Luna di Fuoco

di hanabi
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Khanshir.

Ran si rotolava sul suo spartano giaciglio, già sveglio molto prima che il cielo trascolorasse nell’alba del sole azzurro. Quella parola gli roteava nella mente, ed era incapace di fermarla. 

Io, Khanshir di Luna di Fuoco?

No, non gli sembrava possibile. 

Ora era un predone benestante (aveva dovuto assumere un contabile, un kelith naturalmente, che non faceva che portargli carte piene di cifre), ma ricordava fin troppo bene giorni passati alle prese con problemi di semplice sopravvivenza. E anche prima: era ancora dentro di lui lo stesso ragazzo montanaro di Sayanna, tanto forte nel combattimento quanto ribelle e indisciplinato nel gruppo, che faceva apposta a cantare le strofe sbagliate nei cori che i giovani guerrieri intonavano all’unisono; che rovinava la simmetria delle formazioni militari, eterna gobba ad ogni fila e ogni quadrato... quante bastonate si era preso da tutti coloro che avevano tentato di educarlo! 

Ma né le prediche né le botte l’avevano cambiato: Ran aveva preso i valori della mistica sayanni che si adattavano al suo spirito, e se n’era infischiato di tutti gli altri. Non era stato difficile pronosticargli un’esistenza piena di guai in una teocrazia come Sayanna, dove ogni cosa era prestabilita sin dai tempi più antichi e non erano ammesse trasgressioni: la sua condanna a morte era arrivata come un evento inevitabile. 

E allora era fuggito, rubando per vivere e vivendo giorno per giorno, finché non aveva incontrato altri predoni unendosi a loro, e scoprendo così il precario rifugio di quella luna lontano dal mondo. 

E io dovrei diventarne il condottiero?

Gli veniva da ridere, dopotutto. Eppure... cos’era stato Fahxen prima di diventare il Khanshir? Un grande generale, un saggio  venerando, un mistico Guerriero della Cometa? 

No, non era stato altro che un predone. 

Come me.

E Ran osò finalmente immaginarsi nel ruolo. Alto, forte e splendente in una cotta dorata, un mantello di rare pellicce e stivali marziali ornati d’argento, e una lancia smisurata nel saldo pugno. Un gran condottiero, sì. Per condurre... dove?

Quello è il problema: io non lo saprei. 

Era un formidabile realizzatore di piani, ma quelli venivano dalla mente disciplinata di Deyan, non dalla sua. Il che spesso faceva credere che fosse il kelith il vero capo della Squadra: anche Nemel e Chat l’avevano insinuato. 

Ma Deyan-shir non è un vero predone, e probabilmente non lo sarà mai. È soltanto prestato al mestiere, non è nato per questo...

L’ultima impresa aveva cambiato molte cose, e non tutte piacevoli per un sayanni come Ran.

Deyan infatti non si era portato su Luna di Fuoco soltanto lo scettro del padre, ma anche una collezione di fanciulle albine per i propri esclusivi (e inimmaginabili) piaceri, e due domestici che avevano lasciato il servizio di Gamosh all’istante e senza un attimo di ripensamento: uno era un eunuco, Ibal, stramba creatura senza sesso; l’altro era un uomo anziano, di nome Saal, che era stato il suo maggiordomo personale quando era ancora erede al trono. 

Tutti e due provavano una devozione quasi fanatica per Deyan, lo scopo della loro vita. Niente sembrava importar loro se non il servirlo impeccabilmente, e il luogo dove farlo era del tutto irrilevante: sul proprio mondo o sulla quella incredibile luna straniera, entrambi erano determinati a mettere il giusto ordine nella casa del loro padrone. Si erano dunque messi subito al lavoro per rimediare a tutte le scandalose mancanze con cui Deyan aveva dovuto convivere senza di loro: avevano riorganizzato la sua abitazione da cima a fondo, assunto altri servi, un cuoco che eliminasse dalla sua dieta ogni elemento impuro, e avevano gettato via tutto quel che ritenevano indegno di lui. 

Non potevano eliminare però Ran, benché si leggesse nei loro occhi quanto avrebbero voluto sbarazzarsi di lui: disapprovavano apertamente che il loro signore si immischiasse con un barbaro della peggior specie, e ogni volta che il sayanni andava a incontrare l’amico si doveva sorbire le piccate istruzioni di Saal sul modo giusto con cui ci si doveva rivolgere al “principe”. 

Non devi mai toccarlo. Non devi sederti al suo livello. Non devi guardarlo negli occhi, se non ti dà il permesso. E se lo dà, fissa quelli e non far nulla che possa fargli pensare che guardi invece... quell’imperfezione.

Ran non perdeva tempo a spiegare a quel pomposo spaventapasseri che i sayanni, abituati ai tatuaggi, non si impressionavano di certo per il marchio che Deyan aveva in faccia, e che era guarito perfettamente lasciando un segno netto e pulito che, se non avesse avuto un significato tanto sinistro, non sarebbe stato un cattivo adornamento. Ma Saal lo considerava sfigurante, ed era quasi comico vederlo a coprirsi ritualmente gli occhi ogni volta che si ritrovava a guardare il suo signore dal lato sbagliato...

