Ow,
l'ennesimo polpettone angst.
Probabilmente,
quando avrete finito questa shot, penserete che io abbia bisogno di
un bravo psicologo e non visiterete mai più la mia pagina
autrice.
Ma ci sarà qualcuno, ne sono convinta, che si
ritroverà un po' nel
messaggio fondamentale di "Veleno" e la apprezzerà, anche
se la prima parte giace nel mio computer da circa un anno ed
è quasi
detestabile dal punto di vista sintattico.
Penso
sia la cosa più cinica che abbia mai scritto... per non
parlare del
chilometraggio non indifferente. L'ho completata appositamente per
poterla iscrivere al Misfit Contest indetto da Lilith in Capricorn
sul forum di EFP ‒ e credo che non vedrò l'ombra di un
premio, ma
in fondo non importa.
Mi
auguro comunque che non sia una lettura del tutto indigesta ;)
See
you soon,
Greedfa
Veleno
Come
gli adesivi che si staccano
Come
le cerniere che si incastrano
Come
interruttori che non scattano
O
caricatori che si inceppano
Io
tradisco le ultime mie volontà
Tutte
le promesse ora si infrangono
Veleno,
Subsonica
Le
persone sono come giocattoli rotti.
E
non sto parlando di chi ha subito traumi, di chi è malato o
muore di
fame in qualche città del terzo mondo. Non sto parlando dei
tossicodipendenti, dei pazzi o della gioventù moderna che si
spegne
come una candela sotto una cappa di vetro.
Siamo
tutti spezzati, in fondo. Come se ci mancasse un
pezzo,
proprio quel minuscolo frammento di noi indispensabile al
raggiungimento della felicità; lo cerchiamo per tutta la
vita nelle
cose più sciocche, in alcuni casi arriviamo quasi a
toccarlo, finché
non fugge via dalla nostra presa e ci lascia con la certezza che di
tutte le nostre esperienze, di tutte le nostre vittorie e le nostre
sconfitte non resta altro che la stanchezza.
Nessuno,
però, potrebbe vivere serbando nel cuore una consapevolezza
così
schiacciante. C'è bisogno di qualcuno che riempia i buchi,
che
rassicuri il resto del mondo, che finga che tutto quello che ci viene
presentato sin da piccoli come il modello perfetto di vita - case
dall'aria allegra, famiglie sorridenti di attori disgustosamente
belli - sia realizzabile, quando non è altro che una
chimera.
Forse
volevo sentirmi un eroe, quando ho assunto quel peso sulle mie
spalle. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi guardasse con gli occhi
spalancati e lucidi per la gratitudine e mi dicesse che ero riuscito
ad aiutarlo, che gli importava davvero di me
perché avevo
reso migliore la sua vita. Ma una bambola non guarda con riconoscenza
la bambina che le ha sistemato il braccio staccato, le spazzola i
capelli e le mette il suo vestito più bello, allora
perché l'uomo
dovrebbe essere diverso? Perché dovrebbe accorgersi della
ricomparsa
di qualcosa che non si è mai reso conto di aver perso?
Ho
imparato ad accontentarmi, a sfruttare qualcosa che era partito come
un modo per aiutare gli altri ed è diventato il mio unico
mezzo di
sostentamento. Se c'è una cosa giusta che il mondo ti
insegna, è
che i buoni sentimenti sono il modo migliore di spillare soldi alla
gente: presentati con un sorriso rassicurante, lenisci il loro
dolore, e saranno disposti a staccarti un assegno.
Da
quando il telefono ha cominciato a squillare continuamente, non ho
più avuto tempo per pensare a quanto tutto questo sia triste.
C'è
gente che chiama a tutte le ore. A mezzanotte, alle tre. A volte
mentre sono al cesso, o mentre cucino, il cordless arancione balla
nella sua piccola base di plastica come Fred Astaire in uno dei suoi
numeri migliori. E suona, con quel bi-bi-bip insistente
che
sembra voglia pugnalarti le orecchie; ho risolto il problema
comprando dei tappi di silicone, di quelli che i nuotatori usano in
piscina, per recuperare qualche ora di sonno quando davvero non
riesco a tenermi in piedi.
