Il profumo delle Marguerites

di LawrenceTwosomeTime
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Fuori il cielo strillava. O meglio, stillava: stillava acqua con grande spreco di rumori tonanti ed effetti speciali.
Il temporale che si era abbattuto sulla Radura del Ranuncolo era di quelli tosti, abbastanza da spaventare i cuccioli di orsetto lavatore che si stringevano nelle loro tane poco al di sotto delle radici sporgenti.

“È la Terra che si lava il viso”, soleva dire Marguerite.
“O Cernunnos che si fa le seghe”, replicava Damién.

In giornate come quelle, giornate che lui trascorreva in giro per il bosco a raccogliere bacche e radici (questo prima che piovesse, ovviamente) e lei nello scantinato a rimestare intrugli, il piacere di ritrovarsi sulla soglia di casa, nell’abbraccio della coperta notturna, era più gradito che mai.
Insomma, lei sapeva prevedere con esattezza in capo a quanto sarebbe piovuto; ma non glielo diceva. A lui andava bene così.

E perciò quella sera Damién rincasò imperlato di pioggia, una pioggia che scendeva in goccioloni così grandi da sembrare gelatina, si liberò in fretta della casacca e depositò con cura il bottino. Poi si ricordò degli stivali. Non se li era tolti.
“Maledizione”

Lei stava già salendo le scale. Se avesse trovato impronte di fango, come minimo gliel’avrebbe accorciato di cinque centimetri. Non perse tempo a far di conto per calcolare cosa gli sarebbe rimasto. Agguantò gli stivali e li gettò sul portascarpe, afferrò la blusa bagnata e cominciò a sfregarla compulsivamente sul pavimento di legno. Infine gettò la veste nel fuoco.

“Allora sei qui, topolino dal pelo arruffato!”
Gli occhi di Marguerite erano come due pianeti in rotta di collisione. Venere contro Marte.
Era strabica. E pure eterocroma.
Damién l’amava per queste e per molte altre ragioni.

Era una ragazza comune, Marguerite. Sulle prime non ci trovavi niente di interessante. Ma col tempo imparavi ad apprezzarla, passando senza soluzione di continuità da una tiepida simpatia all’ammirazione più smodata.
Aveva capelli castani, lunghi, pelle bianca spolverata di lentiggini, e un fisico snello, vagamente spigoloso.

Damién, che pure aveva un aspetto ordinario, aveva capito fin da subito che le loro normalità erano di tipo diverso, e che in qualche modo si sarebbero scontrate – il che, non necessariamente con esiti negativi.

“Adesso siediti e bevi questa”, disse lei con un tono che non ammetteva repliche, dispotica e insieme premurosa come solo un angelo del focolare sa essere. Gli aveva preparato una cioccolata alle nocciole, e poco vicino alla tazza svettava una fetta di crostata dall’aspetto succulento. Damién non riusciva a capacitarsene: quel dolce aveva sempre lo stesso sapore, ma ogni volta che l’assaggiava… la sensazione di scoperta prevaleva su tutte le altre; come rivivere lo sboccio del primo amore ogni pomeriggio.

“Sei proprio una strega”
“E tu un ruffiano”
“Di’ la verità, mi stai facendo ingrassare per trasformarmi in uno dei tuoi manicaretti”
“Quel decotto di prezzemolo che bevi tutte le mattine serve a mantenerti in forma, genio… Se cominci a mettere su ciccia, non potrai più coltivare l’orto, né aiutarmi con i lavori di riparazione del tetto. Ti conosco, persino il bucato sarebbe una seccatura!”
“E cosa c’è dentro al decotto di prezzemolo?”
“Prezzemolo”
“E poi?”
“Beh, l’acido formico contenuto nel fegato del formichiere funge da ignitore del metabolismo, e… qualche giuramento apostasico minore, niente di che”
“Suppongo che dovrei dirti grazie”
“Un gesto vale più di mille parole. E bada di non bruciare un’altra blusa”

Fecero l’amore nel suono della pioggia battente, attorniati dai volti di dei dimenticati e folletti dall’espressione complice. Quando le nubi si dissiparono lasciando il posto alla luna, le pietre di cui era composta la casa si accesero dei colori primari del mondo, investendo i loro corpi abbracciati di una luce flebile e irrequieta.
Con le pagode cartacee di Marguerite che nuotavano come pesci nell’aria, e i riflessi fumosi che ardevano, simili a fantasmi, sulle loro nudità, parevano due polene che si fossero trovate sul fondo del mare.

Venne il mattino, e con esso una sorpresa.
Damién stava accarezzando il collo di Marguerite, quando una scaglia di pelle se ne staccò con un timido crepitio e gli rimase in mano. I tessuti della donna, verdi come gambi di sedano, palpitavano nel chiarore del primo sole.
“Amore, svegliati. È giunta l’ora del Passaggio”
Marguerite si tirò su con calma, ravviò una ciocca ribelle e lo guardò.
“Mi lavo i denti e arrivo”

Essendo una strega per nascita, Marguerite non era propriamente umana. La leggenda voleva che quelle come lei venissero al mondo quando una Conifera Carnifoglia – una pianta carnivora importata dall’Estremo Oriente – portava a termine una “gravidanza” dopo essere stata fecondata dal Serpente d’Avorio, e nutrita – non si sa bene come, quando o da chi – con sangue di vergine.
Se in quella particolare occasione c’era la luna piena, la neonata ancora sporca di liquido amniotico diventava una strega.

