Capitolo 1
“Left in the
darkness
Here
on your own
Woke
up a memory
Feeding
the pain
You
cannot deny it “
[…]
“Raised in this
madness
You're
on your own
It
makes you fearless
Nothing
to lose”
[…]
You
can't hide what lies inside you
It's
the only thing you've known
You'll
embrace it and never walk away
Don't
walk away “
(
Iron- Within Temptation)
I fantasmi del passato
erano mostri difficili da addomesticare, creature
d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano
costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere
imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse,
pesanti e dure con le quali vincolarli.
Dormire non le era mai
piaciuto, ed aveva perso l’abitudine di farlo vista la
possibilità di privarsi del risposo e, conseguentemente, dei
ricordi che l’avrebbero assalita e tormentata nel sonno.
Ricordi dai quali si
sarebbe svegliata urlando, angosciata dai morsi che avrebbe
ritrovato sulla sua pelle, il tocco di mostri che nella sua
testa diventavano reali assieme alle loro voci.
E quello non era da
meno.
Reale lo era, e
terrificante, tanto da far nascere in lei l’ansia di sapersi
preda di un altro incubo, una prigione buia dalla quale cominciava a
faticare ad uscire, lì, dove le carezze sul suo capo si
facevano più viscide e cadenzate, una sensazione familiare
che le inondò il viso di panico.
Perché
Yehouda era morto, sua madre, era morta, così gli
altri Creatori, e nessuno, nessuno
avrebbe potuto più nuocerle, non a lei, non
all’uomo che amava, non alla sua famiglia.
Eppure c’era
quella paura, c’era e sempre vi sarebbe stata, a farla
contorcere dall’angoscia.
Il terrore di saperli
da qualche parte, nonostante tutto, vivi e forse,
forse in cerca di vendetta, di quel desiderio di rivalsa su
di lei, la brama che li avrebbe portati a cercarla in capo al mondo per
ricordarle una verità che nonostante gli anni passati,
nonostante le gioie conquistate e l’amore ricevuto,
non era mai cambiata.
Ciò
che non sarebbe dovuto esistere.
Sapeva di esserlo, di
non poter in alcun modo negare una verità che era costata
così tante vite, così tanto dolore, ed anche
se ora aveva un amore al quale poter rivolgere ogni
suoi pensiero, ciò non la ripuliva dalle colpe del
passato.
Il motivo di tanta
morte, tanta distruzione, tanta disperazione.
Perché Loki
aveva sterminato una razza di divinità per vendicare le
offese a lei arrecate, e aveva ucciso i Creatori, divenendo giudice e
giustiziere per proteggere lei, era sempre, per lei.
Ogni suo respiro,
sguardo, pensiero, Loki non aveva mai fatto mistero
dell’ossessivo bisogno di saperla al sicuro, di
saperla felice, ma
accanto a lui.
E lei lo era,
infinitamente, profondamente felice, ma non al sicuro, non lo sarebbe
mai stata.
Perché era
la sua stessa condizione a renderla incapace di protezione, incapace di
sicurezza persino nei suoi sogni.
Il fiato caldo
tornò a soffiarle il viso freddo e imperlato di sudore, ma
aspettò, trepidante, di averlo di nuovo vicino per voltarsi
e affrontare il mostro dei suoi incubi, quello che gorgogliava
nell’ombra e tornava, ogni notte, a infestare la sua mente.
Perché non
era più una bambina, ed aveva imparato a reprimere la
“paura”, quella che anni prima l’aveva
vista morire in un cielo tinto dal blu della sua essenza e del suo
cuore pulsante vita ed energia.
La stessa energia che
le lambì le mani in una lingua infuocata quando, percepito
il tremolio di quel respiro contro la tempia, si decise a voltarsi con
la risolutezza necessaria a non cedere alla paura, ma quando lo fece,
quando la sua mano calò su di lui, sul suo mostro, qualcosa
si mosse nel suo petto, l' urlo col quale sgranò gli occhi
sul soffitto della sua stanza e sull’arto mutilato
che si trovò a stringere tra le dita e a gettare, poco dopo,
via dal letto.
- Min
dame – sibilò qualcuno al suo fianco, una voce
roca e bassa che sentì spirare da una bocca
violacea schiusa su denti bianchi e affilati, una dentatura che vide
calare sull’arto che Sunniva azzannò, sollevandola
con un braccio mentre arretrava di tutta fretta dal letto che ora
fissavano entrambe in agitazione, schiacciate contro la parete.
- State bene?
– masticò la Gigante con voce graffiata,
abbassando su di lei occhi rossi pulsanti vita, forza, quella
che aveva reso Sunniva mal tollerata dai suoi simili, perché
troppo piccola di statura per poter essere apprezzata, e
troppo forte di braccia per poter essere sconfitta e sottomessa, come
le loro leggi imponevano ai maschi della razza, durante
l’accoppiamento.
Usanze verso le quali
neanche la sua volontà di cambiamento aveva potuto nulla,
vista la rigidità delle loro antiche credenze e il religioso
rispetto che serbavano per queste.
I giganti di ghiaccio
non amavano essere soggiogati, comandati, non loro che, creature
più forti dei novi mondi, erano temuti e odiati
più di altri, perciò, se la presenza di
un Re li aveva resi insofferenti, la venuta di una Regina, di una donna, li aveva
resi recalcitranti come animali chiusi in gabbia.
E mai avevano perduto
occasione di sottolineare quella che vedevano come una debolezza. Si
erano mostrati ostili, tanto inospitali da aver preso
l’abitudine di distogliere lo sguardo da lei, una volta
raggiunti i loro passi lunghi leghe più che metri.