Il
punto è che devo lavorare in continuazione se voglio pagare
l'affitto.
E
poi, a furia di parlare con tutta questa gente, mi sono assuefatto
alla loro presenza costante. Le loro voci nella cornetta sono la mia
vita sociale, la mia cerchia di amici più intima, l'unica
cosa che
mi spinge ad aprire gli occhi sul mondo e assaporare il brivido
dell'ignoto.
Quando
sollevo il ricevitore per l'ennesima volta, con il chiarore di
un'alba pallida che filtra tra le persiane rotte, la voce che
gracchia dall'altra parte potrebbe essere quella di chiunque.
«Pronto?»
La mia voce suona roca, impastata; puoi fare tutti i corsi di dizione
che vuoi, ma quando passi sedici ore al giorno a parlare l'aria
scivola sulle corde vocali come carta vetrata sul legno lucidato, con
effetti altrettanto disastrosi. Sul comodino accanto al letto tengo
abitualmente una bottiglia d'acqua non frizzante, uno spray per la
gola e delle caramelle balsamiche da discount; vi sembrerà
stupido
parlare di immagine in un lavoro come il mio, ma
è importante
che l'unica informazione che la persona dall'altro capo del telefono
ha di me sia quanto più possibile positiva.
«Salve.
Sono Marc Jacobs». La gente usa spesso pseudonimi, quando
parla con
me. Avrò conosciuto almeno una ventina di Michael Jackson o
Marilyn
Monroe, schiere di Shirley Temple e Barbra Streisand e Katharine
Hepburn. Eppure, nonostante i nomi conosciuti, abusati, so
esattamente chi si cela dietro l'anonimato non appena li sento
parlare; mariti che cercano un po' d'aiuto per la propria moglie,
donne che vogliono risollevare il morale di figlie e amiche,
ragazzine che mi contattano perché pensano che sia terribilmente
eccitante... e quel tremito, nelle loro voci, quella
vibrazione
appena percettibile che mi rivela chiaramente quanto è serio
il
motivo della telefonata. Non è mai del tutto assente.
«In
cosa posso esserti utile, Marc?». Cerco di non far trapelare
la noia
dalla voce mentre mi allungo verso il comodino e prendo una
caramella. Lo zucchero è coperto da una patina bianchiccia
vecchia
di giorni.
Nel
frattempo, Marc sta balbettando qualcosa di indefinibile nelle mie
orecchie.
«Mia
moglie v-vuole fare una plastica al naso. Pensa di essere
brutta».
«Ed
è brutta, Marc?». Queste caramelle fanno schifo.
«N-no,
è la donna p-più bella che...» E sono
anche scadute da un mese.
Probabilmente qualche insetto avrà fatto il nido sul fondo
del
pacco, mangiando lo zucchero e disseminando le pastiglie con quelle
disgustose uova bianche tonde che fanno le tarme.
Di
che stavamo parlando?
«...
m-ma n-noi non abbiamo i soldi per pagare la plastica e-»
«Non
devi preoccuparti, ci penso io. Dove posso trovarla?».
Mi
dice il nome di un ristorante in centro e l'indirizzo;
stiracchiandomi, il telefono incastrato tra la guancia e la spalla,
mi avvicino al letto e frugo tra le coperte appallottolate fino a
tirare fuori un'agenda di cuoio gravida di foglietti infilati alla
meno peggio tra le pagine fitte di appunti. Ci sono nomi, date,
annotazioni a penna rossa, cifre che si rincorrono in colonne
ordinate da una pagina all'altra.
La
sfoglio, masticando la caramella stantia.
