Demoni e angeli

di Sylphs
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Capitolo 10
 

 
 
 
 
“Signor Jesper, dov’è mia sorella?”
Jesper osservò la ragazzina che lo fissava con grandi occhi nocciola e con un pallore ansioso sul volto paffuto e incorniciato dai capelli allisciati ad arte e serrò i pugni dietro la schiena, imponendosi di non lasciar trapelare nulla del tormento che gli si agitava dentro come un serpente inquieto dal suo timbro vocale: “È partita. Un piccolo viaggio prima del matrimonio. Da quell’amica londinese, pare. Dovrebbe tornare tra quindici giorni”.
Hannah sbatté le palpebre e lo fissò, l’incomprensione stampata a chiare lettere sulla fronte. L’assenza di Harriet, per lei, non aveva senso, giacché non l’aveva mai lasciata sola ed era dunque impossibile che lo avesse fatto adesso. Un profondo fastidio si impossessò del giovane Lawrence di fronte al suo sguardo scettico e spaventato; non la biasimava, lui stesso non avrebbe creduto con facilità ad una spiegazione così traballante, ma i problemi che lo opprimevano erano così tanti, che non poteva certo dedicare la sua attenzione a quella ragazzina idiota. Sua madre si era rivelata assai più malleabile al convincimento, tanto stupida e cieca da pensare che se lui non era in ansia per la promessa sposa, non c’era assolutamente niente da temere. Era il tipo di donna che cerca di crearsi meno problemi possibili.
Lo stesso non si poteva dire di Hannah Ullmann.
“Ma…” obiettò, esitante, intimorita da lui, nonostante tutto: “…non è possibile! V-voglio dire…se fosse partita, avrebbe…avvertito, lasciato almeno un biglietto…lei non è…”
Jesper iniziò a perdere la pazienza. Non era abituato a trattare con gli adolescenti, a far fronte alle loro domande supponenti e indisponenti, e soprattutto non era pronto a sostenere un interrogatorio su Harriet…che era scomparsa ormai da due giorni e la cui assenza era stata ovviamente notata…come se non fosse già abbastanza terribile dover convivere con la consapevolezza che il pazzo che si proclamava suo fratello l’aveva rapita, conducendola in un nascondiglio segreto, per ricattarlo e pretendere un pagamento impossibile…riconoscerlo come Lawrence sarebbe stata la rovina sociale della sua famiglia…e che se non avesse preso una decisione in merito in tempo, i suoi piani, la sua redenzione sarebbero andati in frantumi, e avrebbe perso la sua unica occasione di rimediare agli errori del passato. Quel mostro maledetto lo aveva rovinato, rovinato…colpendolo proprio laddove era più vulnerabile…e quel bastardo di Berg era un vero osso duro, Christine stava ancora tentando di convincerlo a braccare Raphael. Purtroppo, il vecchio era la loro unica speranza di risolvere la faccenda senza riesumare i peccati dei Lawrence e senza perdere Harriet e ciò che rappresentava. Poiché Jesper non poteva cedere al ricatto, ma neanche lasciare che la sua fidanzata morisse. Era in un vicolo cieco. E la tensione, la paura, l’odio rischiavano di uccidere la sua mente fredda e lucida e di fargli commettere imprudenze.
In quel momento, avrebbe volentieri fatto sparire tanto la madre quanto la sorellina di Harriet, ma Christine gli aveva consigliato cautela. La situazione era estremamente delicata, e un solo passo falso avrebbe potuto distruggere il fragile castello di carte che avevano costruito con tanta cura. Già era scomparsa una Ullmann, se anche le altre due si fossero dileguate, Lawrence Borg si sarebbe riempito di poliziotti, investigatori, curiosi. E tutti i segreti che suo padre aveva custodito gelosamente nel castello sarebbero venuti alla luce. No, non l’avrebbe permesso; al di là del suo coinvolgimento personale nella questione, aveva un rispetto profondissimo per il genitore deceduto e per la nomea irreprensibile della sua famiglia e non li avrebbe infangati, mai e poi mai. Forse era persino disposto a…se Berg non avesse scoperto il nascondiglio del mostro in tempo…lasciare che Harriet…
Gliel’avrebbe fatta pagare. Avrebbe inflitto a quell’essere ogni singola stilla di sofferenza che gli stava causando adesso. Non gli era bastato mettere Ursula contro di lui, frantumare il suo unico desiderio puro e semplice, quell’amore che lo aveva fatto sentire se stesso, più di qualsiasi altra cosa…no, aveva dovuto colpirlo una seconda volta, e sempre nello stesso punto, devastargli la vita e schiacciarlo per puro sadismo, per insensata brama vendicativa, per cattiveria intrinseca…suo padre e Viktor avevano ragione, i mostri vanno eliminati, soppressi, giacché infettano il mondo con la loro presenza e sono malvagi per natura. E lui lo avrebbe neutralizzato, avrebbe vaporizzato quella piaga umana e l’avrebbe ricacciata nella putrida fossa da cui proveniva e dove era giusto che stesse…come si era permessa di rivendicare il proprio ruolo in un mondo che non le apparteneva?! Come aveva potuto pretendere di essere degna del proprio cognome?
Di una sola cosa rimproverava suo padre: non averlo ucciso quando ne aveva la possibilità. Era stato troppo morbido con quella cosa.
“Ehm…signor Jesper?” lo chiamò Hannah, esitante, ma determinata a saperne di più.
“Cosa vuoi che ti dica?!” gli uscì un tono più seccato di quanto avesse voluto: “Harriet è partita per Londra, tutto qui. Si sa che il periodo prima delle nozze è strano, avrà voluto starsene un po’ da sola, tagliare i contatti…credi che sappia come funziona il suo cervello? Che motivo avrei per mentirti, sentiamo un po’?”
La ragazzina trattenne il respiro e arretrò di qualche passo, le guance spruzzate di una vampata scarlatta. Negli occhi le passò uno scintillio fugace, colmo di rancore, prima che girasse sui tacchi e abbandonasse il salotto nel quale avevano conversato a grandi passi. Jesper udì la porta che sbatteva e si lasciò cadere su una poltrona di velluto cremisi come un peso morto, sprofondandoci e fissando con i bulbi oculari lucidi e arrossati le braci nerastre nel camino spento. La sua non era stata una grande mossa. Quella mocciosa si era senz’altro insospettita. Avrebbe cominciato ad indagare, fare domande, e lo avrebbe messo in una posizione scomoda, lo avrebbe costretto a giustificarsi…perché non se ne poteva stare buona in un cantuccio?! Perché gli esseri umani sapevano essere così irritanti? Perché era tutto così maledettamente complicato? Le cose non potevano andare per il verso giusto almeno una volta? Aveva sempre giudicato le dicerie circa una maledizione che opprimeva la famiglia Lawrence fandonie superstiziose, ma iniziava ad esserne meno sicuro. Forse la sua famiglia era realmente perseguitata dalla malasorte.
Solo ora mi sono accorta di essermi sbagliata, di essermi legata al membro di una famiglia di mostri. E non resterò vincolata ad un mostro solo in nome di ciò che è stato, al fratello di un assassino!”