La stupida etichetta kelith!

Ran scopriva di rimpiangere un po’ i primi tempi della loro squadra, quando tutte quelle cerimonie e quegli scrupoli erano lontanissimi, e Deyan altro non era che un liberto coi capelli corti, fresco membro della Comunità. Si accontentava di poco, a quel tempo; sembrava aver sbarrato le porte al rimpianto e accettava con calma tutte le difficoltà di quella vita. E Ran si era spesso commosso a vedere come l’ex erede di un principato si adattasse alla nuova esistenza, con una dignità che impressionava tutta Luna di Fuoco. 

Avevo pensato che alla fine si fosse davvero rassegnato al suo destino...

Ma quanto fosse vero, lo si vedeva adesso. Nulla era veramente cambiato in lui, era lo stesso compagno di sempre, eppure... ora aveva un maggiordomo, una shanda, e una servitù ridotta ma di altissimo livello. E quando l’aveva accompagnato da Kurmaji non aveva più addosso gli ordinari abiti da predone kelith, ma un austero costume da deserto del suo paese, semplicissimo e tuttavia spaventosamente regale; e Ran aveva notato quasi all’improvviso che i suoi folti capelli erano ricresciuti, e lui non li tagliava più...

Un principe in esilio.

Ora si rendeva conto di quanto fosse radicato in lui il suo suffisso, -shir. I kelith di Luna di Fuoco, ovviamente, l’avevano compreso molto prima. 

Sin dalla sua liberazione, Deyan era stato isolato dalla sua stessa comunità in un modo che Ran, abituato alla vita gregaria dei sayanni, aveva trovato inconcepibile e addirittura crudele. Nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno lo aiutava o aveva una cortesia qualsiasi per lui, nessuno lo guardava nemmeno in faccia. Ma non erano solo il disprezzo o il risentimento a motivare quel vuoto costante attorno a lui: gli oltraggi che aveva subìto avevano finito per offendere il senso kelith della sacralità. Deyan era pur sempre un membro di quella che chiamavano Razza Sovrana, e si vedeva; e cicli e cicli di usanze non si dimenticavano tanto in fretta.

Ecco perché l’ambasciatore di Itka voleva cancellare i segni esteriori della sua nobiltà...

La gente taceva, quando lo vedeva passare per la strada, e anche i predoni più induriti esitavano di fronte allo sguardo fermo di quegli occhi rossi, e si tenevano alla larga da lui. Solo alcuni smargiassi avevano provato a molestarlo, e i kelith che erano stati presenti avevano impedito a Ran di intervenire in sua difesa: avevano invece fatto cerchio intorno alla scena, in uno strano silenzio. 

E Deyan aveva capito cosa volevano: che facesse qualcosa per meritarsi di nuovo quel suffisso tra la sua gente, affinché avesse fine la sua vergogna, ma soprattutto la loro.

Non aveva ucciso i suoi sfidanti, ligio al codice della Comunità che vietava gli omicidi tra predoni se non debitamente regolati; ma li aveva vinti tutti, con una facilità che aveva fatto scendere un brivido nella schiena di Ran: era la prima volta che lo vedeva combattere, e c’erano assassini di professione molto meno bravi di lui...

Per Kamoh e Lilia, è questo che intendeva quando diceva che era stato addestrato?! 

Gli sconfitti si erano presentati il giorno dopo alla sua casa, inginocchiandosi nella polvere per implorarlo di prenderli al suo servizio. Erano stati i primi dipendenti della Squadra Sacrilega, pronti a obbedire a ogni ordine senza discutere, foss’anche lavorare e vivere fianco a fianco coi nemici sayanni.  

Già, i sayanni. E il loro pregiudizio, che era anche il mio.

Per loro Deyan era ancora un’abominazione, una bianca creatura demoniaca e viziosa che gli dèi avevano creato solo per far risplendere la virtù del loro popolo. E la sua inconcepibile amicizia con un sayanni, e il suo interesse sincero per la cultura dei tradizionali nemici non sembravano incrinare l’ostilità che lo circondava. Ridiventare poi un principe non l’avrebbe certo reso più accettabile al popolo azzurro, segnato da un odio atavico verso la casta nobile di Kelitha. Come avrebbe potuto superare un simile odio, un Khanshir albino? 

Come?

Ran scalciò via da sé la coperta, stanco di lottare con i suoi pensieri. 

 

 

 

 

 

 

 

Anche Deyan era sveglio, ma per motivi assai diversi. Fissava il soffitto, cercando di calmare il battito impazzito del suo cuore. 

Di nuovo quell’incubo...

Aveva sognato di essere accecato, paralizzato, bloccato completamente, più di quanto fosse possibile con qualsiasi mezzo di costrizione inventato dal sadismo dei torturatori. Non poteva muovere nemmeno una palpebra, la punta di un dito: ogni muscolo, ogni pezzetto di pelle, ogni cellula finivano per trasformarsi in puro e semplice dolore, che si alternava al torpore. Un peso schiacciante sul torace a impedirgli di respirare, la gola riempita di acqua, un grido muto e l’attesa folle di una morte che però non arrivava mai... mai... mai...