«No,
Marc, domani non posso. Ho un buco... vediamo... la settimana
prossima, martedì mattina dalle undici a mezzogiorno. Cerca
un modo
di farmela trovare lì. Il pagamento è anticipato.
Potremmo vederci
nello stesso posto questa sera per un caffé... magari mi
porti una
foto, mh?»
«I-il
costo di quanto...»
«Centocinquanta
dollari». Lapidario, mando giù un sorso d'acqua.
So che adesso si
sta chiedendo se valga la pena di spendere tutti questi soldi per il
mio servizio, ma se ha chiamato vuol dire che qualcuno che conosce
gli ha parlato di me. Succede molto raramente che la reticenza dei
clienti sopravviva oltre il dubbio iniziale.
«V-va
bene». Marc chiude la chiamata senza nemmeno ringraziare, e
nelle
mie orecchie rimane soltanto il fruscio del microfono e un senso di
sollievo per la scomparsa di quella sua vocetta sottile, traballante.
Mi
alzo dal letto con la consapevolezza di dover passare almeno un paio
d’ore in bagno per assumere un aspetto presentabile
– nemmeno
fossi una donna – e raggiungo il box doccia. Un
secondo prima
di aprire il getto, scorgo un qualcosa di nero e scattante che fugge
dietro la catasta di flaconi di creme e shampoo ammucchiati nel
lavandino. Odio gli scarafaggi.
Di
norma non proverei nemmeno ad ucciderlo, lo lascerei lì a
nutrirsi
di tutte le innumerevoli schifezze che può trovare
in casa
mia, ma qualcosa nella mia testa mi dice che tra poche ore
sarò di
nuovo nel mondo reale, in quel meraviglioso ammasso di norme
igieniche e comportamentali che si stende al di là della
porta del
mio appartamento. Ora come ora, non posso trattenermi
dall’uscire
dal box doccia e avvicinarmi al lavandino brandendo un confezione di
balsamo come se fosse un mazzafrusto.
Scaglio
via i vuoti di plastica con una manata, e lui è
lì, sul fondo.
Il
buco che sta al centro del lavabo di ceramica deve essere la sua
piccola tana, la via attraverso cui lui e tutti i suoi amici escono
ed entrano dalla mia vita. Mi chiedo cosa pensino, queste creaturine
munite di arti ispidi e pelosi e lunghissime antenne, quando
finiscono in queste magnifiche prigioni di muratura che sono le case
umane. Mi chiedo se comprendano quanto è preferibile la loro
fogna,
quanto sono fortunati ad essere nati scarafaggi.
Il
mio amico, qui, è particolarmente grazioso. Non
più lungo del mio
dito indice, ha quella corazza nera e lucida tipicamente da
scarafaggio, che non sai mai se ti dia un’impressione di
solidità
– come l’esoscheletro di un coleottero –
o di qualcosa di
viscido che s’infila negli anfratti più luridi
senza difficoltà.
So
che mi sta fissando con i suoi minuscoli occhietti nascosti sotto
quella cupola semisferica che si ritrova al posto della testa, che il
suo cuore – sempre che ce l’abbia, questo principe
della
spazzatura – sta scoppiando di paura alla vista del gigante
che è
pronto a farlo a pezzi sulla ceramica bianca.
Allora
perché non scappa? Di solito, a questo punto si dovrebbe
essere già
infilato nel sifone, sollevandomi dalla responsabilità di
togliergli
così brutalmente la vita.
«Ehi,»
e la mia voce trema un po’, alla vista di quelle antenne
frementi
«ehi, vattene. Non mi va proprio di ammazzarti. E poi io odio
gli
scarafaggi».
«Mi
pare contraddittorio che tu li odi, visto che sei a tutti gli effetti
una blatta». Risponde, e accompagna la
replica con una mossa
fulminea della coppia di zampe anteriori, come se gesticolasse.
Simpatico,
il ragazzo.
«Non
sotto il profilo tassonomico».