Ma aveva comunque
imparato a non accaparrarsi un diritto che quelle creature
riconoscevano solo a Loki.
Il diritto di
comandare, e di esigere da loro il rispetto.
Un rispetto che lei
aveva sempre ricercato, mostrando loro la
fecondità di una terra arida e aspra ma che, se coltivata,
avrebbe potuto sostenere la fame tra i loro neonati e saziare i loro
stomaci che tuonavano per il fastidio.
Si era adattata
persino alla temperatura rigida, alle loro rozze usanze che
più di una volta l’avevano costretta ad
accompagnarli nelle peregrinazioni assieme al bestiame sulle vette
più alte, dove l’aria diveniva così
spessa da bloccarsi nei polmoni in rocce d’acqua congelata,
ma aveva resistito, e lottato, non aveva mai smesso.
Perché Loki
era uno di loro, e come lei aveva saputo accettare tutto di
lui, come loro lo avevano accettato per diritto di legge, per
linea di sangue, così lei aveva sempre cercato di farsi
accettare per quello che era.
Una creatura che aveva
peregrinato per mondi, senza avere né una patria, non un
amore, non una famiglia ma che, alla fine, aveva
conquistato tutto, ma non la quiete.
Non con un
braccio mozzato sul suo letto, un arto maschile dalla forma tozza e
ruvida, col palmo grigiastro abbandonato mollemente sulle lenzuola
candide.
- Dobbiamo avvertire
il Mester – esclamò Sunniva in agitazione
una volta ripresasi dalla confusione – dobbiamo-
- Non dobbiamo fare
nulla – la interruppe lei con voce stanca, frusciando via dal
braccio muscoloso della gigante con un gemito di dolore che la
portò a chiudere una mano sulla gola.
E trovò
ciò che l’aveva fatta svegliare urlando,
l’unghiata rossastra che la sua fedele compagna
fissò rabbiosa prima di stringere le labbra con fastidio.
Perché
più del Re, più dei suoi simili, Sunniva era
fedele a lei, una devozione nata per riconoscenza, per affetto e per
quella compassione che le era stata mostrata da una donna ben
più piccola e sottile di lei.
Una creatura
che la rendeva incapace di andare contro le sue preghiere, anche quelle
più irragionevoli, perché a lei fedele.
Ma se anche la gigante
si fosse irragionevolmente opposta al suo desiderio di tacere, sarebbe
stato comunque sciocco da parte sua pensare davvero di poter nascondere
qualcosa a Loki, e lo capì, lo comprese quando
sentì le porte della stanza schiantarsi con un fischio per
accogliere la figura tetra del nuovo venuto.
- Fuori.
Sunniva
tentennò per un lungo istante, il braccio allacciato attorno
alla vita della sua signora che accanto a sé pareva serena
nonostante lo sguardo feroce del Mester levitasse su di loro come una
minaccia di morte, ma c’era sempre la sensazione di pericolo
a pizzicarle le terminazioni nervose per ricordarle quanto crudele
potesse essere il loro signore e padrone.
E collerico,
rancoroso, ma incapace di fare del male a lei, la minuta
creatura dai capelli d’arcobaleno verso il quale il Re
serbava un amore quasi malato, un’ossessione che lo privava
di raziocinio e lucidità, tanto da renderlo irragionevole e
crudele verso chi si mostrava arrogante con lei.
Lei che
l’aveva accettata al suo fianco quando nessuno
l’aveva voluta, ascoltata, quando nessuno aveva
provato a capire la sfortuna della sua diversità, e
accettata, come nessuno avrebbe mai fatto.
Eppure
l’aveva voluta, e la amava per quella che era, una diversa.
- Vai – la
invitò Astrid con voce morbida, sorridendole gentile per
rassicurarla prima di notare come la schiena massiccia della
creatura si fosse irrigidita nel passare di fianco al dio degli
inganni, così alto, lì, contro la porta, lui e la
sua ombra che si dilungava per metri sulla parete opposta, una chiazza
scura che si mosse sinuosa assieme all’uomo che si
trovò presto addosso.
Loki aveva mani
gelate, dure come pietra per la temperatura che condensava i suoi
respiri in nuvole di ghiaccio polveroso, ma erano mani gentili quelle
che le accarezzavano la gola, polpastrelli che si muovevano con
dolcezza e perizia sulle tre strisce scarlatte.
Una ferita alla cui
vista il dio reagì indurendo la mascella e cristallizzando
lo sguardo che dal suo viso volò alle proprie spalle,
sull’arto che con un suo schioppo di lingua
svanì per smaterializzarsi nel suo studio, un immenso
androne dai soffitti alti e dalle pareti stipate di libri che sapevano
tendere il viso di Loki di interesse.
Il viso che Astrid
lambì nel palmo della mano quando notò il lampo
di dolore saettato nell’unica pupilla, quella che diveniva
così vigile e attenta, e cattiva, nel guardare il mondo, ma
che su di lei pareva sciogliersi, ammorbidirsi come una canzone
d’amore sussurrata nel dormiveglia per non turbare il suo
sonno leggero.
- Guarirà
– gli sussurrò morbida, schiudendo le labbra
colorate in un sorriso che però non sembrò
intaccare la rigidità di quelle di Loki, tanto strette da
scomparire nel pallore cadaverico del viso.
Perché
anche se sarebbe scomparsa dal collo che accarezzava distrattamente,
lui l’avrebbe vista ugualmente su di lei, l’avrebbe
percepita sotto le sue dita quando l’avrebbe accarezza,
l’avrebbe sentita pulsare nella lingua quando
l’avrebbe baciata.