Rilasciò un gemito di pura frustrazione e afferrò, in un moto di furia incontrollata, il delicato orologio di porcellana bianca a fiori della sua compianta madre, ordinatamente riposto sulla mensola sopra al camino, scagliandolo contro ad uno dei muri intarsiati. Andò in mille pezzi con un rumore stridente e i fragili pezzi diafani si sparsero sul pregiato parquet, assieme a qualche rotella e ad una delle lancette. Distruggere quel cimelio di famiglia lo fece sentire stranamente più padrone della situazione, meno in balia degli orrori e del marciume che si nascondevano negli oscuri recessi del maniero. Per la prima volta in tutta la sua esistenza, non avrebbe voluto essere un Lawrence. Se non lo fosse stato, nessun folle mostruoso gli avrebbe strappato i parenti scannandoli a sangue freddo e Ursula non avrebbe mai avuto motivo di lasciarlo, di prendere le distanze da lui e dall’oscurità che si portava dietro, non l’avrebbe mai obbligato a…
“Cos’è, ci diamo al lancio degli oggetti pregiati?”
Grugnì e levò sulla figura comparsa sulla soglia uno sguardo cupo e alquanto poco ospitale. Non era proprio in vena di gestire una conversazione con quella puttana di Christine. Gli era utile, molto utile, perché era indubbiamente una donna intelligente e pratica, ma non aveva nulla dell’arrendevolezza e della docilità di Harriet e di sua madre Ingrid e spesso e volentieri riusciva a tenergli testa e a rivendicare un ruolo di dominanza che non le apparteneva. E poi aveva bisogno di stare da solo, di isolarsi con i propri demoni e consumarsi nella rabbia repressa e nell’atarassia più totale.
Ma lei non era dello stesso avviso.
Si chiuse la porta alle spalle, di modo che non potessero essere uditi, e si tolse di dosso la voluminosa pelliccia di visone nero che Jonas le aveva regalato circa due anni prima, appoggiandola su un divano insieme alla borsa di pelle. Le guance e il naso arrossati dal freddo e i capelli fulvi leggermente arruffati testimoniavano che doveva essere appena rientrata a Lawrence Borg. Esaminò i frammenti di porcellana disseminati a terra e increspò le labbra in una smorfietta di divertimento ed esasperazione: “Non ho mai capito cosa ci troviate voi uomini di tanto catartico nel rompere gli oggetti. Molto passionale, senza dubbio, ma fin troppo teatrale, non credi?”
Jesper conficcò le unghie nei braccioli della poltrona: “Lasciami stare, Christine”.
Lei sollevò un sopracciglio: “Ho visto la cicciona vegetariana andar via di qui a passo di carica. Sembrava molto sconvolta. Non ti avevo raccomandato di andarci cauto? È già abbastanza seccante dover placare quelle due con una bugia raffazzonata e inventata su due piedi, ora dai loro anche motivo di sospettare di noi?”
Jesper si sentì punto sul vivo. Non avrebbe accettato una ramanzina, meno che mai da quella sgualdrina arricchita che aveva fatto fesso suo fratello per avere il suo denaro: “Non ho tempo da perdere dietro a quelle donne”.
“Ragioni come un bambino” sibilò la sua interlocutrice, sprezzante: “Se scoprono di quel mostro, sai bene che chiameranno qualcuno per indagare e che verranno alla luce cose che non devono venire alla luce. È importante riuscire a convincerle che è tutto sotto controllo”.
Il giovane ebbe uno scatto della testa, come se una zanzara lo avesse punto dritto nell’orecchio. Lei aveva ragione. Era questo che più di tutto lo mandava in bestia. Si stava comportando in modo nient’affatto intelligente, e rischiava di dare a Raphael esattamente quello che voleva. Non si sarebbe permesso di cadere tanto in basso da invidiare Christine e la sua freddezza lucida e calcolatrice, ma se andava avanti così, l’esistenza del figlio più piccolo non sarebbe rimasta segreta ancora a lungo.
“Ti sembra facile?” bisbigliò furiosamente, drizzandosi in piedi e misurando il salotto avanti e indietro: “Far finta che una persona sia partita per un viaggio così come un fulmine a ciel sereno, senza avvertire né salutare nessuno, senza una nota di commiato, mettendo a parte del suo progetto solo me?! Le Ullmann sono due idiote, ma non fino a questo punto”.
Christine sedette in bilico sulla spalliera del divano, accavallando le gambe inguainate in lunghi stivali di pelle, e si aprì una bottiglietta di birra che Jesper non aveva notato, bevendone un sorso generoso: “Non ho detto che sia facile, infatti” disse dopo aver deglutito: “Ma non abbiamo altra scelta. Finché Harriet non salta fuori, bisogna coprire la sua assenza. Comunque ho fatto in modo che la sua valigia, i suoi effetti personali e alcuni dei suoi vestiti sparissero e mi sono messa in contatto con certi amici di famiglia. Il suo nome figurerà tra i passeggeri del volo per Londra di due giorni fa. Questo dovrebbe essere un fattore convincente, per le ciccione”.
Il secondogenito di Hugo non disse nulla. Non voleva ammettere di essere rimasto colpito dallo spirito di organizzazione della sua alleata. Pochi, in una situazione simile, sarebbero stati capaci di agire con la prontezza e l’acume da lei dimostrati. Era stata più astuta di lui…e dato che finora l’aveva sempre in qualche modo sottovalutata, perché era una donna, perché proveniva da un ambiente degradante, perché sembravano interessarle solo l’alcol e i soldi, la consapevolezza di aver emesso un giudizio affrettato gli lasciò un sapore amaro in bocca. Non aveva mai reputato Christine pericolosa, era stato sicuro di poterla tenere al guinzaglio senza problemi…ora, dinnanzi al luccichio dei suoi occhi, si ritrovò a temerla per la prima volta.
“Bene” borbottò, in un tono che poteva voler dire tutto o niente.
Se anche lei si era accorta del suo stato d’animo, non lo diede a vedere: “E porto buone notizie” proseguì con falsa noncuranza, rimirandosi le unghie smaltate.
Un barlume di speranza si accese nel petto di Jesper e per la prima volta si protese verso di lei, sinceramente interessato a quanto diceva: “Quali?”
“Berg” la donna pronunciò il nome dell’antico istitutore dei ragazzi Lawrence arricciando le labbra in una maniera che rendeva più che mai palesi i suoi sentimenti verso il soggetto: “Sono passata alla pensione in cui alloggia. Si è convinto a lavorare per noi…beh, ovviamente a patto di non consegnarci Raphael, ma ci siamo già messi d’accordo al riguardo”.
In effetti, era una notizia decisamente positiva. Aveva ostentato sicurezza con la sua alleata e si era dichiarato certo che l’uomo avrebbe infine acconsentito ad aiutarli, ma in un angolo di se stesso non aveva mai deposto la paura di ricevere un rifiuto. Berg era un individuo imprevedibile, con una severa e inossidabile concezione di giustizia, ed era sempre difficile prevedere cosa pensasse e cosa volesse…ora che lo avevano dalla loro parte, forse c’erano speranze di mettere nel sacco il mostro e strappargli Harriet. La prospettiva più rosea che si potesse verificare.