«Mi
riferivo alla sociologia, ignorante».
«Oh,»
stavolta mi scappa da ridere «siete animali molto
più sociali
di quanto io non sarò mai. Parecchio più
genuini».
E
per fortuna che il divario di forze tra me e questo pusillanime
è
piuttosto importante, perché mi sono già stufato
di sentirlo
parlare. Pur ammettendo che la sua compagnia sia molto migliore di
quella di tanti esseri umani, non ho voglia di ascoltare qualcuno
intento a rinfacciarmi i miei difetti. Nessuno ne ha mai voglia.
Abbasso
la mano con una violenza tale che il cosino non fa in tempo a
spostarsi.
Sapete,
è buffo. È buffo come una creatura viva possa
trasformarsi un pochi
secondi in un ammasso indefinito di interiora schiacciate e zampe
contratte. E uno si sente un po’ Dio quando pensa di aver
realmente
cambiato l’esistenza di qualcuno, non importa se di uno
scarafaggio
o di un essere umano; credo sia questo tipo di sentimento,
quest’esplosione di dopamina e il senso
d’onnipotenza che si
diffonde nel mio cervello, a muovere le suore missionarie in Africa,
i politici riformatori, i rivoluzionari e i serial killer. Lasciati
da parte ideali più o meno futili, rimane soltanto la
volontà
egoistica di diventare importanti per qualcuno, in qualsiasi modo.
Questo
scarafaggio, ve lo posso giurare, ha pensato a me per ultimo. Io sono
stato il più grande avvenimento di tutta la sua vita.
ψ
Il
mio Marc Jacobs è molto peggio di quanto mi aspettassi.
Ci
siamo incontrati nel bar scelto di lui, un ridicolo caffè
arredato
in modo oggettivamente pretenzioso, a metà tra un fast food
dozzinale americano e un locale parigino di quart’ordine. Il
fatto
che spera che lavori qui con la moglie è già un
indizio del perché
quella donna abbia dei seri problemi di autostima; mi basta
guardarlo, poi, per fugare ogni possibile dubbio.
È
il classico yuppie vestito male, di quelli che credono che una giacca
e un paio di pantaloni eleganti bastino per classificare a priori il
loro abbigliamento come “di classe”; magro,
più basso di me e
curvo come tutti i colletti bianchi che passano ore seduti davanti ad
un computer, in ufficio, credo abbia qualche problema serio con la
forfora e un accenno di calvizie. Per fortuna, aggiungerei, visto che
si porta appresso dei capelli stopposi e unti come la pelliccia di un
topo.
Di
viso è così anonimo che so già che
dimenticherò la sua faccia
dopo essere uscito dal locale.
«Allora,»
penso al mio scarafaggio, alla piccola bestiola così meritevole
di attenzione che ho ucciso qualche ora fa «hai
portato una
foto?»
Certo
che l’ha portata. Probabilmente, rifletto, avrà
passato buona
parte della giornata a cercarne una che fosse abbastanza fedele da
farmi riconoscere sua moglie con tranquillità e abbastanza
brutta
perché non mi piacesse. Ne va davvero fiero, a giudicare dal
luccichio nei suoi occhi castani mentre tira fuori il portafoglio ed
estrae una fotografia non più grande di una cartolina.
E,
quando la guardo, realizzo che sua moglie avrebbe davvero
bisogno di una plastica.
Sarebbe
forse bellissima, con i capelli biondi che le ricadono in onde
gentili sulle spalle e gli occhi azzurri, se solo non avesse una
brutta caricatura di naso ad involgarirle i lineamenti. Non
criticatemi per l’importanza che conferisco a qualcosa di
effimero
come la bellezza: in un mondo in cui anche una bambina di dodici anni
può rifarsi le tette con il beneplacito della madre, giudico
inestimabile il valore di un viso autenticamente grazioso. È
un
dono, qualcosa su cui – a differenza della cultura o
dell’intelletto – non c’è
possibilità di apportare modifiche
naturali.