Si era destato di colpo, il corpo madido di sudore, il respiro spezzato. 

Intorno a lui le schiave che aveva scelto per la notte dormivano ancora, le une addossate alle altre, com’erano abituate sin da piccole. Come tutti gli animali, si confortavano così; ma lui dove avrebbe trovato conforto, dopo l’ennesima ripetizione dello stesso identico incubo?

Si voltò su un fianco, ma scoprì di aver paura a riaddormentarsi. Ormai quel sogno si ripeteva sempre più spesso, e cominciava a diventare una vera e propria ossessione. Si rigirò ancora, nervosamente, e poi si arrese: anche per quella notte non avrebbe più dormito.

Maledizione!

Scese dal grande letto, infilò i pantaloni e uscì da quella stanza. 

Fuori Ibal sonnecchiava al suo posto, ma si svegliò subito e si alzò, a disposizione del padrone. La notte era fredda, come sempre su Luna di Fuoco: l’eunuco coprì premurosamente le spalle di Deyan con un mantello, attese di vedere se richiedeva altre schiave, musica o un rinfresco, e quando vide che si dirigeva verso l’uscita della shanda si affrettò ad aprirgli il cancello, e a richiuderlo a chiave dietro di lui. 

La casa era sprofondata nel silenzio. Deyan vagò di stanza in stanza, inquieto come un fantasma, finché non giunse là dove aveva fatto mettere il suo ultimo acquisto. 

Era il sarcofago nero che aveva notato nella Grande Casa. 

I saccheggiatori di tombe non sapevano cosa intendesse farsene di quello strano oggetto, ma a loro non importava, dato che erano stati molto ben pagati. Forse - pensavano - un kelith traeva il suo piacere dall’idea di violare e dissacrare un sayanni morto da secoli, anzi da millenni. In fin dei conti la depravazione dei nobili era assai risaputa...

Effettivamente Deyan provava uno strano piacere a possedere quel feretro: era qualcosa di misterioso e di chiuso, e lui si era scoperto a desiderarlo con una tensione quasi sensuale che non era sfuggita ai venditori. Ma non gli importava nulla del denaro che aveva speso: non era la ricchezza che gli mancava, e per lui non era mai stata altro che un mezzo come un altro. 

Accese una lucerna, si avvicinò a quella reliquia del passato. Una volta di più contemplò il modo setoso in cui rifletteva la luce, chiedendosi di cosa fosse fatta. Saal s’era mostrato scandalizzato all’idea di far entrare in casa un oggetto barbaro, ma si sbagliava: c’era un’eleganza nella forma di quel sarcofago che barbara non era, e a dir la verità non apparteneva nemmeno alla cultura sayanni, anche se le iscrizioni su di esso lo erano oltre ogni dubbio.

Deyan tese le proprie dita sensibili, per sfiorare quella lunga peregrinazione di fini incisioni geometriche che si susseguivano per tutta la superficie, e come sempre si stupì di sentire un brivido a quel contatto. Chiuse gli occhi per un istante.

Voglio morire.

Li riaprì, attonito. Aveva pensato questo? 

No, non era vero. Se avesse voluto morire, non gliene sarebbero mancate le occasioni. E l’avrebbe fatto quando la vita gli era stata un peso, non adesso che si apriva a così tante possibilità: nuovi obiettivi, nuove vendette...

Di nuovo chiuse gli occhi, la mano posata su quella nera superficie. 

E di colpo gli parve di entrarvi, e da lì provare la stessa angoscia, lo stesso terrore, la stessa disperazione dei suoi sogni.

Trasalì, colto alla sprovvista da quell’ondata di emozioni che diventavano istantaneamente le sue. Sentì che la sua mente così invasa non aveva che un modo per interpretarle: aprire a sua volta lo scrigno dei suoi stessi ricordi che le contenevano... 

Tutti quei ricordi che lui aveva accuratamente seppellito dentro di sé per non impazzire.

No!

La sua volontà si ribellò: cercò di riprendere il controllo dei suoi pensieri, di staccarsi da quell’inconcepibile comunanza, quell’identità nel dolore; si ordinò di sbarrare le porte della sua mente, ma era come fermare una valanga... la lucerna gli scivolò di mano, e cadde a terra, spegnendosi. 

E in quell’improvvisa oscurità, Deyan ricordò.

La propria assoluta incredulità, quando suo padre l’aveva condannato. La rabbia, che l’aveva spinto a maledirlo. 

Ma poi era arrivata la paura. Non del dolore in quanto tale: l’aveva già provato con Estsen, ma gli era sembrato quasi un gioco tra nobili, una prova di forza dei suoi nervi, da cui era emerso vittorioso in un mondo sempre uguale. Stavolta però sarebbe stato diverso: non ci sarebbe stato ritorno per lui. Era stato il senso di quella finalità a fargli perdere il coraggio, aveva opposto resistenza quando gli avevano avvicinato quel ferro rovente alla faccia.

Un brivido irrefrenabile, il puzzo della carne bruciata, prima che il dolore arrivasse come un’ondata e gli ricordasse che la carne era la sua... 

