina di elementi, un unico branco e per
giunta confinato in una zona sperduta del Galles.
Niente
di cui preoccuparsi, niente di cui interessarsi.
“Come mai ti sei
interessata alla
materia?”
La ragazza, dopo aver
saltato
un basso tavolinetto ingombro di confezioni vuote di asporto thai, si
stravaccò
sull’unica poltrona della stanzetta che non fosse invasa da
qualcosa. “Mio
nonno.” Esordì. “Morso quando aveva
diciassette anni.” Fece una risatina alla sua
espressione sorpresa. “Non hai mai conosciuto un altro figlio d’arte come
te?”
“No.”
Ammise. “Pensavo…”
“Di essere il solo mago con dei parenti Mannari?”
Scrollò le spalle. “Non siamo
abbastanza neanche per una squadra di Quidditch, è vero, ma
lo siamo per essere
annotati su questi quadernoni qua.” Indicò con un
cenno della mano una serie di
registri impilati su una mensola sopra la sua testa. Ted li
ricordò con una
certa amarezza; la prima e l’unica volta che era stato in
quell’ufficio era
stato prima del suo ingresso ad Hogwarts. Sua nonna aveva dovuto
portarlo lì per
dimostrare che non era affetto dalla Licantropia.
Con
tanto di certificato del San Mungo alla mano… Nonna
sprizzava scintille dalla bacchetta.
“Ibridi…”
Fece una smorfia:
era quello il modo in cui quelli come loro venivano registrati al
Ministero,
per via di una legge che neppure l’illuminata guida di
Shacklebolt era riuscita
ad abrogare, non con un’opinione pubblica ancora ostile a
quel morbo spaventoso.
Anche
se sei portatore sano e non ululi alla luna,
anche se nessuno ha mai chiesto di consultare questi registri
… Per essere
ammesso ad Hogwarts come studente devi presentare un certificato di
sana
costituzione.
Certo, compiuta la maggiore
età c’era la possibilità di richiedere
la cancellazione del titolo nei propri
documenti ufficiali, ma lui non l’aveva mai fatto.
È
un monito. Un monito a quanto può diventare orribile
la tua realtà quando ti credono tutti un diverso.
“Tu …
sei…” Sondare
quell’argomento era difficile: molti figli di Mannari erano
portatori sani di
Licantropia come lui…
Altri
non sono stati così fortunati. Altri sono nati
malati.
La strega intuendo il suo
pensiero gli sorrise. “Sono portatrice sana, come te.
Ma…” Prese
la bacchetta e se la puntò al viso: le
iridi scure sfumarono in un oro inconfondibile.
“Atavismo.” Spiegò. “Li
Trasfiguro quasi sempre … Certi colori danno alla gente idee
sbagliate.” Fece
una pausa, quasi si fosse ricordata di qualcosa. Del filo del discorso,
forse.
“Comunque per rispondere alla tua domanda, i Mannari sono letteralmente la mia famiglia. Mio nonno
ha vissuto con loro fino a
quando ha conosciuto mia nonna. Storia avvincente, un giorno te la
racconto.”
Inclinò la testa da un lato. “Ma anche tu hai
belle storie, no? Il figlio di
Remus Lupin, eroe di guerra!”
“Magari
un’altra volta.”
Non
adesso.
L’altra
capì l’antifona perché
cambiò discorso. “Allora, il buon vecchio Whit
è il mio imbrattacarte preferito, e visto che gli devo
riportare metà di questa
roba da … parecchie
lune, sono
piuttosto propensa a farmi corrompere per aiutare un suo
amico.” Lo indicò con
un cenno della mano. “Specie se poi è uno come
te.”
“Come
me?”
“Morgana, sei
tonto!” Sbottò
incredula. “Hai idea di quanto sia difficile parlare con un
ragazzo carino da
queste parti? Vecchi in gonnella, ne siamo pieni!” Scosse drammaticamente la testa.
“Dopo ti prendi un
caffè con la sottoscritta.”
Alla
faccia dell’essere diretti!
Ted non sapeva se mettersi a
ridere o spaventarsi di quell’atteggiamento senza peli sulla
lingua. Era
propenso verso la prima ipotesi: essendo stato cresciuto dal clan
Weasley era abituato
a certe sparate. “Se è solo un caffè
volentieri, altrimenti devo avvertirti che
sono già felicemente impegnato.” Non ci
girò attorno. “Con un meraviglioso
ragazzo di nome James.”