“Probabilmente” disse tra i denti: “Si sarà convinto quando ha saputo del rapimento della mia fidanzata…”
“Esatto” rispose Christine: “Tutto sommato penso che sia un sentimentale. Ha chiesto assoluta libertà di movimento nel castello e facoltà di entrare e uscire a suo piacimento, e agli orari che più ritiene giusti. Gliel’ho concessa, ma…”
“Hai fatto bene. Abbiamo bisogno di lui, in fin dei conti. Non sarà un problema mettergli qualcuno alle calcagna” si soffermò un attimo, pensieroso, poi la guardò: “C’è quell’anziana cameriera…quella Eva…lei ha visto cos’è successo…potrebbe parlarne in giro…”
Un sorriso complice e quasi giocoso si allargò sul volto di Christine, le sue iridi bluastre diedero in un guizzo vibrante: “Non hai saputo, quindi!” sospirò: “La poveretta è morta questa mattina. Proprio mentre faceva colazione. Il cuore ha ceduto. Del resto, era parecchio decrepita…ma solo una domestica senza famiglia, nessuno se ne rincrescerà troppo”.
Jesper sussultò internamente, stupefatto suo malgrado. Si era liberata di Eva…senza neppure consultarlo, chiedere se era d’accordo, discuterne con lui! Aveva giocato con la vita e con la morte dei suoi dipendenti e se ne gloriava con quell’aria di divertita sufficienza, come se fossero bambole e lei una bambina bramosa di manovrarle…la vecchia era ormai un fardello inutile, e per giunta aveva lasciato che Harriet venisse rapita senza muovere un dito, ma Christine non aveva nessun diritto di ammazzarla e prendere certe decisioni da sola.
“Che cosa hai fatto?!” ruggì: “Dici a me di andarci cauto?!”
Lei lo osservò sbattendo le palpebre, piena di incomprensione almeno apparente: “Perché te la prendi? Aveva ottanta e rotti anni, è normale che…”
“Non farmi ridere, Christine! So che cosa…”
Con un unico, fluido movimento, la donna si portò davanti a lui e gli chiuse le labbra con un dito, mettendolo a tacere: “La vecchia è morta di morte naturale, Jesper” sentenziò come se fosse una verità universalmente riconosciuta, fissandolo intensamente negli occhi: “È così che è andata. E non vogliamo essere noi stessi a seminare sospetti, spero”.
Lui serrò i pugni. Avrebbe voluto schiaffeggiarla, con forza, e farle abbassare la testa, toglierle dalla faccia il sorrisetto di vittoria. Ma ancora una volta, quella troia aveva ragione, non poteva attirare l’attenzione. E oltretutto, lei gli serviva. Era uno strumento troppo utile per sacrificarlo.
“Non puoi prenderti certe libertà” soffiò, riducendo gli occhi a fessure.
Christine gettò indietro la testa con spregiudicatezza: “Finora abbiamo agito a modo tuo, Jesper. E si sono visti i risultati. Ho intenzione di prendere parte attiva al piano. E di rivoluzionare le cose” gli offrì un sorriso duro come l’acciaio: “Suvvia, tesoro, non è il caso di rabbuiarsi così. Abbi fiducia, per una buona volta. I nostri interessi sono gli stessi, lo sai bene. Quello che faccio, lo faccio per entrambi” alzandosi in punta di piedi, gli sussurrò all’orecchio, in un refolo di fiato caldo che gli fece correre un brivido lungo la schiena: “Quel mostro morirà. Te lo prometto”.
Il giovane si scostò, fissandola: “Non provi mai” esitò, temendo che lei potesse leggergli nelle pupille il ricordo di Ursula: “Un po’ di…rimorso?”
Il viso di sua cognata sembrò perdere ogni emozione: “No” replicò, neutra: “Per arrivare dove sono arrivata, è d’intralcio e basta”.
 
Harriet sognava un ricordo dimenticato, nelle profondità della terra fredda e inospitale, prigioniera del buio e di un mostro vendicativo e crudele di cui tuttora ignorava i piani. Un ricordo che scaturiva da un passato lontano, tratto fuori dall’oblio dalla sua sventurata condizione, forse, o dalla paura che era divenuta una presenza fissa accanto a lei, un mostriciattolo rachitico e maligno appollaiato sulla sua spalla, con gli artigli tenacemente piantati nei suoi riccioli e gli occhi baluginanti nelle tenebre, che non le dava mai tregua ed era sempre pronto a bisbigliarle parole oscene nell’orecchio.
Nel suo sogno, o reminiscenza, o qualsiasi cosa fosse, si trovava a letto, nella sua antica casa, e il sonno dolce e innocente proprio dei bambini tardava ad avvolgerla, mentre si crogiolava beatamente sotto il tepore delle coperte. Anche se in realtà non era più una bambina, come tutti le ripetevano, aveva già quattordici anni. Ma le piaceva pensare di esserlo. Era bello immaginare di vivere ancora il periodo d’oro di quando era piccola. C’era un’immagine che, fissa nella sua memoria, le provocava una sensazione di pace, di felicità ormai passata per sempre. Nella fotografia che le era rimasta stampata nella mente era raffigurato un uomo bellissimo e fiero, nobile d’aspetto, con gli occhi che parevano sprigionare luce propria e le labbra sempre pronte a sorriderle con calore e gentilezza. Suo padre quando ancora tutto andava bene, quando lei era la sua piccola principessa e non mancava di portarle regali, prendendola tra le braccia e baciandola su tutta la faccia con la sua bocca morbida. Allora, forse, alcune volte, aveva colto, dietro al suo atteggiamento gioviale e radioso, un’indecifrabile angoscia mista ad un’ansia che, dalla bambina quale era, non si era potuta spiegare, ma non si era mai soffermata a pensarci più di tanto, aveva preso ciò che il genitore le aveva dato e ne aveva fatto tesoro.
Ma ora lo vedeva diversamente, dal punto di vista di una ragazzina di quattordici anni, e capiva che già allora c’erano state avvisaglie di ciò che sarebbe diventato, della voragine di disperazione in cui sarebbe sprofondato, facendosi sempre più apatico, assente e morto, come se abitasse un altro mondo e nel suo nuovo mondo non ci fosse spazio per nessuno, tantomeno per lei o per Hannah. Eppure lo amava e lo apprezzava ancora di più per gli sforzi compiuti quando era piccola. Quell’uomo così sconsolato era riuscito a mettere da parte il proprio dolore per lei, sua figlia, tanto da far apparire alla bambina quei momenti come i migliori della sua intera vita. Inoltre, quando rievocava i ricordi, scopriva di provare un amore indicibilmente forte per lui, tanto forte da resistere per anni e anni senza perdere la propria intensità. In fin dei conti erano passati quasi quattro anni da quando era caduto in depressione, e ancora non si era arresa a lasciarlo consumarsi e smarrirsi definitivamente nelle tenebre.
Quanto a sua madre, le voleva bene, ma era un affetto diverso, come dovuto, non le scaturiva dal fondo dell’anima per riscaldarle a fiotti il petto. Era un affetto freddo, insensibile, l’affetto che una figlia deve provare per colei che l’ha messa al mondo, come l’attaccamento di una gatta per i suoi micetti, abbandonati malamente appena giunge l’età in cui non hanno più necessità delle cure materne. Le dispiaceva pensarlo, ma sarebbe stato inutile fingere il contrario. Del resto, quella freddezza era reciproca: Lisbeth era troppo opportunista e presa da se stessa per dedicarsi a lei (o al marito) e quello che più temeva era che la depressione di quest’ultimo li avrebbe fatti finire tutti per strada, non si preoccupava per la salute di lui. A volte, Harriet sentiva di odiarla.