Una strega è composta parzialmente di tessuto organico, e in minima misura di materia ineffabile, un composto proteico dalle straordinarie proprietà mistiche, la cui sintesi perpetua rende la donna in questione virtualmente immortale. Ma a una condizione.
Nel periodo della sfoliazione, cioè quando la strega comincia a “spellarsi”, è necessario che qualcuno la rivesta con una nuova epidermide seguendo un ben preciso rito. Se la strega rimane “nuda” troppo a lungo, i tessuti cominciano a decomporsi, e la donna diviene una Conifera Carnifoglia.

Damién condusse Marguerite nello scantinato badando a non sostenerla con troppa enfasi (lei detestava sentirsi un peso), la aiutò a calarsi nel loculo pieno di collagene proteico e poi la issò di nuovo fuori.
In un angolo, l’albero della gomma sintetizzato da un campione delle unghie di Marguerite protendeva i suoi rami fino al soffitto. La donna versò un composto di gesso e segatura nelle scanalature del sarcofago modellato secondo le sue sembianze e vi si stese.
Damién aveva già acceso il Bollitore e collegato le siringhe all’albero. Mentre aspettava che il macchinario si scaldasse, ne approfittò per annusare ancora una volta Marguerite. Il profumo di violette si era fatto molto flebile; il suo corpo si stava trasformando in un groviglio di nervature pallide e contorte.
“Chissà che profumo avrà?”

Tutte le volte che lo facevano, lei rinasceva più bella e forte di prima, identica a sé stessa come potrebbero esserlo due gemelli l’uno per l’altro. Con la sola eccezione dell’odore.
Un anno sapeva di mandarancio, l’anno dopo di fragole, l’anno dopo ancora di chiodi di garofano. E con il nuovo odore, venivano nuove sfumature caratteriali, delicate deviazioni di percorso nella sua personalità.

La tinozza incistata nel Bollitore prese a sbuffare e a vomitare vapore. Era il momento.
Damién strizzò affettuosamente le dita di Marguerite, di quella Marguerite, per l’ultima volta. Poi riversò il contenuto della tinozza nel sarcofago. Il liquido bianco, simile a latte (o ceralacca fusa) la ricoprì dalla testa ai piedi.

Marguerite tremò nel suo bozzolo rovente. Fu breve e doloroso.

Poi ci fu uno schiocco viscido, e la donna aprì gli occhi. Si sporse cautamente fuori dal contenitore.
Si stirò, si guardò le mani.
Bianca, e nuova, e perfetta.

Damién inspirò a pieni polmoni. Miele. Miele d’acacia.
Decise che quell’aroma gli piaceva di più di quello delle violette. Era più carezzevole, meno ambiguo.

“Tesoro, saresti così gentile da passarmi i vestiti?”

Quel pomeriggio si dedicarono a ripulire il vialetto dalle erbacce. Seduti di fronte a casa, grondanti per il caldo, stavano sorseggiando una bevanda d’orzo.

“Non so proprio come avrei fatto senza di te”, disse la strega.
“Potrei dire la stessa cosa, amor mio”
Marguerite ammiccò senza malizia.
“Dev’essere stato il Dio della Foresta a portarti da me. Sei giunto con un tale tempismo, quando io ne avevo più bisogno… e senza che io dovessi incoraggiarti con un filtro d’amore, ti sei donato a me”
Lui tacque e ripensò al loro primo incontro.
“Il tuo precedente marito era morto da poco, vero?”
“Il caro Joyce, che riposi in pace. Novantasette anni sono una buona età per andarsene. La vita era stata crudele con lui, ma gli anni trascorsi insieme l’hanno ampiamente ripagato delle sofferenze”
“E tu lo amavi ancora, nonostante… le rughe e i difetti della vecchiaia… e tutto il resto?”
“Te l’ho detto. Per quelle come me il tempo è un’unità di misura relativa”

I bombi ronzavano cantando le lodi dell’estate.

“Ripenso a quando ci siamo incontrati per la prima volta. Eri solo un ragazzino”
Lui ridacchiò.
“Già. Volevo ucciderti. Mi avevano raccontato che mia madre era stata mangiata da una strega”
Ora a ridere erano in due.
“Poi tu mi spiegasti cos’è il cancro, e che probabilmente era stata una malattia a mangiarsi la mamma. E che tu avresti potuto salvarla. Il resto è pura felicità, per quello che ricordo”
Damièn le appoggiò la mano su un ginocchio.
“In un certo senso, si può dire che mi hai mangiato. Hai divorato il mio cuore, i miei pensieri… e il mio corpo”
Marguerite posò la mano sulla sua.
“Certo che ti ho mangiato, sciocco ragazzino. Una parte di te è ancora nel mio ventre, e potrebbe volerci del tempo… potrebbero volerci mesi, prima che esca fuori”




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