La strega roteò
gli occhi al
cielo, come se gli avesse appena detto di avere una moglie e due
gemelli in
arrivo. Apprezzava persone del genere: non ce n’erano mai
abbastanza, neppure
nel Mondo Magico. “Grandioso.”
Fece
un sospiro profondo. “Grazie per la chiarezza comunque. Non
avrei potuto parlar
di cose serie pensando di spogliarti sulla scrivania.” Non
aspettò di vederlo
recepire la frase che tornò di colpo seria.
“Parliamo d’affari?”
Frastornato da quel
repentino
cambio di discorso si limitò ad annuire; doveva essere
un’impresa star dietro
ad una strega come quella, etero o meno. “Sono qui per
chiederti un favore…”
Esordì prendendo un grosso respiro.
“Oh, non sei il primo, sai.” Lo fermò
divertita. “Che tu ci creda o no, persino
in questo buco dimenticato dal Ministero la gente viene a
scocciare.”
“Di solito i
favori di che
genere sono?”
La strega scrollò
le spalle.
“Il più delle volte è gente che vuole
che confermi che c’è un Mannaro nella sua
zona per poter avere la possibilità di sparare incantesimi
al primo bersaglio
mobile quando si fa notte. Non hanno la licenza di caccia e sperano di
cavarsela mascherandosi da vigilanti dell’ordine
comune.”
“Ma l’unico branco…”
“È stanziale in Galles, lo dici a me?”
Rise, ma poi le pupille, che erano
rimaste dorate, si posarono rapidamente su di lui, taglienti e dirette
come
quelle di un lupo. “Però Whitby mi ha detto che tu
un Mannaro te lo sei davvero
trovato dietro casa.”
“Sì, ma è morto.” Strinse i
pugni per impedire ai ricordi e ai sensi di colpa
di togliergli le parole di bocca.
La strega lo
scrutò con quelle
disagianti iridi gialle. “Sono sicura che hai fatto tutto il
possibile per
aiutarlo.” Disse alla fine.
“Come fai a
saperlo?” Gli uscì
fuori più stizzito di quanto avesse voluto. Era il
retrogusto amato della
speranza.
Di
poter essere perdonato. Da chiunque.
“Istinto?”
Suggerì scuotendo
la testa. “Sembri un bravo ragazzo e Malcolm mi ha parlato
bene di te. Poi voi
Tassorosso non lo siete tutti?”
Ted suo malgrado distese le
labbra in un sorriso. “Così dicono.”
“Avanti, Lupin,
togliti il
peso dallo stomaco. Di cosa hai bisogno?”
“Voglio poter
parlare con
qualcuno del branco.” Inspirò. “Voglio
sapere chi era il Mannaro che mi è morto
tra le braccia, sapere se c’era qualcosa da cui è
scappato, o con cui stava
scappando.”
Flynn batté le palpebre. “Credo di non seguirti
… qualcosa con cui stava
scappando?”
Ted le espose
così i fatti,
nudi e crudi, senza mediare o cercare giustificazioni. Aveva bisogno di
chiudere quella storia, non soltanto per Ben – se quello era
il suo nome – ma
soprattutto per sé stesso.
Non
posso più tornare indietro, quindi devo andare
avanti.
“… per
riassumere, non sai
cosa Ben ha lasciato nella grotta perché i Centauri non ti
fanno entrare nella
foresta dopo che te la sei presa con loro. Se sapessi
cos’è pensi che
riusciresti a convincerli a farti passare.” Flynn concluse
per lui. “Sempre
stati permalosetti, quelli là.”
Si
grattò di nuovo la testa con la piuma, meditabonda.
“Certo, posso organizzare qualcosa
se mi dai un paio di giorni … ma penso che sia meglio se
sono io a far da
tramite. Sono abituati a me, conoscono il mio odore.”
“Voglio esserci anch’io.” Su questo
sarebbe stato irremovibile. “Per favore.”
La strega sospirò. “Se è importante
… potrei far venire qui Moscardo. È il vice
di Vulneraria, l’attuale capobranco. Non dovrebbe fare troppe
storie, è un tipo
alla mano … Ben hai detto?”
“Credo
si chiamasse Ben.” Ammise. “È
l’ultima cosa che mi ha detto
prima di morire, il suo nome … ho pensato si trattasse del
suo nome.” Riflettè
su un pensiero che l’aveva colto più di una volta
in quei giorni. “Pensi che si
riferisse a qualcun altro?”