Cadde in ginocchio, con un gemito che era l’eco dell’urlo di allora. 

Il resto era stato una sorta di delirio frettoloso e ineluttabile. Si era lasciato trascinare verso la piazza delle esecuzioni, ciecamente, senza riuscire a pensare al di là della pulsazione selvaggia nella sua testa, sapeva solo che ormai era uno schiavo e tutto era finito per lui: gloria, onore, futuro. I carnefici l’avevano spogliato e legato al tripode mentre era più morto che vivo...

E a un segnale di una mano ingioiellata, avevano aspettato. 

Con calma, che si riprendesse abbastanza da tornare in sé, che si rendesse conto di dov’era, che contemplasse inorridito quegli occhi intorno a lui, su di lui, gli strumenti che dovevano strappargli anche l’ultima traccia di dignità che gli rimaneva. Non si erano accontentati del dolore, volevano che provasse anche la vergogna e la disperazione. 

E li aveva provati... oltre ogni limite... finché la sua stessa anima schiantata aveva urlato invocando la fine di quel tormento. 

E quell’urlo era dentro di lui, adesso.

Voglio morire!

Si afferrò la testa, lottò per resistere a quelle emozioni spaventose, per controllarle e ricacciarle nel proprio profondo, dove poteva fingere di dimenticarle. Ma erano più forti di lui, più forti di tutta la sua disciplina interiore, e si sentì all’improvviso miserabilmente indifeso come lo era stato in quei momenti così terribili. La sua preziosa vita altro non era che un frutto marcio, con la buccia che rifiutava di spaccarsi per lasciar uscire l’orrore che conteneva: provò un tale desiderio di trafiggerla e finirla una volta per tutte che il cuore stesso cominciò a fargli male, come se volesse spezzarsi, sempre di più, sempre di più...

“Padrone!...”

Una voce lo strappò violentemente a quell’incantesimo, riportandolo alla realtà. 

Aprì gli occhi, e si accorse di essere raggomitolato sul freddo pavimento di pietra. Accanto a lui c’era il suo vecchio maggiordomo, con una veste da notte, circondato da servi che facevano luce. 

“Saal?...” mormorò appena.

“Sì, padrone, sono io.” Il vecchio era in preda all’angoscia. “Il padrone perdoni la nostra intrusione, ma lo abbiamo sentito gridare...”

Non si era nemmeno reso conto di averlo fatto; ma la gola gli doleva, e il respiro gli usciva pieno di sforzo. 

Ho perso il controllo?!

Il pensiero lo agghiacciava. Sapeva che nessuno ne avrebbe parlato fuori da quella casa, ma si vergognava che i propri servi l’avessero visto in quello stato. 

“Il padrone vuole che faccia chiamare un medico?” gli domandò Saal, a voce bassa.

Scosse la testa. “Sto bene.” 

Si sollevò faticosamente da terra, si accorse del sudore che gli bagnava il viso e gli incollava i capelli alla fronte... si guardò le mani: tremavano ancora. Alzò lentamente gli occhi al feretro, ritto su di lui sul suo piedistallo come la statua di una fredda divinità. 

Sei stato tu? 

Saal seguì il suo sguardo, e non riuscì più a trattenersi. 

“È tutta colpa di questa mostruosità sayanni!” esclamò. “È stregata, e da quando è entrata in questa casa non ha fatto che tormentare le notti del padrone!”

È proprio così. E devo scoprire il perché.

“Prego il padrone di sbarazzarsene...”

“Manda un messaggero a Pushpa.”

Saal esitò. “Padrone?”

“È un t’yr, e abita accanto al Tempio delle Divinità Duali.”

“Un sayanni?!”

“Fagli dire che ho bisogno di lui al più presto, che venga subito qui. E che non se ne pentirà.”

 

 

 

 

 

 

 

Gamosh attendeva.

Si era fatto portare un letto sulla terrazza interna del suo quartiere, da cui poteva vedere il cielo notturno con il suo affascinante polverio di stelle. Vi stava sdraiato a contemplarle, avvolto in una morbidissima cappa di velluto candido per proteggersi dal vento freddo del deserto. 

L’urlo ricominciò, prima lamentoso, poi via via acuto e penetrante. Aveva quella certa nota disperata che Gamosh conosceva per lunga esperienza. Non aveva avuto più voglia di rimanere assieme ai suoi carnefici, a vedere il solito spettacolo: dopotutto si trattava di un un piccolo uomo bruno, magro e già sfibrato da una vita difficile, che non sarebbe durato a lungo. 

Ma era un predone, e prima di morire doveva dire tutto quel che sapeva di Deyan. 

L’avrebbe detto: quel particolare scricchiolare di un osso che si spezzava, simile al rumore di un bastone schiantato, e l’ululato quasi femminile che l’accompagnava erano segnali inequivocabili. Avrebbe raccontato tutto, quel miserabile, per comprarsi anche un solo istante senza dolore. 

E allora... sarebbe venuto il giorno della vendetta. 

Uno schiocco di dita, e un servo accorse a recargli un calice di vino alle spezie. Gamosh lo sorseggiò, senza staccare gli occhi dal cielo. Luna di Fuoco spuntava dall’orizzonte, il suo bagliore aranciato già scacciava le stelle più piccole. 