Riportando
l’attenzione sulla fotografia, sospiro. I casi in cui il
motivo
dell’affanno è reale sono
sempre i più difficili.
«Come
si chiama?».
«Julia».
«Ok.
Fissiamo per martedì alle undici?».
Annuisce.
Colgo un lampo di indecisione nei suoi occhi, mentre mette nuovamente
mano al portafoglio.
Andiamo,
Marc, se sei qui vuol dire che ti hanno parlato bene di me.
«Potresti
lasciarmi un nome? Io non so se posso fidarmi di-»
«No».
Lo interrompo, asciutto, che ha ancora i centocinquanta dollari in
mano e mi fissa come se gli avessero tolto la terra da sotto i piedi.
Si aspettava che accettassi ad occhi chiusi.
«No,
e non perché ho intenzione di fregarti. Ha sempre funzionato
così,
e scommetto che chi ti ha mandato da me ti avrà anche
rassicurato
sul fatto che non rubo».
«Ma
sono centocinquanta dolla-»
«Puoi
fidarti o non fidarti. Io non ti darò nessun recapito, a
parte il
numero di telefono che già conosci».
Tutti
questi tentennamenti cominciano a darmi sui nervi. Osservo la
tovaglia a quadretti verdi e bianchi con sopra stampato il logo
anonimo del caffè, il coltello di acciaio inox che vi
luccica come
una carpa koi nell’acqua trasparente di uno stagno
giapponese.
Potrei prendere il coltello e infilarlo nell’occhio di Marc
Jacobs
fino all’impugnatura, godermi i suoi rantoli mentre la lama
si
tinge di rosso – proprio come le squame di un pesce tropicale
– e
il sangue schizza su quest’insulsa tovaglia. È
troppo sperare che
le tacce di un omicidio le donino un’aria vagamente
più
interessante?
Il
fruscio di carta morbida e liscia mi distrae dalla contemplazione
della lama. Quando alzo lo sguardo, le banconote sono a pochi
centimetri dalla mia mano sinistra, appoggiate lì quasi con
pudore.
Le
tocco, e il calore un po’ umido delle dita di Marc mi fa
storcere
il naso dal disgusto.
«Bene.
Una volta che hai pagato non puoi più tornare indietro,
ok?».
Annuisce,
dondolando impercettibilmente sulla sedia. Scommetto che sta sudando
dalla paura.
«Fantastico.
Allora... a martedì. Ora devo andare, ho un altro
appuntamento».
Mi
alzo, mentre Marc, senza rispondermi, continua a fissare la tovaglia
come se stesse cercando di scorgervi la soluzione a tutti i suoi
problemi. Ero serio, quando ho detto che gli scarafaggi sono molto
più interessanti degli esseri umani.
«Ciao,
Marc».
Non
prova nemmeno ad alzare la testa.
Dev’essere
l’abitudine.
ψ
Dopo
una notte passata a guardare repliche di vecchi film di Charlie
Chaplin in televisione, l’idea di alzarmi e cominciare a
lavorare
mi distrugge. Preferirei essere da un’altra parte, perso nel
bel
mezzo di una giungla con una probabilità di sopravvivere
pari a
zero, piuttosto che confrontarmi ogni giorno con la sicura,
accogliente routine della mia vita media. Mi fa
sentire come
se qualcuno mi tenesse confinato a forza in un utero artificiale,
come se non fossi mai nato; questa protezione imposta è
quanto di
più avvilente mi trovo ad affrontare ogni giorno, quando
bevo del
latte e leggo la scritta “pastorizzato” sulla
confezione o quando
sento dire in giro che la polizia ha acciuffato un criminale
latitante.
A
volte vorrei mangiare cibo stantio fino a buttarmi sul cesso e
vomitare per ore, o lanciarmi in mezzo alla strada mentre passa un
tir a tutta velocità. Mi illudo che lo farò, che
mi prenderò la
vita che mi spetta e la smetterò di fare inutili progetti
suicidi,
ma non succede mai. Non ci riesco mai.