“Beh, un Mannaro
dopo La
Rinascita perde la sua identità di mago e di essere
umano.” Osservò Flynn
grattandosi il mento. “Via il nome, via la bacchetta, via la
tua vecchia vita.
Credimi, dovendo tenere i loro registri anagrafici lo so bene
… È davvero come
se nascessero una seconda volta.” Si voltò e prese
un paio di grossi faldoni
polverosi da sotto quello che sembrava un ficus malcurato.
Evidentemente c’era
un metodo in quel caos. “Queste sono le anagrafiche. Ci sono
le foto, dagli uno
sguardo e vedi se lo trovi.”
Ted non dovette penare molto per trovare ciò che cercava.
Dopo una ventina di
pagine e fotografie isolò Ben; in foto sembrava meno patito
e privo di barba,
ma indubbiamente era il Mannaro che l’aveva attaccato.
“È lui.” Disse indicando
la scheda. “Sono sicuro.” Lesse poi il nome vergato
in inchiostro sbiadito,
vecchio di decenni. Lesse e
sbatté le
palpebre stranito. “Lunastorta?”
Chiese. “Si chiamava Lunastorta?”
Era
il soprannome di mio padre.
Era una coincidenza
così
curiosa che lo fece rimanere senza parole.
Flynn si sporse oltre la sua spalla per guardare. “Ah,
sì … te l’ho detto, si
ribattezzano. Nel suo caso non ne ha neppure avuto bisogno.”
Scorse con lo
sguardo la scheda e poi annuì. “Come pensavo,
è nato nel branco e non ha mai
avuto un nome da essere umano.” Aggrottò le
sopracciglia. “Non mi ricordo di
averci mai parlato, doveva amare starsene sulle sue.”
“Non li conosci tutti?”
“In teoria. Nella
pratica no.”
Si strinse nelle spalle. “Ho buoni rapporti con Moscardo, e i
cuccioli sono
quelli più curiosi, ma il resto del branco quando vado a
fare le ispezioni
mensili neanche si fa vedere.”
Ted rimase in silenzio,
assimilando le informazioni sconcertanti che gli erano appena state
date.
Ben
ha conosciuto mio padre? Sembrava avere poco più
della mia età, all’epoca doveva essere un bambino
di massimo uno, due anni.
Perché
ha il suo nome?
Lo sguardo della strega
andò
alla foto e poi a lui. “Qual è il
problema?” Indovinò.
Glielo disse e
l’espressione
dell’altra sembrò più confusa di lui.
“Se tuo padre ha vissuto con il branco
all’epoca di Greyback…” Si
fermò di colpo con un’espressione nello sguardo
che
non riuscì a decifrare. “Beh,
può essere
che Moscardo se lo ricordi … è una specie di
vecchio saggio della comunità. Potrebbe
sapere perché quel Mannaro si chiamava come il tuo
vecchio.”
Ted annuì, e mentre guardava la foto di Ben – o
meglio, Lunastorta - sentì lo
stomaco stringersi in una morsa. Aveva come l’impressione di
essere incappato
in qualcosa di più grosso di un Mannaro morto.
****
Surrey, Little Whining.
Privet
Drive n°4, Dopo pranzo.
“Cos’è
quel muso?”
Tom alzò la testa
per
incontrare gli occhi scuri e sempre troppo truccati – secondo
i suoi gusti – di
sua sorella Alicia. La ragazza era appoggiata al tronco
dell’albero su cui una
volta era appesa l’altalena della sua infanzia e adesso un
più classico dondolo
su cui si era sdraiato per leggere.
“Non capisco a
cosa tu ti
riferisca.” Le fece eco tornando al suo libro.
L’altra non si fece
impressionare e gli si sedette senza troppe cerimonie sulle gambe.
“Alicia.”
“Invasione degli spazi personali? Oh, povero
bimbo!” Ghignò beffarda. “Senti,
hai a malapena spiccicato due parole in croce per tutto il pranzo. Non
che di
solito tu sia un chiacchierone…” Inarcò
le sopracciglia spingendo il dondolo in
un irritante movimento ondulatorio. “… ma visto
che ci degni della tua augusta
presenza potresti almeno essere socievole.” Fece una smorfia
espressiva. “Per
mamma, sai.”
Tom serrò le
labbra tra di
loro; sua sorella non aveva tutti i torti. Il suo umore era talmente
pessimo
che era dovuto scappare dal salotto
per non esplodere in qualche commento acido all’ennesima
battuta stupida di
Vern o alle domande piene di buone intenzioni ma troppo pressanti di
Robin.