Deyan lassù? 

Che sciocchezza. Doveva essere rintanato in chissà quale nascondiglio del grande deserto. Forse una gola sconosciuta, un’oasi non segnata sulle mappe. Forse addirittura fuori dal principato, dove aveva segreti alleati che speravano di destabilizzare e rovesciare l’antico ordine di Shana. Tutto il rispetto che ancora lo circondava, nonostante il suo disonore... cosa poteva significare? Chi erano i suoi amici, chi lo proteggeva dalla giusta ira del principe Gamosh?

Non importa. Lo troverò. E stavolta non mi accontenterò di vederlo sotto la frusta. 

Si leccò le labbra, un po’ per assaporare il dolce arzente delle spezie e un po’ all’idea di cosa avrebbe fatto al fratello: non gli avrebbe permesso di morire, non prima di avergli insegnato a dovere che non era nient’altro che uno schiavo, il suo schiavo. E solo dopo essersi preso tutte le soddisfazioni possibili da lui, gli avrebbe fatto amputare un arto alla volta, un giorno dopo l’altro, fino a ridurlo al solo busto, per poi abbandonarlo ad agonizzare in un canale di scolo.

Quanto lo odio, quel dannato.

Cercò di non pensare alle sue schiave, allo scettro perduto, e alle risa di scherno che aveva sentito dagli altri nobili quando avevano saputo di quell’affronto.

Eppure so di dovergli così tanto. Senza di lui non sarei ciò che sono. E ciò che presto sarò...

La maledizione di Deyan era infatti arrivata a destinazione. 

Uno strano rigonfiamento era apparso nella gota del principe: la destra, proprio quella che aveva fatto marchiare al figlio. Quel bubbone alla fine si era aperto, diventando un’ulcera purulenta ribelle a tutte le cure dei medici, che consumava la viva carne di Unari e gli impediva di mangiare e parlare senza dolore. Il principe deperiva avvilito giorno per giorno, disperando di salvarsi dall’anatema divino. 

Gamosh però non credeva nelle maledizioni, ritenendo più probabile che ci fosse dietro lo zampino di qualche altro adepto della Misteriosa: in fin dei conti El era la dea della morte, e il suo tempio forse una segreta scuola di assassini... una scuola che Deyan aveva frequentato con buon profitto, a quanto si sussurrava. Ad ogni buon conto, che fosse opera divina o di umani strumenti, la successione al trono diventava sempre più vicina.

E quando sarò sovrano assoluto di Shana, insegnerò all’Augusto Consorzio a rispettarmi... e a temermi. 

Finì il suo vino, gettò la coppa da qualche parte e il servo si precipitò a raccoglierla. Proprio in quel momento il suo capitano si presentò e si inginocchiò, piegando la testa.

“Nobile erede, il prigioniero è in agonia.”

“Ha parlato?”

“Continua a dire... che il predone bianco è su Luna di Fuoco. Dice che una magia lo ha portato lassù, una magia evocata da maghi neri.”

“Che inetti sono diventati i miei carnefici, che permettono a un debole uomo di irridere le loro torture facendo dello spirito.” Gamosh si alzò, sospirando. “Fammi strada: andiamo a vedere se devo metterli a morte e procurarmene dei nuovi.”

Il capitano obbedì, con occhi tremanti di paura.

La stanza delle torture puzzava come un macello. Sul cavalletto c’era un ammasso di carne e ossa spezzate, e solo la testa intatta comprovava che si era trattato di un essere umano. Gamosh guardò la scena, senza emozioni al di là del disappunto: non era quel che si era aspettato, i carnefici avevano effettivamente fatto del loro peggio, e la loro vittima non sembrava affatto in spirito di irridere alcunché: la faccia era contorta in un rictus mortale. 

“Dov’è Deyan?” chiese al moribondo.

Decifrare la risposta dai gemiti farfugliati e dalle implorazioni era quasi impossibile. Ma alla fine riuscì a raccogliere le sillabe di un nome, e a combinarle insieme.

“Luna di Fuoco?” disse, seccato. “Insisti con questa bugia, maledetto ladro, e ti farò versare in gola piombo fuso.”

Gli occhi dell’uomo si sbarrarono, la sua testa tremò e si reclinò, e dalla bocca aperta scese un fiotto di sangue misto a saliva. 

“Troppo tardi,” mormorò il capitano. “È morto.”

“Versategli lo stesso il piombo fuso in gola,” ordinò Gamosh, con gelida rabbia. “E trovatemi un altro predone.”

 

 

 

 

 

 

 

La casa di Ran era sempre piena di gente. Quasi l’intera Squadra Sacrilega risiedeva lì, disseminata per tutte le stanze in quella che chiunque avrebbe scambiato per confusione: ma era mirabile l’armonia che comunque vi regnava, a scapito dell’intimità che del resto tra i sayanni non era in grande considerazione. 