Non avrebbe
dimenticato la profondità, lo spessore, il colore scarlatto,
non avrebbe dimenticato nulla, non quell’urlo che lo aveva
sottratto ai suoi studi, non quella nuova ferita.
Una cicatrice che non
sarebbe rimasta su di lei, ma che avrebbe intaccato il suo orgoglio di
uomo, di dio.
Un dio incapace di
difendere la donna che amava pensò rabbiosamente, tirando
l’angolo della bocca in una smorfia contrita che una carezza
delicata provò a sciogliere, così da rendere
dolce ciò che non lo era, pulito, ciò che era
sporco.
Ma era la sua
coscienza ad essere sudicia, lercia, e non c’era nessun
inganno, nessuna arte manipolatrice o menzognera capace di
convincerlo di averla ancora integra, intatta, priva di falle, di
voragini nelle quali inciampare e scivolare nella lordura delle sue
colpe.
Perché era
stato sì tanto crudele da sterminare una civiltà,
ma ogni morte, ogni anima rubata aveva portato con sé il
senso di colpa, il ribrezzo che mangiucchiava come termiti ingorde gli
angoli del suo cuore malmesso e scheggiato.
Ogni gesto compiuto
nell’impeto della follia aveva intaccato un nuovo bozzo nella
sua armatura di divinità, ogni scelleratezza, ogni vendetta
guadagnata lo aveva reso sempre più sconsolato, sempre
più bisognoso di ricercare qualcosa di nuovo da
distruggere, da piegare a sé.
Una vita, una
città, una civiltà, nulla sarebbe mai bastato a
riempire il vuoto della sua anima, il male inconsolabile che aveva
creduto di poter ostruire con gli stralci di un affetto che mai gli era
spettato, non quello silente di Odino, non quello ossessivo di Thor,
non quello delicato di Frigga.
Eppure,
c’era lei, a dargli l’illusione di non avere
più nulla per il quale sentirsi perso, e solo.
Bastava quella voce
gentile che sapeva rendere il suo nome sempre così scarno e
arido sulla lingua altrui meno pungente, più dolce, amabile
come lo sguardo di luce che la sua compagna
d’eternità gli rivolgeva ogni giorno, anno, secolo.
Immutabile.
Lo era il sorgere e il
calar del sole, lo era il suo amore per lui, insensato vista
la sua natura, il suo passato, le sue colpe, ma lo amava, e bastava il
pensiero di saperla sua, di sapere che lei lo avrebbe amato comunque, a
dargli l’impressione di non essere così sbagliato,
di poter avere ciò che la vita e il destino gli aveva negato
con tanto accanimento.
- Guarirà
– ripetè ancora lei, schiudendo le dita su quella
parte del viso che le cicatrici avevano reso tanto sgraziato,
lì dove la pelle diveniva così tesa e
fragile, rigida su zigomi che, in passato, avevano potuto
vantare una beltà invidiabile prima di essere
intaccata dalla sua follia.
La stessa follia che
lo aveva privato di un occhio, quello che gli avevano cavato, che aveva
barattato in cambio della vittoria.
E fu sulla palpebra
fragile e morbida che Astrid premette le labbra, dolcemente,
imprimendo in quel tocco ciò che lui più bramava
prima di prendergli le mani e avvolgersele attorno al busto.
Lo
abbracciò con delicatezza, una presa
gentile nella quale Loki si lasciò sfuggire uno
sguardo stanco prima di abbandonare il capo sulla testa di Astrid e
chiuderla nel suo, di abbraccio.
Soffocante, doloroso,
ma loro.
Quel piccolo pezzo di
mondo nel quale sapevano di poter essere al sicuro, di poter essere
accettati, e amati, nonostante tutto.
Le regalò
una carezza, una sola, un fuggevole tocco di dita gelate che Astrid
sentì chiudersi in pugni prima di vederlo perdersi in
pensieri ben più tetri, e oscuri, lì
dove lei non avrebbe potuto proteggerlo, lì dove, per quanto
vi avesse provato, non sarebbe mai riuscita a guarirlo del tutto dalla
malattia d’amore che lo avrebbe reso sempre così
bisognoso di essere accettato, di essere amato.
°°°
Jötunheimr.
La Terra dei Giganti
di Ghiaccio.
La Terra della
Distruzione la chiamavano alcuni, perché arida e morta,
disseminata di vette altissime sulle quali perire per il
freddo, gole profonde nelle quali poter gettare le carcasse del
più debole della tribù, e lande desolate,
ricoperte di fine sabbia bianca nella quale poter essere inghiottiti.
Deserti incontaminati e morti ricoperti
però da una distesa di fiori di ghiaccio, gigli dai petali
d’acqua cristallizzata dal quale era possibile trarre il
latte per i neonati, una delle bellezze che Astrid aveva riportato alla
luce scavando nelle profondità della terra per mostrare che
persino lì, in quel mondo aspro e crudele, c’era
la vita, c’era dolcezza.
Il vento lì
dove si trovava però si affievoliva, divenendo
una litania che sussurrava ai visitatori di chinare il capo,
rallentare il passo e volgere lo sguardo al cielo,
lì dove i rami nodosi di Yggdrasill chiedevano
rispetto e silenzio, un cheto riguardo che lei offrì con un
cenno ossequioso del capo prima di volgere l’attenzione alle
sue spalle.
Sunniva
ricambiò lo sguardo della sua signora con devozione,
intimorita dal movimento sinuoso degli steli che vedeva fluttuarle
attorno come braccia candide che guidavano il canto della natura madre,
ma non osò abbandonare il manto sabbioso sotto i piedi nudi
per raggiungerla, non ne era degna.
Perché
quella era la terra dei vecchi Re, degli spiriti della Terra, e nessuno
poteva addentrarvisi senza essere punito per l’impudenza.