E ora se ne rimaneva a letto senza riuscire a prendere sonno, rigirandosi tra le coperte, sempre più inquieta, sapendo che sua madre era andata a cena con alcune amiche, Hannah a dormire dalla compagna di classe Fanny, e che dunque lei e suo padre erano completamente soli in casa, divisi dalla parete che separava le loro camere da letto. Lui non usciva mai dalla propria, rimaneva tutto il giorno a letto con le serrande abbassate, stordito dai tranquillanti o intento a leggere libri su libri, e non l’aveva fatto neanche quella sera, anche se Harriet l’aveva tanto sperato. In effetti, il fatto che Lisbeth e Hannah fossero assenti l’aveva portata a pensare che forse sarebbe uscito dal proprio isolamento, per lei, perché condividevano un’intesa speciale ed era sempre stata la sua preferita. Ma naturalmente, una patetica ragazzina non poteva certo spingere un uomo gravemente depresso ad emergere dalla sua tana. Era stata una stupida a partorire certe puerili speranze. Alle ventidue e trenta si era decisa finalmente a mangiare sola in cucina la cena che sua madre le aveva lasciato, ormai fredda, e poi si era coricata, colta da un’insensata e bruciante rabbia, per se stessa, per suo padre, per tutti quanti.
Per questo lasciava che i ricordi dell’infanzia affiorassero così liberamente, a mille a mille, senza porre loro alcun freno, e per questo non riusciva ad addormentarsi, a sgombrare la mente abbastanza da scivolare nel dolce oblio del sonno.
Un fruscio inatteso, appena fuori dalla porta, interruppe i suoi pensieri bruscamente. Si mise a sedere, spaventata.
Chi poteva essere a quell’ora? Sicuramente non sua madre, dato che non aveva sentito aprirsi la porta d’ingresso. Ma del resto non aveva nemmeno udito suo padre lasciare la propria stanza, ed era assolutamente impossibile che fosse lui il visitatore (non veniva più a darle la buonanotte da quattro anni, e sarebbe stato insensato farlo quando si presumeva che lei dormisse da un pezzo). Ma in questo caso sull’uscio di camera sua c’era qualcuno che voleva farle del male, un ladro forse!
Non aveva motivi validi per pensarlo, ma avvertiva un senso di pericolo, di minaccia, che la schiacciava al suolo come un macigno, e sapeva, sentiva che la presenza fuori dalla sua camera era ostile. Pensò di urlare e chiamare aiuto, ma si rese conto di essere impietrita dalla paura. Non si era mai trovata in una situazione del genere, e non aveva idea di come comportarsi. Doveva trovare un’arma? Nascondersi?! Piantarla di porsi sciocche domande e agire prima che fosse troppo tardi?
La maniglia si abbassò lentamente e la porta iniziò ad aprirsi, cigolando. La ragazza era al colmo del terrore e non aveva il coraggio di muovere un muscolo. Il cuore le batteva nel petto ad una velocità spaventosa, le sembrava di avere nel torace l’organo di un’altra persona, tanto questo si dibatteva. Come un animale selvaggio chiuso in una gabbia, che non vede l’ora di uscire e stupidamente si dimena con foga nelle pareti della sua prigione, cercando uno spiraglio di salvezza.
La porta si spalancò del tutto e la luce del corridoio la investì in pieno. Poteva vedere chiaramente ogni cosa attorno a lei, tranne la figura in piedi sulla soglia, che risultava essere totalmente in ombra. La tensione aveva raggiunto il massimo, il suo animo era talmente pieno di angoscia che neppure la più piccola idea riusciva ad intrufolarvisi saltellando da qualche luogo recondito della sua mente. Aveva voglia di gridare, di afferrare il primo oggetto che le fosse capitato a tiro e tirarlo contro quella creatura ignota che voleva sorprenderla nella vulnerabilità del sonno.
Poi questa parlò, e la sua voce smorta, atona e familiare le entrò nel corpo raggelato, riscaldandolo, come una sorta di antidoto ad un orribile veleno mortale che la stava lentamente pietrificando.
“Cosa ne sarebbe di te se ti lasciassi andare? Non posso vederti soffrire. Preferisco separarmi da te, per sempre, piuttosto che vederti in preda ai tormenti”.
“Papà!” sussurrò Harriet, stupita e lieta insieme, scostando impetuosamente le coperte e fissando l’uomo in piedi sulla soglia che aveva parlato come se avessero già avviato una conversazione, o come se piuttosto si fosse impigliato, poco prima, in un ragionamento contorto cui aveva dato voce solo adesso, in sua presenza. Il cuore, che si era placato un attimo quando aveva riconosciuto la voce del genitore, riprese a batterle forte, ma certo non per il terrore, bensì per un’improvvisa ondata di felicità ed emozione: era tantissimo tempo che non discorreva più a tu per tu con lui e quasi non riusciva a credere che fosse venuto nella sua camera. Poco importava che lo avesse fatto a mezzanotte e che si fosse messo a bofonchiare tra sé.
Mosse a tentoni la mano in cerca dell’interruttore della sua abat-jour: “Papà, cosa…”
Lui non si spostò dalla sua posizione e riprese a mormorare in tono monocorde e incessante come se non l’avesse udita: “Io lo so cosa vuol dire, soffrire. Lo so. E alla sofferenza è preferibile qualsiasi cosa, persino una morte rapida e indolore. Il nulla è così confortante…magari non sarai felice, ma non soffrirai neppure, nessuno ti procurerà cambiamenti d’umore”.
Harriet trovò finalmente l’interruttore e lo premette. La luce della lampada si accese, spandendo un fioco e dorato bagliore nella sua stanza, e si riflesse sul volto di suo padre, palesandoglielo.
Qualcosa non andava.
Era in pigiama, con la vestaglia abbottonata storta, i capelli arruffati e la barba vecchia di alcuni giorni, e puzzava di letto e di abiti non lavati. Il viso era emaciato, pallido e spettrale nella penombra, e non lasciava trapelare alcuna emozione, sembrava una specie di maschera votiva, di totem impassibile e solenne. Gli occhi la fissavano, riflettendola nelle pupille dilatate, e avevano uno sguardo allucinato e fisso, sconvolto dai tranquillanti e da qualcosa di diverso, di inspiegabile, che le fece scorrere un brivido lungo la schiena e la portò a stringersi nelle coperte, come se potessero davvero offrirle protezione. La guardavano, ma sembravano, nel contempo, non vederla. Avvertì in bocca un sapore dolciastro, sgradevole, pungente: “Papà” ripeté, inquieta: “Che stai dicendo? Perché non sei a letto?”
Se anche le sue parole lo raggiunsero, non diede segno di averle assimilate: “Io ci ho provato, a vivere” sussurrò, apatico: “Te lo giuro, ci ho provato tanto. Ma è tutto inutile. Le cose non vanno mai per il verso giusto. Per quanto uno ci provi, sono solo i malvagi a vincere. E, capisci, non posso permettere che tu subisca quello che ho subìto io”.
Sembrava quasi che non si stesse rivolgendo a lei, ma al nulla.
La paura che aveva provato al principio si rifece avanti, malevola, stringendole il cuore come una mano dotata di artigli, e si sforzò di ricacciarla indietro, perché quello era suo padre, accidenti, il padre che amava più della sua stessa vita, e non poteva temerlo!
“Papà” ribadì per la quarta volta; sentiva come se pronunciando il suo titolo, ciò che significava per lei, avrebbe potuto strappargli quella disperata apatia e riportare indietro il Ludwig Ullmann che aveva conosciuto da piccola: “Papà, che stai dicendo?”