L’unico che sembrava aver capito che vento tirava era stato
suo padre.
Alicia si accese una
sigaretta
e reclinò la testa sul legno dipinto dello schienale.
“Momento confessione?”
Spiò dandogli una pacchetta sul ginocchio. “Non
dirmi che è per via di Albume.”
“Non chiamarlo così.” Sbuffò
al nomignolo infantile, prima di ricordarsi che ce
l’aveva con lui e che quindi non avrebbe dovuto aver voglia
di difenderlo. “E
non pretendere di sondare i miei umori.”
“Oh, qui lo facciamo tutti da una vita, è
diventato lo sport di casa, piccolo
principe viziato.” Alzò gli occhi al cielo.
“È perché non è riuscito a
farcela
per pranzo?”
La domanda non valeva neppure una risposta.
No,
perché è un bugiardo.
“Sai fratellino,
sei adorabile.”
Se ne uscì fuori e fu piuttosto insultante. Adorabile
lui? “Metti il broncio perché perdi di
vista il tuo preziosissimo Al per
qualche ora?” Ignorò la sua occhiata linciante e
continuò. “Non doveva
lavorare? È una specie di medico magico, no?”
“Un Guaritore, ed
è solo un
assistente.” Avrebbe davvero voluto
addentrarsi
nel nuovo romanzo che l’altra gli aveva prestato: aveva a che
fare con troni,
spade e personaggi deliziosamente perfidi, proprio il suo genere, ma
sembrava ci
fosse modo per liberarsi delle attenzioni non richieste di
quest’ultima. “Sto
leggendo.” Tentò.
“Se non mi dai retta ti dico come finisce.” Vedendo
che non cedeva ghignò
malvagia. “Muore uno Stark.”
“Ti ammazzo.”
“Gnègnè.”
Fu la replica significativa.
“Avanti, che è successo? Non me ne
andrò finché non me lo dirai!”
Se
Meike fosse qui sarebbero in due. Non pensavo
l’avrei mai detto, ma … grazie a Dio deve ancora
smaltire la sbornia.
“Al aveva promesso
di venire a
pranzo e non è venuto.” Buttò fuori
malmostoso.
La ragazza fece una risatina che le sarebbe valso un calcio se solo
fossero
stati ancora bambini; come sua madre, era a conoscenza del fatto che la
sua
convivenza con Al poco aveva a che fare con la virile amicizia e molto
con il
mettersi le mani addosso, ed esattamente come l’altra aveva
accolto la notizia
come se l’avesse sempre saputo.
Perché
uscire fuori dall’armadio se non ci siamo
apparentemente mai stati?
“Confermo, sei
adorabile.”
Ghignò.
“Lasciami in
pace.” La
apostrofò sentendosi ridicolo e pienamente scontroso.
“Va’ a postare foto di
dubbio gusto sui venti social network che infesti.”
Sopportò
stoicamente lo
schiaffo che gli arrivò sulla gamba. “Sei il
solito stronzo, Dio solo sa come
fa Al a sopportarti tutto il giorno!” Esclamò
esasperata per poi alzarsi di
colpo. Era un record che, con il temperamento che aveva, fosse rimasta
a
cercare di farlo parlare tanto a lungo.
Dovrei
ringraziarla?
La lasciò
comunque andar via,
perché il suo malumore non poteva essere scalfito neppure da
quello.
Al
adesso è al San Mungo, in mezzo ai camici verdi, a
Flannery e qualsiasi diavolo di cosa abbia contratto.
Ad
impicciarsi di cose da cui dovrebbe star lontano.
Chiuse gli occhi passandosi
una mano trai capelli e non fu sorpreso quando sentì
qualcuno avvicinarsi. La
sorpresa fu constatare che si trattava di suo padre che reggeva un
piatto con
la sua porzione di dolce. “Tua madre ci si è
impegnata” Borbottò con l’aria di
stare sui carboni ardenti. “Potresti almeno
provarci.”
L’accusa era ben formulata, quindi fu costretto a subirla.
Prese il piatto e ne
diede una forchettata. “È delizioso.”
Sospirò, tirando via le gambe per far
sedere l’uomo.
Se
è venuto a parlarmi lui quanto sono stato
sgradevole?
“Com’è
che riesci sempre a far
saltare i nervi a tua sorella?” Considerò
l’altro dopo qualche momento passato
a guardare le siepi perfettamente curate del giardino.