Non essendoci un solo angolo vuoto in tutta la casa, le riunioni del gruppo si tenevano normalmente nel cortile interno, dove c’era spazio per tutti. Ran faceva acquistare vino, sale, olio e farina, e mentre qualcuno cuoceva focacce sulle pietre arroventate tutti prendevano posto: Ran si accomodava disinvoltamente sul muretto del pozzo, e Deyan si sistemava accanto a lui, più in basso, seduto su un prezioso tappeto del suo paese.

Così i sayanni potevano pensare che il kelith albino onorasse il suo antico padrone, e i kelith che il sayanni gli facesse da guardia d’onore. 

A Ran quelle riunioni erano sempre piaciute, ma stavolta era di cattivo umore. Per colpa di  Teji, un concorrente ormai sconfitto che l'aveva affrontato pubblicamente al banco di una bettola, facendo drizzare le orecchie a tutti i presenti.

"Quanti altri uomini hai intenzione di portarmi via, Ran?" 

"Non è colpa mia se tu li paghi poco, Teji. Ne so qualcosa, della tua avarizia."

"Sono stato io ad insegnarti il mestiere."

"E allora? Mi hai sfruttato come uno schiavo per due stagioni, mentre tu ingrassavi."

"Guarda che c'era ben poco da ingrassare, con la miseria che mi portavi."

“Meglio, così non ti ho regalato niente.”

E Ran si era messo a sorseggiare il suo vino, come se la conversazione fosse finita. 

Ma Teji aveva insistito. "Una volta per tutte, smettila di spargere in giro le tue infamie sul mio conto, e lascia in pace i miei dipendenti."

"A chi ti riferisci, a Nemel e Chat? Erano miei soci prima e dopo di essere tuoi dipendenti; è naturale che vogliano stare con me... specialmente adesso che sono fortunato."

"Non meriti la tua fortuna. Se non fossi inciampato su quel cane d’un nobile, saresti senza membrana nel letto di qualche vecchia kelith."

"Mi piacerebbe sapere cosa avresti fatto tu inciampando su Deyan-shir!"

"Io? Di certo non mi sarei messo a lavorare spalla a spalla con un depravato testabianca, dimenticando di essere un sayanni."

Alcuni avevano annuito a quelle parole. Ran se n’era reso conto e aveva riso aspramente, lottando per riprendere il favore degli ascoltatori. 

“Giusto, Teji. Ed è per questo motivo che tu farai bancarotta tra qualche stagione, ed io no."

Era seguito un mormorio, ben diverso dall’applauso clamoroso che Ran si era aspettato. Tutti si erano finti indaffarati, voltando le spalle alla scena, e Teji se n'era andato, ma prima aveva sputato davanti a Ran. 

“I soldi non pagano l’onore, disertore.”

"Va’ a farti sverginare!" gli aveva risposto lui, tra i denti, dimenticando peraltro che Teji era già sposato. E si era scolato un intero boccale, l'umore rovinato per il resto della giornata.

Aveva raccontato a Deyan dell’incidente, ma l’amico non l’aveva nemmeno considerato: per lui l'opinione di Teji o di chiunque altro non aveva alcuna importanza. Quel che contava era stabilire cosa fare nel proseguio della stagione, e sembrava avere le idee molto chiare.

"Non si deve raccogliere troppo nello stesso territorio,” diceva, e tutti lo ascoltavano avidamente benché non alzasse mai la voce e non gesticolasse. “Il buon cacciatore lascia alle prede il tempo di riprodursi e moltiplicarsi. Le nostre imprese devono spostarsi su Sayanna, almeno fino alla fine della stagione."

I predoni mormorarono tra loro.

"Questo rischia di causare molti attriti con le altre squadre sayanni," obiettò Ran, dubbioso. "La maggior parte di esse non osa saccheggiare i kelith, e noi le priveremmo del loro bottino."

"L'Augusto Consorzio ha deliberato una leva straordinaria di guerrieri a sorveglianza dei territori centrali, i più ricchi.” Ran si chiese come facesse Deyan a saperlo, ma accantonò la domanda per dopo e lo lasciò continuare: “Saccheggiare i principati minori ci attirerebbe le ire delle squadre kelith, che sopravvivono grazie a queste povere entrate. Inoltre, togliere il poco di chi già possiede niente è molto più pericoloso che togliere qualcosa a chi possiede molto."

Ran scosse la testa. “Andremmo a metterci nei guai, Deyan-shir. Fino ad adesso siamo riusciti a non pestare i piedi a nessuno... o meglio, abbiamo buttato fuori parecchia concorrenza kelith. Però i grandi predoni sayanni sono un'altra cosa, e andare a toccare i loro territori..."

Deyan lo guardò brevemente da sotto il cappuccio del suo mantello. “Se la loro ostilità è un limite per le nostre imprese, tanto vale dichiarare chiusa la stagione."

Molti  si erano mostrati costernati a quelle parole.

"Siamo ad un passo dall’entrare tra le Grandi Squadre di Luna di Fuoco!..."

"Gli altri ci passeranno davanti!"

“L’opinione di Ran deriva da un’esperienza più grande della mia,” replicò Deyan, posando le mani sulle ginocchia. “La decisione è sua.”