Quando lui levò gli occhi a guardarla, erano pieni di lacrime, gocce argentee sulle sue guance cispose e scarne: “Fa tanto male, Harriet” sussurrò, straziato, vacillando appena; vide che nascondeva qualcosa dietro la schiena: “Non ci riesco, a sopportarlo. Tu mi capisci, non è così?”
“Sì” bisbigliò, ammutolita. Una parola che le uscì meccanicamente.
“Ne ero sicuro” la bocca di lui si allargò in un sorriso grottesco, inquietante, una smorfia ilare che otteneva l’effetto di renderlo ancora più disperato e insano: “Tu sei proprio come me. Ingenua…pura…” si rabbuiò: “E il mondo i puri li distrugge. Li fa a brandelli, pezzo per pezzo, lentamente, finché di loro non resta nulla, a parte l’agonia. Ti schiaccerà come ha fatto con me, io lo so, lo so bene. E non lo riesco a sopportare. Capisci?! NON LO RIESCO A SOPPORTARE!”
Trasalì a quell’urlo e si tirò indietro, appiattendosi al muro, mentre lui ansimava come un mantice, sudando, le dita che si aprivano e si chiudevano in un tic nervoso e gli occhi scintillanti nella semioscurità. Le venne da piangere, per l’assurdità e l’irrealtà della situazione, e si morse con forza il labbro per non farlo, per non cedere ai nervi: “Papà, che succede?” rantolò in un soffio isterico. Quello non era suo padre. Non poteva esserlo. Suo padre non le faceva paura. Suo padre non vaneggiava nella notte. Suo padre non aveva quello sguardo.
Continuò a sorridere del suo sorriso malato: “Ci ho pensato tanto, Harriet, tanto davvero, e adesso so cosa devo fare. È dovere di ogni genitore agire per il bene del figlio, e questo farò. Non lascerò che il mondo ti distrugga. Non gli permetterò di rovinarti. È assolutamente impossibile per quelli come te e me vivere senza finire, prima o poi, atterrati da qualche terribile dramma. Per questo è meglio non vivere. Quando non vivi, non soffri. Ed io non ce la faccio più a soffrire. Ma sarebbe egoista, insensibile e terribile da parte mia andarmene e lasciare te in pasto al mondo, così ecco quel che faremo: andremo insieme nel luogo della non vita. È questa l’unica soluzione”. 
Ghiacciata da quel discorso delirante, Harriet puntò gli occhi sull’oggetto che Ludwig celava dietro la schiena e conficcò le unghie nel materasso, accostandosi alla debole luce dell’abat-jour quasi potesse tenere lontane le tenebre che sembravano aver posseduto la mente di suo padre, così come il fuoco, nella tradizione popolare, scaccia gli spiriti maligni: “Papà…” la voce le si spezzò e una lacrima rotolò lungo la guancia, ma stavolta non pose al pianto alcun freno, lasciò che il genitore assistesse al suo terrore, che la vedesse come una persona, capace di disperarsi e di provare emozioni.
Un’increspatura di dolore incrinò la maschera di malsana beatitudine dell’uomo e le venne incontro nella stanza, strascicando i piedi, gli occhi traboccanti di amore e di dispiacere: “Oh, tesoro, ti prego, non piangere!” le sussurrò dolcemente: “Sono stato proprio cattivo con te in questi ultimi anni, vero? Ti ho lasciata sola, ti ho abbandonata…e sei finita in quell’orribile edificio, quella scuola così piena di cattiveria e di sporco, dove nessuno poteva notare la tua figurina, dove il male si annidava come in un covo di serpi…so cosa vuol dire, me li ricordo bene quegli anni, proprio bene…” serrò le labbra in una smorfia rabbiosa: “Nessuno merita un simile travaglio, meno che mai tu. Solo che ero troppo preso da me stesso, non mi rendevo conto…poi qualche giorno fa ho pregato Dio affinché mi mostrasse una via d’uscita per noi, e Lui ha risposto” le rivolse nuovamente quel suo sorriso grottesco: “Mi ha illuminato, Harriet, e mi ha spiegato il modo in cui sfuggire ai peccati del mondo”.
La mano, che prima era ritirata dietro la schiena, si spostò lungo il fianco e il nero lucido della rivoltella scintillò di un unico, letale bagliore che seccò totalmente la bocca di Harriet e le riempì le vene di piombo fuso. Era abbandonata nella mano di Ludwig, cadente sulla gamba, come se egli non fosse nemmeno consapevole della sua presenza, quasi gli penzolasse tra le dita come una bambola rovinata e pressoché ignorata. Quando vide che la fissava, però, la sollevò di qualche centimetro e se la rigirò tra le mani, studiandola, con un mezzo sorriso sulle labbra: “Bella, vero? Ci sono due proiettili. Uno per te e uno per me”.
Una voce urlava a squarciagola nella testa di Harriet, un urlo stridulo, insopportabile e disumano che era esploso appena lui aveva mostrato la pistola e che non aveva accennato minimamente a cessare, o perlomeno a diminuire d’intensità. Le pulsava contro le tempie, provocando un martellio insopportabile, e faceva troppo male perché potesse tentare una qualsiasi mossa difensiva, non riusciva neanche più a parlare. Tutta la situazione aveva un che di irreale, di onirico, e forse avrebbe dovuto semplicemente lasciar fare, non opporre resistenza, così si sarebbe svegliata, nel suo letto, come ogni mattina, e avrebbe eliminato i vaghi ricordi dell’incubo con acqua gelida e una sostanziosa colazione.
“Non devi avere paura, tesoro mio” suo padre giocherellò con la rivoltella e posò il dito sul grilletto: “Non farà male. Il nostro tempo in questo sporco mondo è finito. Ci aspetta la pace”.
 
Un rantolo strozzato le fuoriuscì dalle labbra mentre spalancava gli occhi nel buio assoluto della sua prigione, e contrasse istintivamente la mano sul cuscino umido, accorgendosi di aver scalciato di lato le coperte dimenandosi nel sonno; così esposta, con la pelle sferzata da ogni spiffero gelido e quella leggera camiciola da notte che le copriva a stento le forme, si sentì vulnerabile all’istante. Il freddo che pervadeva il (sotterraneo? Catacomba? Fogna?) in cui era rinchiusa le era penetrato nelle ossa, sedimentandosi ben bene, e si accorse di tremare come una foglia, preda di un attacco di brividi che, forse, l’avvisava di un malanno in arrivo. Come se non bastasse, le scappò un sonoro starnuto, un suono che parve assordante nel mortuario silenzio, e si affrettò a tastare freneticamente intorno a sé finché non incontrò la stoffa sgualcita delle coperte e se la rimise addosso, avvolgendovisi come in un bozzolo. Le dava una sensazione di sicurezza del tutto illusoria, dal momento che certo un plaid non l’avrebbe difesa dal suo carceriere, ma fin da quando era bambina si era sempre sentita molto più al sicuro con le coperte addosso che senza, e non esitò a seppellirsi sotto di esse, girandosi dalla parte del muro di pietra gelida a cui aderiva il letto che le era stato assegnato, un’altra tecnica per smorzare un poco il senso di minaccia; rivolgersi al nulla tenebroso della stanza accresceva ulteriormente la sua paura, perlomeno di una solida parete poteva fidarsi.