“È una
dote che si acquista
con l’esperienza.” Ironizzò godendosi il
sapore fresco della menta
nell’impasto; era il suo dolce preferito e questo lo fece
sentire ancora
peggio. “Oggi non sono dell’umore.”
“L’abbiamo notato.” Convenne con piglio
brusco, salvo lanciargli un’occhiata impacciata.
“Tua madre mi ha spedito a vedere se avevi bisogno di
qualcosa…”
“Di parlare?” Fece una smorfia. “Di
quello ne ho sempre poca voglia.”
Suo padre fece un sorrisetto divertito, annuendo, quasi comprendesse il
suo
stato d’animo.
Da
ragazzino viziato a ragazzino viziato…
Era
seccante che la sua voce
interiore, quella della supposta ragione, avesse il tono di Albus.
“Va tutto bene? Al
lavoro, a
casa?”
“Sì.
Per adesso.” Il che era
ancora più frustrante. Sapeva che stava arrivando un pacco
di problemi delle
dimensioni di una casa, se lo sentiva nelle ossa e non poter far nulla
per
ovviare a quel problema lo faceva infuriare. “È
solo…” Esitò ma aveva bisogno
di buttarlo fuori e ammetterlo era forse più difficile che
farlo. “… Al sta
lavorando a qualcosa che mi spaventa.”
“Qualcosa di pericoloso?” Indovinò al
volo l’uomo, che Babbano era e sarebbe
rimasto, ma sapeva troppo della storia familiare per non avere la
capacità
innata di capire quando un Potter si buttava nei guai con il piglio di
un treno
in corsa.
“Potenzialmente.”
Convenne
stuzzicando quel che restava del suo tortino alla menta.
Suo padre fece uno sbuffo
empatico. “Diavolo, non ne ha avuto abbastanza?”
“Sembra di
no.” Ritorse
sarcastico. “Deve sapere tutto ed essere invischiato in
tutto.”
Ed è colpa mia. Ho mentito e sono
sparito. Abbastanza per far sviluppare una paranoia.
…
La cosa peggiore è che è colpa mia.
“Figlio di suo
padre…” Considerò
l’uomo con un sospiro, ignaro dei suoi pensieri, dandogli una
pacca sul
ginocchio. Fu breve e impacciata, ma non fastidiosa. “Riporta
il piatto in
cucina quando hai finito.”
Il momento di condivisione
padre-figlio era stato spossante per entrambi e suo padre sembrava
pronto ad
infossarsi nella sua poltrona per una maratona di spazzatura televisiva
domenicale; non era stato male però essere compreso da chi,
prima di lui, aveva
avuto a che fare con la follia Potter. Questo non significava che
l’interrogatorio fosse finito però,
pensò rientrando e chiudendosi la porta
della veranda alle spalle.
Ora
è il turno di mia madre.
“E tu non sei
d’accordo …”
Come aveva immaginato, Robin
Castellario in Dursley non aveva aspettato che di vederlo posare il
piatto nel
lavello per aprire le danze.
Dovrei
cominciare a riconsiderare Vern. Ci ignoriamo
meravigliosamente.
“Sono
preoccupato.” Incrociò
le braccia al petto e guardò verso il camino che si
intravedeva dal salotto;
ciò che era spuntato da lì durante gli antipasti
non era stata la testa
arruffata di Albus, bensì una lettera di scuse.
Imperdonabile.
“Glielo hai
detto?”
“Non gli
importa.”
Gli diede uno schiaffo
sulla spalla,
quasi trovasse riprovevole quel pensiero. “Non dire
sciocchezze.” Lo apostrofò
infatti. “Albus non ha fatto altro che ascoltarti da quando
eravate bambini
… mi
sbaglio?”
No.
“Non lo ritiene
comunque un
motivo per rinunciare.” Non avrebbe voluto parlare di quello;
avrebbe voluto
essere in giardino a lasciarsi distrarre da un tomo cartaceo, non in
una cucina
tirata a lucido, con sua madre che lo guardava come se fosse un enorme
infante
cresciute e capriccioso.
Bello
e irrealizzabile, questo tuo mondo delle
intenzioni…
“Che la ritenga
importante o
meno … a conti fatti, che differenza fa?”
“La fa
eccome.” Sua madre gli
rivolse un sorriso, quasi non credesse a quanto sciocco potesse essere.
Nei
rapporti interpersonali forse lo era; era stata questa la sua croce e
la sua
salvezza. “Thomas in un rapporto non è questione
di convincere l’altro che
sta sbagliando, non sempre. Siete due teste
dure, vi arroccate sui vostri obbiettivi … Se lo ostacolassi
non ne verrebbe
fuori nulla di buono.”