Ran si sentì sotto accusa, e detestò Deyan che metteva sulle sue spalle quella responsabilità. Afferrò la sua tazza di terraglia per mandar giù vino annacquato, e sospirò. "Neanche a me fa piacere dover fare il prudente... anche se è il prudente ad incassare, non il temerario."

"Prudenza?” aveva esclamato Aidye, uno dei kelith della banda. “Non siamo forse famosi come i peggiori temerari di Luna di Fuoco? Abbiamo aiutato Deyan-shir a sputare in faccia a tutto l'Augusto Consorzio!"

"E infatti con quest’impresa ci siamo bruciati il territorio!”

"Momentaneamente." La voce di Deyan era tagliente come una spada. "Del resto non ricordo di aver sentito opposizioni quando se ne è discusso, anzi... rammento un certo entusiasmo.”

 “Non volevo criticare le tue azioni, Deyan-shir. Il fatto è...”

“... che è finora stato semplice, pensare che la mia patria altro non sia che un forziere comodo da cui attingere all’infinito e senza troppi rischi.”

“La tua patria?” sbottò Ran. “Te ne senti ancora il principe? Ho ancora il contratto con cui ti ho comprato su Shana, schiavo.”

E, come sempre, si accorse un istante troppo tardi di quel che aveva detto. 

Oh, accidenti... ma cosa m’è preso?

Deyan era rimasto perfettamente impassibile, le mani rilassate sulle ginocchia, ma con una sfumatura più rosea sulle guance. Tuttavia fece solo un lieve cenno col capo, un tranquillo assenso.

“Accetto il tuo rimprovero, Ran. E mi scuso per il mio errore.”

“Sono io che ti chiedo perdono,” disse Ran, sinceramente contrito. “Ho parlato senza riflettere.”

“Hai detto la pura verità. È Luna di Fuoco la nostra patria, non il mondo da cui veniamo. E per questo non dobbiamo farci scrupoli verso nessuno, qualunque sia il colore della sua pelle. Siamo arrivati ad un punto cruciale: per diventare davvero una Grande Squadra dobbiamo farci largo nella concorrenza, e non solo nella kelith ma anche in quella sayanni."

I predoni avevano annuito, pensierosamente.

"Non è facile, Deyan-shir," aveva insistito Ran. "Le Grandi Squadre sayanni ci odiano, perché siamo una squadra mista e perché tu sei un albino. Sono tutte fatte di guerrieri, e non di bassa casta ma reduci delle peggiori battaglie. Tra di loro combattono a colpi di profitto e tradimenti, ma contro di noi userebbero tutto quel che le regole di Luna di Fuoco permettono. Potrebbero addirittura farci assassinare, e sai bene che una squadra senza capi finisce in liquidazione..."

"Non credo che arriverebbero a questo," disse Chat, "sarebbe uno spreco. Capi a parte, la nostra squadra è appetibile così com'è.”

“Più probabilmente ci sfiderebbero secondo le regole della Comunità,” intervenne Nemel. “In un duello diretto, oppure con dei combattenti designati, ammesso che si trovi gente che voglia combattere fino alla morte... e, salvo accordi particolari, la squadra del perdente passerebbe sotto la gestione del vincitore, con annessi e connessi. Così è stabilito."

"Una soluzione rischiosa anche per loro," osservò Deyan. "Se perdessero ci impossesseremmo delle loro squadre, e sbaraglieremmo ogni concorrenza."

"D'accordo. Ma chi di noi potrebbe prendersi questo rischio?"

Era seguito un lungo, pesante silenzio. Tutti si erano guardati, in modo eloquente.

Guerrieri, e non di bassa casta ma reduci delle peggiori battaglie...

"Aspettiamo per un po'," suggerì Ran. "Può darsi che accada qualcosa che ci faccia prendere una decisione al proposito. Per il momento, si può riposare... un po' di pace non ci farà male." Fece un gesto verso i servi. “Mangiamo qualcosa, ne riparleremo un’altra volta.”

Tutti si rilassarono e cominciarono a chiacchierare, mentre i vassoi col cibo cominciavano a circolare e qualcuno tirava fuori un liuto. 

Deyan si alzò e raccolse da sé il suo tappeto: fuori dalla sua casa non si portava alcun servo. Però non mangiava in compagnia degli altri predoni, era un privilegio che concedeva soltanto all’amico: per cui si diresse verso il cancello della grande casa. 

Ran lo accompagnò: evidentemente voleva restare qualche istante solo con lui. Deyan lo capì, e si lasciò seguire finché non giunse in un posto che fosse lontano da orecchie indiscrete. Quindi si tolse il cappuccio, e alzò lo sguardo sul sayanni che torreggiava su di lui.

“Provi ancora il desiderio di punirmi perché sono ciò che sono?”

“Ogni tanto, lo ammetto.” Ran sospirò. “Hai parlato dell’Augusto Consorzio, prima. Ancora i tuoi contatti segreti? Non hai ancora smesso di sperare?”

“Sperare cosa, di ritornare?” Un pallido sorriso incurvò le labbra di Deyan. “Hai avuto ragione a umiliarmi. E credo che ti sia piaciuto farlo davanti a tutti: potevi anche tendermi la mano affinché la baciassi, come fanno i liberti ai loro ex padroni.”