Si udì una
voce di donna frusciare d’improvviso tra le foglie
d’acqua, un richiamo verso il quale Astrid volse lo sguardo
prima di richiudere il mantello di Loki attorno alla gola e
avvicinarsi al tronco evanescente, il grembo di una vita infinita, la
porta verso il mondo di mezzo, lì dove non c’era
vita, né morte, solo un limbo nel quale le grandi anime
degli antichi dimoravano per dare consigli ai Re della terra.
E quello che la stava
chiamando aveva una voce familiare, dolce, morbida come una carezza di
artigli d’argento che percepì contro la guancia
quando allungò una mano per sfiorare il corpo storto
dell’albero.
- Bentornata bambina.
Il dolore la rese
cieca per un attimo, e fu con gemito soffocato che serrò le
palpebre per contenere le lacrime.
Non era la prima volta
che le chiedeva consiglio, che correva da lei per soffocare
l’ansia, il timore, eppure, come ogni volta, quella voce
riusciva a riportare alla luce quel dolore che non l’avrebbe
mai abbandonata.
La perdita che mai
sarebbe riuscita ad accettare, per quanto tempo fosse trascorso.
- Madre –
bisbigliò ad occhi chiusi, immaginando nel buio
delle palpebre il viso deforme di Semjace, la dentatura affilata tesa
in un sorriso aguzzo che, se avesse teso un po’ di
più le dita, avrebbe potuto attraversare.
Le sorrise di rimando,
abbandonandosi al suolo con le mani chiuse in grembo per seguire la
discesa morbida della creatura evanescente che, nel riaprire gli occhi,
trovò davanti a sé.
Alta, fiera come una
vecchia regina buona che dispensa consigli e abbracci, e in uno di essi
si abbandonò con un sospiro pesante, scivolando a terra
tanto da non essere più vista neanche da Sunniva.
I fiori le
accarezzavano le gambe ripiegate l’una sull’altra,
ma era il tocco morbido sul capo a farla sorridere nostalgica.
Dita ferrose ma
gentili si immergevano tra i suoi capelli che con gli anni avevano
raggiunto i polpacci, li aveva fatti crescere, in realtà,
perché Loki amava immergervi il viso per soffocare
il dolore e la solitudine, la paura che dopo tutti quegli anni, non era
riuscita ancora a debellare.
Paura di perdere.
Lei, tutto.
- Ha fatto male?
– bisbigliò sua madre contro l’orecchio
destro, debole ma apprensiva, sfilando un artiglio per seguire la linea
sinuosa degli artigli che le segnavano la gola.
Aveva fatto male.
Faceva sempre male.
Non lo disse
però, non per mostrarsi stupidamente orgogliosa, ma
perché era noto a lei, come a Loki, che ogni ferita inferta
sul suo corpo sarebbe stata molto più dolorosa di
quella di un comune essere umano, o di un dio.
Un dolore che nessuno,
per quanto vi avesse provato, sarebbe mai riuscito a capire.
Perché non
c’era metro di giudizio per lei, non termini di paragone, non
possibilità di comparazione.
Lei era unica, e sola,
nella sua rarità, e non c’era nulla di
più triste che essere gli unici di qualcosa.
Una dinasta.
Una famiglia.
Una stirpe.
Se le era create
però, tutte le cose che le mancavano.
Aveva intessuto
legami, stretto amicizie, costruito amori, e, per natura delle cose,
anche nemici.
C’era stato
Yehouda, e H’ava, periti per mano di Loki.
E Thor, Odino, i suoi
figli. Tutti, i suoi figli.
Quelli che per
capriccio, per follia, per senso di abbandono Loki aveva ucciso,
sterminato, nella speranza di ridurre la circonferenza di quel buco al
cuore che prima di lei, prima dell’amore, aveva cercato di
riempire con qualcosa.
Affetto elemosinato.
Attenzione richiesta,
desiderata, obbligata.
Nulla però
era servito, non a renderlo più sicuro e meno solo, non a
curare il suo male d’amore.
Ci aveva provato anche
lei, a dargli conforto, a smorzare quell’innaturale paura, ma
sua madre le aveva confessato che era nella sua natura temere di
perdere.
Il trono, il potere,
lei.
Loki era stato
destinato a perdere ogni cosa, l’ aveva perduto alla nascita
quando era stato abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo e
amarlo, avrebbe temuto di perdere fino alla morte.
E neanche lei, per
quanto caparbia, per quanto ansiosa poteva nulla contro quella paura.
Ma ora
l’aria era morbida attorno a lei, e calda, intiepidita dal
respiro di sua madre che continuava a cullarla lì dove tutto
si espandeva, il mondo si sformava, ed era circondata da luce.
Morbida e calda luce.
La sua, luce.
Quella per la quale
era stata catturata e torturata, la sua condanna, la sua
essenza, la fonte d’energia più potente
dell’universo incanalata in un petto capace anche di
trasalire per la paura e l’orrore.
Con gli anni
però, l’iniziale paura di se stessa, di
ciò che era, aveva lasciato posto alla curiosità,
alla brama di sapere cosa portasse tante creature a bramarla, cosa
potesse spingere gli uomini a uccidere, pur di avere quel potere.
E la risposta
l’aveva trovata, anche se malincuore.
Invincibile.
Ogni creatura amava
l’idea di sapersi superiori ad altri,
più forti, più potenti, persino Loki
aveva peccato di superbia, di arroganza, persino lui aveva bramato
ciò che lei avrebbe portato.
Potere. Tanto, troppo
potere.
Più di
quello posseduto da un dio, più di quello di una
creatura soprannaturale dai poteri illimitati.