Fece una smorfia.
“E quindi
cosa mi suggerisci di fare? Assecondarlo?” Odiava sentire la
campana della
ragione quando non era la sua. Odiava sentirsi nell’infinita
schiera di coloro
che non avevano diritto di replica perché avevano fatto di peggio. “Stai dicendo che
devo star zitto perché anch’io ho
commesso la mia dose di sbagli?”
Sua madre non parve turbata dal suo sarcasmo. Era una dote rara.
“Non è la prima
volta che succede … Stavolta è lui a far qualcosa
che preoccupa te e non
viceversa. Avete già affrontato questo genere di problema
… Come l’avete
risolto?”
Assieme. Lo abbiamo affrontato e risolto
assieme.
Sospirò, mentre
il sorriso dell’altra
diventava consapevole e si ampliava. “Vorrei solo esser
lasciato in pace.”
Confessò perché era la donna che
l’aveva cresciuto e non avrebbe approfittato
delle sue debolezze. Era una certezza che gli lasciava uno strano
calore allo
stomaco. “Non me lo merito, ma lo voglio comunque.”
“Sul merito non mi
trovi
d’accordo, ma su una cosa sì … con la
famiglia di tuo zio non l’avrai mai.” Gli
passò un braccio attorno alla vita e strinse appena. Aveva
capito e non
servivano parole: non ne servivano nella sua famiglia e per questo si
riteneva immensamente
fortunato.
Harry
mi ha dato a loro forse con leggerezza.
Nemmeno
riflettendoci avrebbe potuto far cosa migliore.
****
Londra, Farrindgon,
magazzino Purge&Dowse, ovvero…
San Mungo.
Pomeriggio.
Al guardò
l’orologio da polso
che Tom gli aveva regalato per il suo ventunesimo compleanno e
pensò che
sarebbe stato ucciso dall’altro non appena avesse messo piede
in casa.
Ho
saltato il pranzo con la sua famiglia quando gli
avevo promesso che ci sarei stato.
Odia
quando non mantengo le promesse.
Guardò
demoralizzato l’enorme
mole di fascicoli che erano stato spediti dall’Archivio
Centrale delle Malattie
Infettive Magiche di Bruxelles e calcolò mentalmente quando
gli ci sarebbe
voluto per spulciarli tutti alla ricerca di una casistica che avrebbe
potuti
aiutarli con il sergente Flannery; non aiutava il fatto che Sam e il
Guaritore
Smethwyck lo avessero lasciato da solo in quel compito.
Sono
Guaritori di ruolo … non hanno tempo. O voglia. E
indovinate chi viene chiamato?
Secoli.
Ci metterò secoli.
Gli sarebbe stato benissimo se solo non fosse stata domenica
e non avesse
sentito lo stomaco come una caverna profonda e vuota.
“Ehi!”
La voce di Sam fu
celestiale quanto l’odore di sandwich al tacchino che vi era
associato. “Ho
pensato di venire a sfamare il povero ricercatore.”
“Ottima pensata.” Sorrise alzando la testa dai
fogli e facendo fatica a mettere
a fuoco la figura dell’altro mago nella penombra della
biblioteca del reparto;
se avesse continuato così fino alla specializzazione avrebbe
rischiato gli
occhiali da vista.
Come
papà … e come Lils anche se si ostina a
dimenticarseli ovunque.
L’uomo si sedette
al tavolo
con lui, allungandogli anche una tazza di fumigante cioccolata calda.
L’avrebbe
baciato. “Allora … trovato qualcosa?”
“Nulla, per
ora.” Scosse la
testa addentando il panino con gusto. “Ci hanno mandato di tutto … Forse avremo dovuto
essere un po’ più selettivi con le
chiavi di ricerca.”
“Aumento di magia
e Cambiamenti somatici è
un po’ troppo
generalistico, eh?” Fece una smorfia l’irlandese
reclinando la schiena sulla
sedia. “Ma purtroppo sono gli unici sintomi che hanno un
senso, dal punto di
vista medico.”
“Già.” Sospirò. “E
se fosse qualcosa di nuovo?” La sola idea lo gettava nel
panico, ma ignorare quel pensiero sarebbe stato più
deleterio che dirlo ad alta
voce. “Qualcosa che nessuno ha mai visto o sentito?”