“Non ti ho mai fatto una cosa simile,” protestò Ran, sdegnato. “E mai te la farò: per chi mi hai preso?” Tirò un grosso sospiro. “Già, per chi mi prendi, per uno stupido? Per cosa stai usando me, tutta la Squadra Sacrilega?”

“Usando? Vi ho resi tutti ricchi e famosi. Siete voi che state usando me.”

“Sono ignorante, Deyan-shir; non sono uno sciocco.”

Il kelith tacque, per un lungo istante. 

“No, non sei uno sciocco. Sei un sayanni. Con tutto quel che ciò significa.”

“Se pensi che abbia ancora degli scrupoli a saccheggiare la mia gente...”

“Perché, non è così?” Deyan scosse appena la testa. “Mi dispiace, Ran. Finora tutto è stato anche troppo facile. Ognuno di noi ha avuto le primizie di ciò che voleva, ma tutto ciò non basta per quel sogno di cui Kurmaji ci aveva parlato. Le ricchezze di Sayanna ci sono negate, e questo è il primo, vero ostacolo verso il titolo di Khanshir."

"Maledizione! Lo so benissimo!" Ran si picchiò un pugno nel palmo aperto. "Ma io non sono per i sayanni quel che sei tu per i kelith, lo capisci o no? Sono un disertore di bassa lega, con una lancia che al massimo si è insanguinata con un capoplotone da due piume, tre guerrieri novellini e un mucchio di pellebianca senza valore... come potrei accettare una sfida? Perdere significherebbe la morte per me, o l'essere dichiarato schiavo, ed io ci sono stato così vicino una volta, non voglio ripetere l'esperienza..."

"E se sfidassero me?"

Ran lo fissò, incredulo. “Ma che stai dicendo?! Tu sei un kelith! Nessun guerriero sayanni potrebbe sfidare con onore un avversario così debole. Non avrebbe più il coraggio di entrare in una bettola: i commenti che sentirebbe!"

"Io non mi ritengo così debole. E, ragionando in termini sayanni, la mia casta non è certo la più infima di Kelitha..."

"È questo che non capisci! Ragionando in termini sayanni, la tua è la casta più infima di Kelitha, perché peggio dei nobili ci sono soltanto gli spiriti malvagi: almeno un contadino ha la sua ragione divina di esistere, ma voi...” Ran scosse la testa. “Nessun guerriero degno di questo nome terrebbe una spada macchiata del vostro sangue infetto, vi schiaccerebbe come si fa con una creatura schifosa, e poi butterebbe la scarpa perché contaminata!” Sbuffò. “Tu ancora non hai idea di quanto gli albini siano odiati, perché... perché ci sono io che te lo faccio dimenticare. Ma sono odiati, e io pure sono odiato a causa tua, come Teji mi ha ben ricordato. Altroché essere un principe tra la mia gente, ho il prestigio di un cane randagio...”

“Solo tra gli sciocchi.” 

Deyan tese la mano, in un rarissimo gesto d’affetto, e la posò sul braccio nerboruto di Ran.

“Se ti vedesse il tuo Saal a fare una cosa del genere,” mormorò Ran, sentendo il calore di quella mano. 

“Lascia Saal dove si trova. Lui non può capire.” 

“Che un principe e un predone possono essere amici?”

“Un principe o uno schiavo?”

“Un predone o un disertore?”

“Un kelith e un sayanni, allora. Anzi... due uomini di pari dignità, che vivono sotto le stesse due stelle. Perché è questo che siamo, oltre alle nostre differenze.” 

Ran ridacchiò, con occhi lucidi. 

“Raccontalo a Saal, se ci riesci!” 

“Già, e non solo a lui.” Gli occhi rossi ebbero uno scintillio astuto. “Quest’insegnamento dovremmo darlo a tutta Luna di Fuoco... e soprattutto alla tua gente. Che accadrebbe se fossi io a sfidare un capo sayanni?”

Ran battè le palpebre. “Tu?”

“Non potrebbe rifiutarsi, perché sarebbe considerato un codardo. Non avrebbe altra soluzione che battersi per il suo onore, anche se con un esecrato albino. Non è così?"

Il sayanni scosse vigorosamente la testa.

"Lascia perdere, Deyan-shir. Dovresti combattere solo, in singolar tenzone e a mani nude, o al massimo con una spada: e avresti di fronte uno di noi. Su Sayanna le montagne sono magiche, e ogni cosa laggiù pesa di più che nel tuo paese, noi compresi: questo rende la nostra forza fisica incomparabilmente maggiore di quella della tua razza, senza contare che i migliori guerrieri hanno anche la tecnica, non sono solo ammassi di muscoli ciechi... So che sei un abile combattente, che sei coraggioso, ma non sei un pazzo: promettimi che non farai una sciocchezza del genere!”

Deyan fece un remoto sorriso, e fece per andarsene.

Ran guardò la sua figura che si allontanava e gridò alle sue spalle: “Almeno promettimi che la farai solo quando riuscirai a battere me!”

Il kelith si fermò, si voltò e si rimise il cappuccio.

“D’accordo, Ran. Hai la mia parola.”

E se ne andò. 

 

 

 





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