Perché il
confine tra quello che si potesse o non potesse fare, con lei
non esisteva.
Era infinita.
Lo era la sua anima
che, se chiudeva gli occhi e rilassava la mente, mutava in un vuoto
denso di pulviscoli di luce simili a sbuffi di polvere, estesa e tanto
vasta da non poterne trovare il confine con lo sguardo, per quanto vi
avesse provato.
Un’enormità
che però aveva portato con sé anche la solitudine
e l’amarezza.
Aveva accettato
però la profondità di quel
potere, la potenzialità delle sue capacità.
Si era accettata, alla
fine, come avrebbe voluto che Loki facesse a sua volta.
In quanto Re, in
quanto dio, in quando Gigante di Ghiaccio.
- Non angustiarti
bambina, non ora, non quando c’è bisogno che tu
sia forte per ciò che verrà.
Il gelo che la
investì le intorpidì i muscoli, ma
riuscì comunque a tornare seduta per guardare
Semjace in viso e cercare la risposta a quanto detto, a
ciò che ora, nelle sue orecchie, con il canto degli spiriti
a cullare il suo riposo, pareva la promessa di un
nuovo dolore, nuove morti, nuova distruzione.
- Cosa intendete madre?
Il silenzio le venne
in risposta, freddo e ingiusto, ma fu breve quanto il battito
che si trovò a perdere nel vedere gli steli sui
quali era distesa rigettarle in viso uno schizzo di rosso porpora, una
tonalità che secoli orsono aveva macchiato le sue mani, un
colore dal quale aveva faticato a ripulire lei e Loki.
Ma quella volta non
c’erano lame ad aprire ferite e a ripulirsi su di lei,
perché era il cielo a tingerle i palmi
schiusi di quel rosso scarlatto.
Il cielo verso il
quale si trovò a volgere le palpebre sgranate, la voce
incastrata in quella gola che sentì bruciare per il bisogno
di urlare il nome di Loki, di sua madre, degli spiriti, per ricercare
la risposta a quello spettacolo orribile.
Perchè
c’erano nuvole di fumo nero a vorticarle sul capo,
e il fischio del vento che sentì sibilare alle
spalle assieme al grido di Sunniva.
Ma ebbe tempo solo di
leggere l’orrore negli occhi della creatura, il suo terrore,
l’angoscia che le segnava il viso prima di
cogliere il lampo perlaceo saettato nelle iridi
rossastre della Gigante, metallico come una freccia scoccatale
contro, grigio
come i petali d’acqua curvatisi come lei sotto la
forza devastante dell’onda d’urto.
- Min dame!
°°°
La pelle tenera del
polso si ritirò con un crepitio sinistro quando la miscela
corrosiva vi entrò in contatto, una reazione raccapricciante
per la quale Loki si trovò però a tendere un
sorriso storto prima di richiudere la lastra di vetro e aspettare che
l’arto smettesse di agitarsi per il dolore, così
da riprendere l’esperimento.
Analizzare le forme di
vita inferiori era sempre stato uno dei mille espedienti con i quali
amava ingannare l’eterno trascorrere tempo, e torturarli, una
volta classificati la loro origine, il loro possibile utilizzo.
Lo allietava sapere di
essere il decisore della vita altrui, delle loro sofferenze, dolori,
angosce, una sensazione di onnipotenza che zittiva la voce insistente
della sua follia, quel desiderio di distruzione e morte che lo rendeva
sordo ad ogni preghiera, voce, suono all’infuori di quel
profondo e insaziabile brontolio.
Perché
aveva fame di morte, di dolore, non avrebbe mai smesso di averne, non
lui, non chi sazio mai sarebbe stato di vita, di calore, di
amore.
E per quanto
ne avesse ricevuto, per quanto affetto e devozione Astrid gli avesse
riservato, ci sarebbe sempre stata una piccola parte di lui che avrebbe
continuato a ricercare la morte, quella che lui stesso aveva portato
alla sua stessa famiglia, quella che mai avrebbe smesso di affiancarlo
lungo il suo cammino.
Un’ ombra
che da bambino lo aveva atteso appena girato
l’angolo, o guardato sotto il letto, o fissato nello specchio
per trovare la somiglianza tra lui e Thor.
Ma era una
macchia.
Una chiazza nera che,
per quanto si fosse affannato a sfregare, a ripulire, avrebbe
continuato a segnare il suo passaggio, a ricordargli chi era, dove
sarebbe dovuto essere.
Non nell’oro
scintillante di Asgard e della luce riflessa sull’armatura di
Thor, di suo padre, ma in uno sfondo monocromatico, asettico e
silenzioso come una camera abbandonata al degrado.
Il picchiettare
isterico della mano all’interno della teca lo
riportò in sé, in una realtà
nella quale era il Re di qualcosa, lì
dove ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo in fondo a
quella stanza buia, non un padre deluso, non un fratello amareggiato,
non una madre sofferente, ma un amore.
Un amore da poter
chiamare e dal quale potersi aspettare di ricevere conforto con un
abbraccio, un sorriso, quello che gli tese l’angolo destro
della bocca poco prima di far scattare la mascella nel
captare lo schianto alle sue spalle, una volta tornato a percepire il
mondo circostante.
Quando il tonfo
seguì la caduta del Gigante al suolo Loki si decise a metter
via il suo esperimento per osservare con fastidio la creatura riversa a
terra, il capo tanto schiacciato al pavimento da aver generato una
piccola conca sotto il suo cranio inumano, una cavità nella
quale la creatura non osò fiatare, stringendo la mandibola
per sopperire al dolore.