Il Guaritore di Infettive
fece
una smorfia. “È raro che una malattia magica esca
fuori dal nulla, Al. I virus,
come sai, sia che siano magici o Babbani esistono dalla notte dei tempi
e dallo
stesso tempo creano malattie legandosi a batteri o alle cellule del
corpo umano…
Però le nostre malattie nascono molto più
lentamente di quelle Babbane… I
nostri virus sono pochi.” Scosse la testa. “Ci devono essere dei precedenti. Forse
semplicemente non in
Inghilterra.”
“Lo so,
è solo … ci sono di
mezzo gli auror.” Si morse le labbra e addentò di
nuovo il proprio pranzo,
anche se gli era passata la fame. “Uno dei sintomi
è l’aumento di capacità
magica e gli auror si occupano di magia oscura
… Se fosse un virus creato attraverso di essa, questo
cambierebbe le carte in
tavola.”
Un
virus creato con la magia oscura … Significa
modificare qualcosa che è già nocivo, che
è già portatore di malattie per
renderlo … Ancora più letale?
“Non
fasciamoci la testa prima che il
Bolide ci abbia colpito, okay?” Gli sorrise l’uomo
più anziano stringendogli
appena il polso. “Al momento le condizioni del Sergente sono
stabili. Abbiamo
tempo per trovare la cura e restituirlo alla sua famiglia.”
Al sorrise, capendo che non
avrebbe spuntato quella discussione; l’indole positiva del
Guaritore Finnigan
era stata temprata dalla guerra, e non sarebbe stato una malattia
sconosciuta a
scalfirla. Gliene fu grato, ma non poté fare a meno di
pensare che tra una Maledizione
e un virus, decisamente avrebbe scelto di passare per la prima.
****
Diagon
Alley. Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Sera.
Zorba fu il primo ad
accorgersi che Al era tornato a casa. Drizzò le orecchie e
con un miagolio
lieto saltò giù dal grembo di Tom per dirigersi
verso l’ingresso.
I due umani con cui
condivideva l’esistenza da quando era stato preso dal rifugio
erano
particolari. Erano giovani, sempre presi a litigare su tutto, ma in
quella casa
non c’era mai l’uno senza l’altro e dal
punto di vista di un animale da
appartamento era una buona cosa.
Significa
che almeno uno dei due prima o poi si ricorda
di darmi da mangiare.
Erano divertenti, i suoi
umani: c’era l’Umano Alto e
dall’espressione torva – aveva un nome ma a Zorba
non piaceva – il più raggirabile, nonostante
sembrasse sempre in conflitto con
il mondo. Era il suo preferito.
Poi c’era Albus,
che dei due
si occupava di non mandare in malora la casa e di non farli morire
tutti di
fame. Gli piaceva, ma aveva un po’ troppe regole, come quelle
di non farsi le
unghie sui mobili o non masticare i lacci delle scarpe.
Strusciandosi contro le gambe di quest’ultimo
percepì stanchezza, soprattutto
per il fatto che si rifiutò di prenderlo in braccio come di
solito amava fare.
“Ciao Zorba.” Lo salutò chinandosi per
un grattino comunque dovuto. Era il
pegno per entrare. “Dove sono Tom e Mei?”
La ragazzina bionda non
c’era–
e gli stava benissimo dato che era fastidiosa come una batteria di
coperchi,
lei e il rumore che si portava sempre dietro, musica
la chiamava – ma l’Umano Alto era nello studio e
trovò
quindi giusto guidarci l’altro.
Albus lo seguì
sbadigliando e
stirandosi come se fosse un gatto – non con la stessa grazia,
ovvio – e sorrise
quando vide la schiena dell’altro. Cosa trovasse di bello in
quella schiena
ossuta Zorba non lo capiva, ma doveva avere a che fare con il fatto che
vi
passava spesso le mani o la abbracciava.
“Ehi.”
“Sei tornato.” Il tono era simile al soffio di un
gatto, ma Zorba aveva capito
da tempo che era tutta scena. Poteva vederlo balzando sulla scrivania;
l’Umano
Alto era contento quando Albus tornava a casa, gli sorridevano gli
occhi. “Pensavo
ci saresti morto là dentro.”
“Lo pensavo anch’io.” Albus si
avvicinò e gli baciò la testa, serrando la presa
in un abbraccio che non venne però ricambiato.
“Sei ancora arrabbiato?”
“Dovrei?”
“Non rispondermi
con un’altra
domanda … Lo so che ti avevo promesso che sarei venuto, ma
sono stato bloccato
fin’ora.” Sospirò. “Dimmi che
hai dato da mangiare al gatto … o a te stesso.”