Alcuni fotogrammi mentali del sogno si erano salvati dal buco del dimenticatoio in cui spesso precipitavano al risveglio, ma si rifiutò di pensarci. Certe immondizie credeva di averle buttate in discarica da un bel pezzo, di averle sepolte sotto una valanga di altri rifiuti puzzolenti e marci come quelle, ma a quanto pare la sua infelice condizione di prigioniera le aveva riportate alla luce. E non poteva sopportare che lui la vedesse sudare, fremere e singhiozzare per i mostri del suo passato, che gioisse del suo terrore, godendo di ogni singolo gemito. Aveva tenuto duro stoicamente sulla scomoda sedia alla quale l’aveva legata, e quando aveva sciolto le corde e l’aveva accompagnata sul letto nel quale si era destata al principio, non lo aveva degnato di una sola parola, facendosi rigida come un pezzo di legno nelle sue mani gelide e sinuose. Da allora non aveva più captato la sua presenza, ma non era da escludersi che fosse in quella stessa stanza proprio in quel momento; sembrava muoversi nel buio come un pesce nell’acqua, strisciarvi silenziosamente e con gli occhi che lo scandagliavano alla perfezione mentre lei, Harriet, vi annaspava a stento, cieca e sorda ad ogni cosa, e l’idea che potesse essere ovunque, che la stesse spiando le inviò una morsa gelida in tutto il corpo, un sapore di bile in bocca. Sapeva che era un pensiero stupido, che probabilmente si stava facendo suggestionare dall’atmosfera, ma iniziava a credere che non fosse neanche un essere umano, ma un qualche demone maligno, uno spettro sanguinario e invisibile che l’aveva condotta nel proprio Tartaro.
No, Harriet, ti sbagli. Vuole farti credere proprio questo, di essere un mostro soprannaturale a cui non puoi sfuggire. Ma quando l’hai morso, ha urlato. È un uomo. Ed è fatto di carne e sangue come te.
Tenersi stretta quella certezza si era rivelato essere più difficile di quel che pensava, via via che le ore si sommavano alle ore e una specie di quieta disperazione si impadroniva di lei, sostituendo il cieco terrore provato quando si era accorta di essere stata imprigionata in quel buco. Se davvero il suo carceriere era un uomo, qualcosa di anormale lo doveva avere di sicuro: la familiarità assoluta con le tenebre, ad esempio, la silenziosità innaturale dei suoi movimenti, quel sottofondo di repulsione e minaccia che lei avvertiva costantemente, quell’estraneità che aveva provato solo in presenza di una belva feroce, da cui poteva aspettarsi di tutto, e non certo di un uomo razionale e cosciente.
La possibilità che Jesper pagasse il riscatto e la liberasse non l’aveva neppure presa in considerazione. Era cambiato qualcosa, da quando il mostro le aveva tolto la libertà, qualcosa di fondamentale eppure di vacillante, e si sentiva piena di rabbia e di furia vendicativa, per essere stata usata, strumentalizzata al fine di ottenere ricompense varie, e adesso perfino rapita e tenuta come ostaggio. Non aveva mai protestato, aveva ingoiato ogni guizzo d’ira o di amarezza, ma adesso sentiva di aver oltrepassato il punto di non ritorno, di essere stanca, definitivamente. Di tutti quanti. Della loro avarizia. Del loro menefreghismo. Del loro ego. Che se ne andassero affanculo. Se mai fosse uscita di lì, e ne dubitava, li avrebbe mollati con un palmo di naso, e non si sarebbe più sacrificata per tirarli fuori dalla merda in cui da soli si erano immersi fino al collo. Che fosse sua madre, a sposarsi qualche ricco erede! Che Jesper si trovasse un’altra idiota disposta a sopportarlo! E che quell’R, come l’aveva chiamato Erin alla festa di Halloween, morisse di una morte lenta e dolorosa! Che morissero tutti, tutti!!!
Si asciugò con furia, usando il dorso della mano, le poche lacrime di rabbia che le erano sgorgate dagli occhi asciutti e doloranti e si passò più volte la lingua sulle labbra secche e screpolate. Aveva sete. E fame. Il suo carceriere le aveva detto che l’avrebbe tenuta in vita quindici giorni, prima di spararle un colpo alla testa, chiuderla in un sacco di plastica e ficcarla nel bagagliaio di un furgone, o in un bidone della spazzatura, o magari direttamente a mare, ma non si era vista l’ombra né della colazione, né del pranzo, né della cena (a dire il vero, era difficile calcolare lo scorrere del tempo lì, e del tutto impossibile stabilire se fosse giorno o notte). Forse la stava punendo ulteriormente di essersi ribellata, mandandola a letto senza pasto come se fosse una bambina disobbediente e riottosa, quale che fosse il motivo, aveva un bisogno disperato di nutrire il corpo dolorante.
Ma non si sarebbe mai abbassata a supplicarlo di concederle un tozzo di pane e un bicchiere d’acqua. Piuttosto preferiva morire di fame. Aveva deciso di giocare con lei il gioco del gatto e del topo, ma era felicemente ignaro del fatto che Harriet quel giochino lo conosceva alla perfezione, aveva interpretato il topo fin dall’infanzia, e non era più disposta a starci. Aveva già accettato che Jesper non si sarebbe scomodato a cedere al rapitore quello che gli aveva chiesto in cambio di lei, dunque doveva contare solo su se stessa, e per una volta nella vita, non aveva assolutamente niente da perdere. Le opzioni erano due, uscire di lì o morire, e non si sarebbe sforzata di compiacere quel bastardo, di accarezzargli l’ego per meglio disporlo nei suoi confronti; non avrebbe più strisciato, per nessuno. Mai. Più.
Suo padre diceva che quelli come loro erano destinati ad essere schiacciati. Bene, se era così, avrebbe tirato fuori i denti, perché il topo non era così inoffensivo come poteva sembrare, era rapido, estremamente rapido, sapeva come nascondersi, e trasmetteva infezioni e malattie letali con un morso, se questo morso era dato bene. Era un paragone stupido e puerile, ma in Tom e Gerry, o in Titty e Silvestro, erano sempre gli inseguiti ad avere la meglio. Gli inseguitori al più si facevano fregare da soli e perdevano proprio a causa della loro arroganza ed eccessiva sicurezza.
Un fruscio appena percettibile ruppe il silenzio profondo e stranamente confortante che poche ore prima l’aveva tanto spaventata (ora, invece, per contrasto, temeva i rumori, l’attimo in cui la quiete sarebbe stata spezzata da uno scoppio, come accadeva in quasi tutti i film dell’orrore), ed Harriet scattò come un cane a cui viene calpestata la coda, drizzandosi a sedere tra le coperte bagnate del suo sudore gelido e scandagliando la cortina di tenebre con occhi assottigliati in un’espressione di tensione e di rancore: “Che cosa vuoi?!” strillò, sicura che si trattasse di lui: “Lasciami in pace!”
Se il buio, all’inizio, le era apparso come un muro impenetrabile e compatto, adesso che erano trascorse diverse ore in cui era convissuta con esso aveva più l’aspetto di un velo nerastro che ammantava tutto quanto, sbiadendolo e rivelandole solo qualche contorno qua e là: il divanetto contro cui era inciampata quando aveva tentato, invano, di fuggire, una forma lunga e imponente che poteva essere un armadio, un quadro, la porticina che R le aveva detto conduceva al bagno. Forse, chissà, se fossero passati giorni senza che le venisse concessa una sola fonte di luce, sarebbe divenuta abile quanto il suo carceriere a muoversi nelle ombre.