- Spero che questa tua
irruzione valga la tua insubordinazione – lo riprese
piccato, serrando la presa attorno al suo scettro nel
cogliere il lieve irrigidimento della schiena del mostro.
Orgogliosi.
Per quanto gli umani
peccassero di superbia, non c’era creatura al mondo che fosse
orgogliosa e stupidamente arrogante come i Giganti di Ghiaccio, esseri mastodontici, dalla
forza inumana e dall’intelletto sottile e acuto, creature con
un enorme potenziale se non fosse stato per la poca
furbizia e l’eccessiva arroganza.
Perché
persino un cane avrebbe ritirato la coda e serrato le
mascelle nel riconoscere la mano di chi puniva l’insolenza.
Una lezione
che i suoi sudditi, a giudicare dal ringhio gorgogliante
nella gola del gigante, non avevano ancora imparato.
- Si Mester.
- Ebbene? –
scattò cattivo, seguendo con la coda dell’occhio
l’ansimare dell’arto mozzato con noia.
Tese il palmo,
così da poter flettere il polso e tranciare di
netto la testa del Gigante non appena lo avesse informato del motivo
della sua impudenza.
Un motivo
sciocco, indegno della sua attenzione, del suo interesse,
perché non c’era nulla da temere, non per il
mietitore di vite, il distruttore di mondi, non per il Re dei Giganti
di Ghiaccio.
Gli diede le spalle
ancor prima di udire la risposta, consapevole che qualunque cosa fosse
uscita dalla bocca del servo, non avrebbe comunque potuto richiedere da
parte sua più di un cenno annoiato del capo.
Eppure
riuscì a scatenare in lui qualcosa di ben più
feroce di un guizzo isterico del viso, qualcosa di ben
più umano di un lieve assenso.
Perché ebbe
terrore, e angoscia.
Non per sé,
non per il grido d’isteria che la sua anima
lanciò, ma per quel cuore raggrinzito che
sentì singhiozzare disperato nell’udire
l’urlo fuori le mura
L’urlo con
il quale, una volta, l’aveva perduta.
Il grido di chi mai il
mondo avrebbe smesso di portargli via.
°°°
Grida.
Vagiti.
Voci sconnesse e rese
tremanti dal panico.
Non c’era
nulla che le risultasse sconosciuto.
Nulla che non avesse
già visto, per il quale non avesse patito l’ansia
nel petto e la paura nel cuore, ma era rabbia quella che le graffiava
la voce, rabbia di vedere i Giganti proteggere con le loro moli la
propria progenie, rabbia di sapere la ragione di
quell’attacco, rabbia per una caccia all’uomo che
non avrebbe avuto fine, fintanto che lei fosse esistita.
Un lampo perlaceo e il
fischio del vento alla sua destra la avvisarono del secondo tentativo
dei Giganti di contrattaccare mentre Sunniva e le donne, protette dalla
fila di uomini, scortavano i piccoli al riparo con
i loro ringhi a cadenzare i passi nella fuga.
Ma era energia quella
che proteggeva l’essere dal corpo di metallo piovuto dal
cielo, pura e semplice energia dai riverberi scarlatti che riluceva
dell’entità astratta presente nell’aria,
una presenza che pareva essere ovunque.
Alle sue spalle, sopra
la sua testa, davanti a lei.
Occhi che guardavano
tutto e niente ma che su di lei parevano catalizzarsi quando osava
alzare un braccio per difendere i Giganti da una pioggia di schegge e
lampi metallici.
E
c’era qualcosa di orribilmente familiare nel modo in cui
quella creatura rigettava i suoi attacchi, una capacità di
repulsione che lei stessa aveva potuto saggiare su chi provava a
toccarla senza il suo consenso.
Capacità
che solo una quantità di energia simile o pari alla sua
avrebbe potuto impedirle di raggiungere e distruggere
l’essere dal corpo metallico.
Eppure, non
c’era energia al mondo simile alla sua, lo
ricordò a se stessa con una smorfia contrita prima di alzare
un braccio nel tentativo di difendersi dalla pioggia di
calcinacci esplosa a seguito dell’ennesimo cratere apertosi
nel terreno.
Detriti che
però non sentì cozzare contro
la barriera di energia issata a sua difesa, ma che invece
vide scivolare dall’arto dalle vene verdi pulsanti forza
issato in sua difesa.
Il braccio che il
Gigante di Ghiaccio abbassò assieme allo sguardo
rosso con un ringhio sommesso.
Knut.
Lo riconobbe per la
cicatrice obliqua che gli segnava l’occhio sinistro, un
taglio profondo che feriva il viso squadrato della creatura come
l’artiglio feroce di una belva sanguinaria, ma non era stato
un mostro, in realtà, a lasciargli quel segno.
Era stato Loki, il
loro Re, ad aver scavato nella carne tenera degli
zigomi del Gigante, così da marchiarlo come suo
schiavo e mostrare chi d’ora in avanti li
avrebbe comandati.
Il più
forte.
- Dovete tornare al
castello – ruggì funesto Knut una volta
agguantatala per un braccio, rafforzando la presa attorno
all’arto che prese a tirare con forza, ritrovandosi
però a tendere le labbra gelate nel non riuscire a muoverla
di un millimetro.
Gli sfuggì
un ringhio di gola nell’incrociare lo sguardo duro della
donna, occhi che lui per primo aveva rifuggito per mostrare la propria
contrarietà nell’accettarla come sua Regina e
signora, ma era stato costretto a serbarle rispetto e devozione,
perché era stato battuto dal Re, ed ora che non era lui il
più forte, non aveva più il diritto di dettar
legge o di decidere chi lasciar vivere o morire.