Non avendo risposta Albus
alzò
gli occhi al cielo, e la piega nervosa delle labbra la diceva lunga su
quanto
si stesse frenando per non arrabbiarsi. “Non ho la forza
neanche per scaldare
una pizza, Tom, dimmi che riesci ad alzarti, prendere il telefono
e…”
“Ho lasciato la cena in caldo.”
Dovendo condividere la
propria
esistenza di Famiglio con un corvo sociopatico – chiunque
avesse a che fare per
più di cinque minuti con Kafka sapeva che doveva stargli
lontano se aveva cara
la vita – e un Gufo, Cleto, stupido come un mucchio di sassi,
Zorba provava determinato
affetto per i suoi umani e fu dunque felice di vedere che la piccola
sorpresa dell’uno
era andata a segno nello sguardo dell’altro.
“Hai cucinato?”
“Ho scaldato gli
avanzi del
pranzo, mia madre ci ha sommersi.”
“Merlino la grazi!” Esclamò chinandosi
per baciarlo – un gesto antigenico che
dalla sua infinita saggezza felina non avrebbe mai capito.
“Ti amo.”
“Immagino la tua giornata sia stato un incubo.”
“Mi sanguinano gli
occhi … mi
hanno messo a controllare qualcosa come un milione
di referti medici, non scherzo.” Fece una pausa.
“Mi dispiace essermi perso il
pranzo dagli zii, sul serio.”
L’Umano Alto scrollò le spalle; non sembrava del
tutto convinto ma prese la
mano dell’altro e lo condusse in cucina come avrebbe fatto
con un bambino
insonnolito. Zorba non li seguì, preferendo andare in camera
da letto – gli
umani la chiamavano loro, ma in realtà era una sua
dependance, quella che usava
quando voleva rilassarsi dopo una lunga giornata di niente.
Fu svegliato dal peso di
Albus
sul letto, o meglio, dal fatto che gli franò vicinissimo.
Protestò con un
miagolio e per tutta risposta si beccò un colpetto
irrispettoso sotto la pancia.
“Dai Zorba, fammi posto … Devo riuscire a dormire
almeno quattro ore stanotte.”
“Ti sei portato
delle cartelle
a casa.” Osservò l’Umano Alto,
già in direzione della sua scrivania. “Pensavi
di continuare?”
“Essere assuefatti
al lavoro è
una malattia, non serve che tu me lo dica…”
Bofonchiò con la bocca sui cuscini,
ormai prossimo al sonno. Zorba fu magnanimo; gli concesse di farlo
anche se era
il suo posto preferito. “Volevo avvantaggiarmi ma non ce la
faccio. Le leggerò domani
mattina.”
Fu l’ultima cosa
che disse
prima di cominciare a dormire della grossa. L’Umano Alto, che
era tornato alla
scrivania che usava quando voleva star vicino all’altro, si
alzò e andò a
frugare nella borsa di tela di quest’ultimo, estraendo fogli
spillati assieme. Dovevano
essere i cosiddetti referti.
Li portò alla
scrivania e Zorba,
che gli saltò in grembo sia per avere attenzioni, sia per
controllare che non
fossero pericolosi, lo vide consultarli con attenzione.
“Gli esseri umani
sono
stupidi.” Gli venne confessato a mezza bocca. Fare da cassa
di risonanza
silenziosa a quei due era un altro dei suoi compiti e lo svolgeva
ovviamente al
meglio. “Facciamo cose assolutamente idiote per chi
amiamo.”
Zorba si acciambellò su quelle gambe magre e fece le fusa;
era un buon modo per
assentire.
****
Note:
Non ho potuto fare
l’alba del
giorno dopo di tutti i ragazzi, ma non preoccupatevi, avrete pensieri e
seghe
mentali anche di due tedeschi e di un Mike. Tutto a suo tempo. ;)
I nomi dei Mannari: sono
stata
a lungo indecisa se metterli in inglese o usare la traduzione italiana.
Ho deciso
per la seconda ipotesi perché alla fine ho usato sempre la
terminologia
italiana per le Case, i cognomi e gli incantesimi.
Per quanto riguarda il
secondo
battesimo, e ‘i nomi’ degli OC … beh,
tutta farina del mio sacco.
(Anche se i nomi Moscardo e
Vulneraria sono tratti da un libro. Un cioccolatino a chi lo riconosce.
:P)
Qui
la
canzone del capitolo.
Per chi volesse vedere Zorba
qui
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