Rimase in ascolto del silenzio per minuti che parvero durare secoli, poi ci fu un secondo fruscio, in un punto completamente diverso dal precedente, e si volse con un ansito strozzato, rattrappendosi contro la testiera del letto e avvolgendosi nella coperta come in un mantello: “Smettila!” ringhiò istericamente: “Non so a che gioco stai giocando, ma smettila!”
“La signorina ha forse paura?”
Trasalì e con la coda dell’occhio ebbe l’impressione di cogliere un luccicare di iridi azzurre alla sua destra, ma quando si girò in quella direzione, la voce melodica e raschiante le giunse alle spalle, un sibilo che andò ad accarezzarle direttamente la nuca: “Cos’è che ti spaventa di più, il buio, me o semplicemente quello che potrei farti senza che tu possa difenderti in alcun modo?”
Lasciandosi sfuggire un gridolino acuto, la ragazza si voltò ancora una volta, ansimando per un misto di fatica e paura, e allungò una mano nell’oscurità cercando di afferrarlo, di prenderlo di sorpresa prima che potesse spostarsi di nuovo e ancorarlo in un punto, sentire che era solido, che era reale, che poteva toccarlo e quindi anche fargli del male, ma sebbene bramasse disperatamente un contatto fisico con lui (per quanto, da un’altra parte, l’idea la repellesse non poco), le sue dita si chiusero solamente sul nulla, e uno spiffero le scompigliò appena i riccioli sudati e appiccicati al volto, un movimento veloce come quello di uno spettro.
“Guardami, ragazza, sono…sul soffitto! …e ora…dietro l’armadio! …ma aspetta…eccomi presso l’uscio! …c’è qualcuno? …qualcuno è in casa? …nel bagno, questo bel bagno che ti sei ben guardata dall’usare! ….sul divanetto…è davvero comodo!...dovresti provarlo! …alle tue spalle!”
Rideva di un riso agghiacciante da demone esaltato e rimbalzava da una parte all’altra della stanza come una pallina da flipper, la sua voce risuonava ora da un punto, ora da un altro, senza alcuna soluzione di continuità, ad una velocità umanamente impossibile, Harriet non aveva neanche il tempo di puntare gli occhi nel suo nuovo nascondiglio che già lui era scivolato oltre come un liquido, e continuava a sfuggirle, a tenerla incatenata a sé con i suoi toni raccapriccianti e i lievi spostamenti d’aria del suo corpo che cambiava posizione, spingendola a volgersi di continuo, a seguirlo (inutilmente) con lo sguardo, a privarla di ogni difesa e raziocinio via via che il senso di pericolo si accresceva e capiva di essere davvero alla sua mercé, che nessuno avrebbe mai potuto stargli dietro, non nel suo ambiente naturale, non lì, in quell’oscurità che sembrava essere il suo territorio preferito.
E quando non ne poté più di quel gioco sadico che era destinata a perdere in partenza, quando la frustrazione raggiunse l’apice, premette il viso contro il cuscino e rilasciò un grido incrinato e lugubre, straziato dallo sfinimento: “SMETTILA, MALEDIZIONE, SMETTILA!”
“È un vero peccato” sospirò lui, con un’ombra di falso rammarico e di vera malevolenza: “Che tu sia così terribilmente e inesorabilmente cieca”.
Lei strinse i denti: “Ed è un vero peccato che io sia così terribilmente e inesorabilmente priva di una pistola con cui forarti il cervello!”
All’improvviso, senza che potesse in alcun modo prevederlo, dita gelide si infilarono brutalmente tra i suoi capelli, afferrandoli alla radice e tirandole la testa all’indietro, e in mezzo battito di ciglia avvertì il freddo mortale di una lama affilata come un rasoio che le premeva contro la giugulare, mentre l’ombra indistinta del suo carceriere inghiottiva la sua, più piccola ed esile. Si irrigidì da capo a piedi, paralizzata da quella fulminea e insopportabile prossimità, e aprì immediatamente la bocca per urlare, ma lui gliela tappò all’istante, aumentando la stretta sul suo corpo, e la giovane rabbrividì di repulsione nel sentire l’umido gelo di quelle dita serrate sulla morbida carne delle sue labbra. Premevano a tal punto da arrestarle la circolazione e da fargliele formicolare come se mille millepiedi ci stessero strisciando sopra, sicuramente per impedirle di morderlo; e in effetti, non aveva modo di aprire le mandibole.
“Hai la lingua velenosa” le sibilò R all’orecchio, aumentando la pressione del pugnale contro la sua gola finché Harriet non percepì il viscido calore di un rivolo di sangue che scivolava lungo il collo e si perdeva tra i seni: “Ma ti conviene tenerla a freno se non vuoi che te la strappi. Mi pare di avertelo già consigliato qualche ora fa, ora che ci penso, e non mi piace ripetermi”.
Le staccò la mano dalla bocca, ma prima che lei avesse modo di ribattere era già scivolato via, facendosi scudo con le tenebre di cui sembrava essere il padrone. Ancora ansante per l’aggressione inaspettata, Harriet si portò una mano alla gola, bagnandosi i polpastrelli di sangue, e indirizzò uno sguardo torvo e omicida alla stanza buia, più arrabbiata che terrorizzata, cosa di cui si stupì; aveva una voglia matta di strappargli il pugnale con cui l’aveva minacciata e piantarglielo nello stomaco, di dissanguarlo su quel pavimento.
Lui ridacchiò, sardonico: “Non guardarmi in quel modo, ragazza. Tutti prima o poi dobbiamo soffrire. Persino tu, con la tua vita dorata e perfetta. Persino loro”.
“Tu della mia vita non sai un cazzo” masticò tra i denti serrati, raggrumando nella voce spezzata tutto l’odio che provava per lui. Non aveva mai imprecato spesso, a sua madre non piaceva, ma non le importava più niente di ciò che gli altri volevano o non volevano, aveva tutto il diritto di parlare come più le aggradava!
“In effetti hai ragione” dal tono, egli sembrava quasi divertito: “E neanche voglio saperlo. Sai, mi stupisci. Credevo che fossi una creatura quieta e pacifica…quasi un cadavere, per il povero, sventurato Jesper…invece ne hai covato di risentimento, dico bene? E glielo hai tenuto nascosto…gli hai mentito…” le parve che sogghignasse: “Ma non ti biasimo per questo. Mi sono sempre piaciute le menzogne”.
A ben pensarci non aveva motivo di giustificarsi con quel pazzo, ma le sue parole avevano toccato un tasto dolente, e non riuscì ad impedirsi di rispondere: “Io non gli ho mentito. Non gli ho mai mentito. Non sono come Christine, come lui, come te…io non sono come voi!”
“Voi?” le fece eco il suo carceriere, con una bizzarra sfumatura di irritazione: “Voi?! Mi spiace deluderti, ragazzina, ma io non ho mai avuto niente a che fare con i Lawrence” si produsse in una risatina aspra: “Fanno parte di un club fin troppo esclusivo”.
Non poteva esserne del tutto sicura, ma, oltre al disgusto e all’odio, forse c’era una punta di rammarico in quell’affermazione.
“Se tu non fossi come loro” replicò: “Non rapiresti una ragazza per ottenere denaro! Non ti nasconderesti nelle tenebre come un comune profittatore, che usa un passamontagna per celare la sua identità, senza nemmeno mostrarti in viso!”
“Io non mi nascondo” berciò lui, astioso: “Ti guardo senza che tu possa guardare me. È un modo buono come un altro di proteggersi”.