E se vi era qualcosa
per la quale il re avrebbe potuto ucciderli tutti, era lei.
Perchè
avrebbe mozzato loro le teste, tranciato gli arti e cavato gli occhi se
lei fosse rimasta ferita, se loro avessero lasciato che ciò
accadesse.
- Dovete tornare. Ora.
- No.
Un guizzo isterico
della mascella gli costò un’occhiata caustica di
Astrid, i talloni affondati nel terreno sabbioso e la veste arricciata
sulle gambe flesse per essere pronta a scattare, in caso di ribellione.
Quella che
sempre le avrebbero mostrato, perché compagna del
loro Re, un re temuto e mal visto per la propria crudeltà
verso il suo popolo ma non verso di lei, così piccola e
fragile da far loro ribrezzo.
Perchè
i Giganti di ghiaccio erano mostri che della loro levatura fisica ne
avevano fatto un vanto, un simbolo d’onore, di rispetto, e
avere creature filiformi come loro signori era una ferita
d’orgoglio che mai Knut sarebbe riuscito a sanare.
- Il Mester non-
- Il Mester
capirà – lo riprese severa, allontanando la mano
sproporzionata del mostro per tornare a volgere la sua attenzione oltre
le file alleate, lì dove lo scintillare metallico li
avvisava dell’arrivo oramai imminente della creatura.
Intravide i profili
asimmetrici dei giganti, i loro passi scoordinati, i colpi feroci
schiantati su ciò che non potevano raggiungere mentre la
polvere di ghiaccio rendeva la visuale incerta, ma c’erano le
voci di Yggdrasill a bisbigliarle nell’orecchio dove
guardare, quando indietreggiare, chi richiamare all’ordine.
Un mormorio che si
tramutò in un grido quando le sovvenne
all’orecchio un suono debole, fragile e inudibile ad orecchio
mortale, ma un suono tanto acuto
e doloroso da farla rabbrividire per
l’orrore.
Perché
più dei ringhi di scontento dei Giganti, più di
bisbigli concitati degli spiriti e del respiro ansante del suo
mostro, vi era un unico suono capace di strapparle
il cuore dal petto e strizzarlo fino a farla piangere per il dolore.
Quello per il quale si
era trovata in ginocchio, nel buio di una stanza, con le braccia della
sua madre umana strette attorno al suo corpo scosso dai singhiozzi e
dalla disperazione.
L’unico
suono che avesse mai voluto sentire accanto al suo
letto oltre al respiro di Loki, quello che non avrebbe mai avuto modo
di udire, consolare, zittire nel calore di un abbraccio.
Eppure era
lì, a pochi metri da lei, inghiottito dal polverone nel
quale nessuno pareva scorgere la figura piccola e abbandonata in terra
come un vecchio pupazzo di pezza.
Ma era un
bambino, quello che vagiva disperato, figlio di
Jötunheimr, figlio dei Giganti di Ghiaccio, e indirettamente,
anche figlio suo.
Quando Knut la vide
muovere un passo schiantò il braccio poco lontano dalla
testa della donna, per darle l’ultimo avviso, ma quello che
le sue dita callose strinsero fu fuoco, e dolore, il suo,
quando fu costretto a ritirare la mano ustionata con un ringhio prima
di vederla saettare tra loro come una scheggia impazzita,
sparendo al di là del muro di fumo e polvere.
La sabbia scivolava
sotto i suoi piedi nudi come acqua fresca, quasi a spianarle la strada
e raggiungere ciò che il cuore le diceva di
proteggere, ciò la terra la incitava a raggiungere
prima dello schianto.
L’ennesimo
vagito disperato la fece scartare a destra,
portandola infine a rallentare l’andatura
mentre l’energia sfrigolava dal suo corpo per respingere ogni
forma di minaccia, quella che Astrid sentì
frusciarle sopra il capo prima di intravedere nella foschia la schiena
ricurva del bambino, e benchè la piccola creatura la
raddoppiasse in altezza e in larghezza, lo cinse con un braccio non
appena fu abbastanza vicina da toccarlo.
Lo sentì
sussultare ferocemente nel percepire il suo tocco tiepido, ma i bambini
di ghiaccio, a dispetto degli adulti, avevano imparato a riconoscere e
ad apprezzare il suo calore corporeo, perciò, quando il
piccolo le si raggomitolò lungo il fianco, afferrandole le
spalle con le braccia tozze e gelate in cerca di protezione,
Astrid non potè che schiudere un sorriso affettuoso prima di
udire il fischio davanti a sé e caricare il primo colpo.
Un lampo di luce
saettò nel cielo come la coda sinuosa di un serpente,
frantumando il polverone in nuvole di ghiaccio che Sunniva
respirò affannosamente, imprimendo maggior forza nelle gambe
nel cogliere il profilo distorto della barriera che la sua signora
aveva appena sorpassato, ma il fruscio sinistro alla sua
destra le causò un vuoto allo stomaco che la fece inchiodare
con forza nel manto sabbioso.
Persino Knut, ancora
irritato per l’onta subita, non potè che
strizzare le palpebre istericamente nel patire la presenza
soffocante al suo fianco, il profilo aguzzo di un volto che lui per
primo temeva di incrociare sul suo cammino.
- Pagherete per la
vostra incompetenza – gli sibilò di fianco Loki
non appena sentì lo sguardo rosso dei Giganti di Ghiaccio
scostarsi dalla barriera d’energia per puntarsi
sulla sua altera figura, ritraendosi a spalle
ricurve nel vederlo compiere il primo passo nella loro
direzione.
- Si, Mester
– gorgogliò Knut, le labbra secche per la paura,
stringendo le dita carbonizzate con una smorfia.
