Is called destiny

di Jawaader
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Presi l’ultimo vestito dall’armadio, lo ripiegai e lo misi dentro l’ultima valigia, ormai anche essa piena. Mi sedetti sul letto, sfinita per tutto quel lavoro, e osservai, guardandomi intorno, quella stanza vuota. Ci avevo passato tredici anni, gli anni più infelici. A un certo punto il mio sguardo si sofferma sulla foto di famiglia che si trovava sulla mia scrivania. Mi allungo per prenderla molto cautamente e mi risiedo subito sul letto. La guardo come per chiedere ai miei genitori di tornare lì, da me, per poterli salutare e abbracciare un ultima volta. Sento che le lacrime cominciano a percorrere il mio volto, così mi alzo, le asciugo con l’estremità della felpa, metto la foto nella valigia e la chiudo.  Sento mia nonna che mi chiama con quella sua voce stridula, che però a me è sempre piaciuta e mi ha sempre incoraggiata fin da quando ero bambina.
“Hope, Hope! Dai su andiamo altrimenti perdi l’aereo! Hope!”
“Arrivo, arrivo.”
Scusatemi se non mi sono presentata, io sono Hope, ho 19 anni, vengo da un paesino che si trova vicino a Londra e vivo con i miei nonni dopo l’incidente dei miei genitori, i quali sono rimaste le vittime. Ho i capelli castani e gli occhi marroni, mio nonno dice sempre che sono quelli di mia madre, profondi come i suoi; sono una ragazza sensibile e molto timida, che nasconde molto bene le sue emozioni.
Prendo la valigia ed esco dalla stanza. La guardo un ultima volta e poi chiudo la porta. Mettiamo nell’auto l’ultimo bagaglio e saliamo in auto diretti all’aeroporto di Londra. Sto partendo per New York, vado a vivere da sola, nella vecchia casa di mia cugina, non volevo più a stare qui. Dovevo cambiare.




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