“È un modo buono come un altro di essere un vigliacco! Perché è questo che sei, R o come diavolo ti chiami, che, te lo dico subito, mi sembra un diminutivo completamente idiota ed egocentrico! Un vigliacco. Tanto quanto Jesper, anzi, più di lui!”
“Ti sbagli” lui lo ringhiò concitatamente, in fretta, come se le sue frasi lo spaventassero e si sforzasse di non darlo a vedere.
Harriet sogghignò, trionfante: “Non mi sbaglio affatto. Lui almeno ha il coraggio di tramare alla luce del sole, di rendere evidente a tutti la sua avarizia e la sua malvagità…mentre tu preferisci agire nell’ombra, tu non ti mostri per quello che sei, tu inganni…e sai che ti dico? Che mi fai schifo per questo! Mi disgusti molto più di lui! Siete uguali, voi due, fatti della stessa pasta, e…”
“NON HAI NESSUN DIRITTO!”
Si aspettava uno schiaffo, invece arrivarono i suoi occhi, i suoi scintillanti occhi slavati che la fissavano, ardendo di rabbia, rancore e furia omicida, ad appena qualche centimetro di distanza, due globi infuocati e allucinati che le mozzarono il fiato in gola e la costrinsero ad appiattirsi al muro; egli era vicinissimo, curvo sul suo letto, eppure l’unica cosa che distingueva nel buio erano quelle iridi luccicanti che la catturavano e la straziavano come la lama di un pugnale.
“Non hai nessun diritto di paragonarmi al tuo fidanzato” ansimò, in un sibilo cupo e invelenito: “Tu non hai idea, non hai idea…di quello che…che io… tu non conosci neanche lontanamente gli abissi in cui…per questo credi migliore quel tuo Stephan!”
“S-Stephan?” bisbigliò Harriet, confusa: “Chi è Stephan?”
Gli occhi chiari del suo carceriere si dilatarono enormemente, per mezza frazione di secondo colse in lui un guizzo di panico, di terrore per essersi lasciato sfuggire qualcosa che evidentemente non desiderava lasciarsi sfuggire, e si sorprese a pensare che fosse meno vecchio di quello che aveva ipotizzato in un primo momento, che potesse essere…giovane. Proprio come lei e Jesper. E, stranamente, lo considerò il fatto più sorprendente.
Subito dopo, però, quelle iridi slavate si incupirono nuovamente, occultando il tumulto di emozioni che per un istante era riuscita a scorgere, e divennero gelide, così gelide da ghiacciarle il sangue nelle vene, gelide quanto la sua voce raschiante: “Ho promesso al tuo fidanzato che, se mi avesse accontentato, ti avrei riportata da lui viva, e posso assicurarti che saprei essere il padrone di casa più attento e accurato del mondo, se tu lo meritassi…ma stai mettendo a dura prova la mia pazienza”.
“Chi è Stephan?” insistette, tenace e, forse, un po’ troppo incauta.
Udì i denti di lui digrignare, ma non perse il tono glaciale: “Ti ho già comunicato le regole. Niente domande su di te, niente domande su di me. Quale parte esattamente non ti è chiara?”
Senza lasciarle il tempo di aggiungere altro, la afferrò per un braccio, sollevandola a forza dal letto, e Harriet si irrigidì a quel tocco umido che le appariva terribilmente empio, come se l’avesse sfiorata il peggiore tra i peccatori. Avrebbe voluto allontanare quella mano come se fosse stata un’immonda sanguisuga. Se anche lui se ne accorse, però, non lo diede a vedere. La strattonò, facendola muovere a forza, e la ragazza reputò saggio non opporre resistenza, visto che aveva compreso quanto fosse inutile vincere con la forza, domandando impulsivamente: “Dove mi vuoi portare?!”
Le rispose un verso sarcastico: “Oh, sta tranquilla, ragazza, non ho intenzione di toccarti neanche con un dito. Io le mantengo, le mie promesse, e so comportarmi da gentiluomo, anche se forse ti è difficile crederlo”.
Da gentiluomo, certo. La rapiva, la rinchiudeva in un sotterraneo, la minacciava, la teneva lì con la forza ma, ovviamente, si comportava da gentiluomo. C’era da sputargli in faccia. Non lo fece, però. Sarebbe scappata, giacché non aveva nessuna intenzione di arrendersi, ma non in maniera così grossolana, facendolo infuriare o tentando attacchi diretti. Sarebbe stata una mossa stupida e inutile, e lei non era una sciocca, anche se si era finta tale per molto tempo. Forse la maschera arrendevole e docile, sempre disposta a sopportare, che aveva portato tanto a lungo le sarebbe potuta servire per mettere nel sacco quel bastardo…per coglierlo di sorpresa.
Lui raggiunse la porta del bagno, si fermò lì davanti: “Hai mezz’ora per provvedere alle tue abluzioni” decretò con malcelato astio: “Non un minuto di più, non un minuto di meno. Troverai anche un cambio d’abiti, e la tua colazione sul comodino, quando tornerai qui. Proprio come avevo promesso”.
Harriet abbozzò una riverenza sprezzante, sicura che egli fosse perfettamente in grado di vederla al buio: “Grazie infinite, mio signore”.
Proprio non riusciva a impedirsi di provocarlo.
Venne spinta malamente nella toilette, illuminata dalla fioca luce di una candela che le trafisse gli occhi disabituati come una lama, da un R che si mosse tanto attentamente da non sfiorare neppure con un gomito la stanza rischiarata, quindi la porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo sordo.
Due secondi, e una chiave girò nella serratura con un clac metallico.
 
Angolo autrice: torno dopo secoli e secoli di latitanza e mi ripresento con questa schifezza…sono sempre arrugginitissima quando rimetto mano alle mie discutibili opere! Mi scuso ancora una volta per il ritardo, ma come vedete, questa storia ho la ferma intenzione di finirla, magari lentamente, ma la finirò…e regalerò a Raphael emozioni migliori di quelle che ha sperimentato in passato!! Qui, oltre al siparietto Jesper/Christine, abbiamo avuto un accenno del passato di Harriet, e un suo accanito confronto con Raphael…sotto sotto questi due hanno qualcosa in comune, secondo me, ecco perché si scannano : ) (da notare infelice lapsus freudiano di R che fatica a digerire la faccenda di Irene…) Harriet è molto meno incline della biondina a trovare affascinante e misteriosa la situazione, ma come ha giustamente detto Niglia in una recensione, si è subito mostrato a lei in veste di “mostro”, mettendo le mani avanti per evitare qualsiasi tipo di contatto diverso da quello carceriere/prigioniera, mentre l’altra ha tentato di conquistarla con il suo lato umano che ella ha fatto a pezzi…non sono nient’affatto soddisfatta di come è venuto fuori il tutto, ma questo è ciò che tento affannosamente di spiegare :’)
Il prossimo capitolo sarà dedicato quasi interamente a Harriet/Raphael, con riferimenti occulti alla “Bella e la Bestia” (tipo lei che tenta di fuggire e lui che…bla bla bla) ai quali non so resistere, più una scoperta sul conto della “carissima” Christine (ognuno qui ha qualcosa da nascondere!) da quello dopo ancora torneranno in scena la piccola Erin e Berg, i buoni della situazione : )
Mi scuso ancora, e spero che qualche buon samaritano abbia ancora la pazienza di seguirmi e di leggere simili scempiaggini!
Un bacio,
Sylphs 





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