Un sorriso affilato
tagliò il volto di Loki come una lama intinta nel sangue,
ma fu la furia ad arricciare gli angoli della sua bocca verso
il basso, la follia che gli fagocitò il cuore
nell’intravedere la figura minuta di Astrid inghiottita nella
nebbia.
Raggiungerla
costò meno di una manciata di secondi, ma quando
l’ebbe davanti, a pochi metri da sé, non
potè che rafforzare la presa attorno al proprio
scettro nel cogliere la sofferenza intrisa nei lineamenti della
compagna, ombreggiature che una creatura dal corpo di metallo fissava
con freddo distacco dall’alto della sua posizione
sopraelevata.
Increspature per le
quali Loki si ritrovò a masticare bile e
saliva mentre l’odio gli corrodeva il fiato e il sangue gli
pulsava nelle vene e urlava di rabbia.
Perché il
viso di Astrid era la sua tela bianca e priva di macchie, il
quadro dove non avrebbe trovato che sorrisi gentili e sguardi
amorevoli e dove persino lui sarebbe apparso migliore, giusto.
Ma era paura quella
che le intaccava lo sguardo di luce, e stanchezza, afflizione per
quelle parole che la creatura sciorinava senza batter ciglio,
indifferente al dolore delle sue pupille, e allo spasmo di qual cuore
che Loki sentì ansimargli nel petto prima di rafforzare la
presa sul proprio scettro.
Quando la lancia gli
grattò la gola con ferocia Norrin tese il collo e
la schiena di riflesso, ritraendosi dal corpo raggomitolato sotto di
lui per dirottare la sua attenzione sulla creatura che brandiva
l’arma contro di lui.
Era alto, con il viso
sfigurato e l’iride chiara cristallizzata in una patina
d’odio che se avesse avuto forma, avrebbe potuto
ferirlo come la lama che Loki gli spinse contro la giugulare
con forza, frammentando l’epidermide di metallo che Astrid
vide crepitare assieme all’imperturbabilità della
creatura, quando lo vide riportare l’attenzione su di lei.
E fu nel risentire su
di sé i suoi occhi smorti che distolse velocemente lo
sguardo, nascondendo sotto le ciglia l’orrore di quel nome
che da anni, oramai, aveva smesso di tormentarla.
Un nome che altri
avevano scelto per lei, il richiamo ad un passato che ora ridiveniva
un' ombra concreta, e non più un fantasma inconsistente dal
quale sapeva di non poter ricevere più dolore, altra
sofferenza.
Quella che
bagnò la lingua di Loki di magia prima di far patire alla
creatura uno schizzo di sangue e lo schianto dello scettro ai
suoi piedi.
Il bambino che lei
stringeva si trovò a piangere nell’udire il boato
del colpo, ma quando la nebbia si dissolse, Astrid non potè
che guardare la scia cosmica appena saettata nel cielo con sofferenza.
Perché
l’aveva trovata, la sua risposta.
Il responso alle
parole di sua madre, la risposta degli artigli che le segnavano la gola
e che ore pulsavano del suo dolore mentre la scia di luce si proiettava
verso il pianeta successivo a quello.
Un mondo che un tempo
l’aveva vista divenire figlia, sorella, e amica di creature
destinate, per uno strano scherzo del fato, ad essere vittima
dell’arroganza divina ed ora di quella di una creatura dalle
capacità similari alle sue.
Quando Sunniva
riuscì ad infrangere la fila di Giganti potè
intravedere il profilo ingobbito della sua signora, abbandonata al
suolo con una stanchezza che pareva persino smorzare il baluginio delle
sue iridi, e alla sua destra, quello ricurvo del loro Re,
chino su di lei come il più semplice degli umani, la mano
piena del viso abbandonato docilmente nel suo palmo.
Perché era
stanca, Astrid.
Stanca di
ciò che non avrebbe mai smesso di gettare ombre sul suo
futuro, su Loki, su se stessa.
L’ombra
della sua grandezza e della sua disfatta ora che il destino tornava
crudele a chiedere il pagamento dei loro errori, delle morti che avevano
generato, delle vite che invece, avevano salvato,
dell’equilibrio che entrambi avevano spezzato.
Perché fu
Yggdrasill a bisbigliare il segreto taciuto in fondo alla sua gola, il
mormorio concitato che Loki sentì strisciare sotto
pelle, lì dove ogni tendine, nervo, e stilla di
sangue si coagulò nei suoi occhi.
Iridi rosse come
quelli dei Giganti di Ghiaccio, pupille dilatate all’interno
delle quali Astrid non potè che vedere il riflesso di se
stessa e chiudere gli occhi in cerca di silenzio.
Ma non ce ne sarebbe
stato più, non nella sua testa, non contro il petto di Loki,
non nell’abbraccio di sua madre.
Perché ci
sarebbe stata quella voce, a ricordarle il suo passato, la sua essenza,
una voce metallica che, nei suoi sogni, avrebbe ripetuto il nome che
forse mai, il mondo, avrebbe mai del tutto dimenticato.
Tesseract.
Continua…
Come avevo promesso, ecco la
continuazione della quale avevo accennato qualcosa.
Premetto che la storia
sarà di massimo 11/12 capitoli, e l'aggiornamento
cadrà ogni sabato. Potrà inoltre accadere che gli
aggiornamenti avvengano più volte nel corso della settimana
visto che la stesura sta andando molto velocemente, quindi
aspettatevi delle sorprese!
Ovviamente
ringrazio chi è venuto a dare un'occhiata e chi dalla storia
precedente ha deciso di buttarsi in una nuova avventura di Astrid.
Grazie di cuore per la
lettura, al prossimo aggiornamento
Gold Eyes
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