Esco
di casa con lo stomaco vuoto e i capelli in disordine, un perfetto
ragazzo della porta accanto che vi sembrerà di aver visto
decine di
migliaia di volte nella vostra vita; se sei mediamente di
bell’aspetto, mediamente ben vestito e mediamente pulito, la
gente
ti ignora. Alle persone non interessa la mediocrità, cercano
gli
estremi.
E
io, che non sono né un pezzente né un
miliardario, posso
permettermi un delizioso anonimato.
Attraverso
il quartiere diroccato in cui si trova la mia casa, le mani affondate
nel cappotto e gli occhi vigili, attenti; vivo in questa
città da
tanti anni, ormai, da essermi quasi abituato alla sensazione costante
di avere lo sguardo di qualcuno puntato sulle mie tasche. Il problema
è che nessuno si è mai degnato di assalirmi per
davvero.
I
palazzi sono alti e grigi, qui, striati di nerofumo. Le finestre
hanno i vetri rotti, oppure riparati alla meno peggio con pezzi che
non s’incastrano alla perfezione nelle crepe o lastre di
plexiglas
trasparente; vedi le facce degli abitanti, dietro, e sono bigie e
smunte come la terra in cui vivono, inaridite da anni tutti uguali
che le hanno scavate come fa l’aratro con i campi scuri.
Eppure,
nei loro occhi c’è quella scintilla che manca nei
miei. C’è la
disperazione tremenda e brutale di qualcuno che vuole vivere, a
qualsiasi costo, ed è disposto a rubare e uccidere e farsi
strada
con la violenza pur di riuscirci.
Queste
persone sono vive.
Nei
quartieri borghesi, dove invece lavoro, il discorso è
completamente
diverso. Troverete tanti bei cadaveri allegri, qui, tante belle
signore agghindate a festa e vestite di tutto punto per presenziare
al proprio funerale quotidiano. Tanti gentlemen che ridono con le
mascelle spalancate e gli occhi completamente freddi, come dei
sassolini sul fondo di uno stagno melmoso, coperti di quella patina
verde e viscida che non se andrà più via.
Passando
accanto ad un negozio di vestiti, io che a stento riesco ad avere un
paio di giacconi per tutto l’anno, mi capita di cogliere
brandelli
della conversazione di due signore indubbiamente elegantissime che se
ne stanno lì, i cagnolini microscopici e disgustosamente
agghindati
al guinzaglio, a discutere di quanto siano belle certe pellicce in
vetrina. Ridono, così leggere e simpatiche e dolci e felici,
con il
cervello e gli occhi spenti dietro gli occhiali dalle montature
firmate, e pare che non sappiano, che non vogliano sapere quello che
c’è dietro ad ogni singola pelliccia.
Li
vedo, sapete? I visoni che si contorcono nelle gabbie, fissando il
cielo al di là delle sbarre con gli occhietti neri come
capocchie di
spillo, senza sapere che qualcuno li ucciderà per farci dei
vestiti.
Che mangiano cibo da poco e non possono accoppiarsi, o correre o
vivere come qualsiasi altro animale libero.
Tutto,
perché gente come questa possa ridere e spendere.
Vorrei
sentirle parlare da persone consapevoli, queste signore.
E
allora sì che sarebbe bello, sarebbe meraviglioso ascoltare
il loro
personale elogio alle brutture del mondo.
O,
forse, è meglio che ridano. Se guardo loro posso quasi
sperare che
un giorno questo stato di inconsapevolezza colga anche me, che il mio
cervello finisca annacquato e libero da ogni scomoda verità
che
rende la mia vita difficile da sopportare. L’unica cosa che
mi
trattiene dal bruciarmi le sinapsi con qualche droga allucinogena
è
la certezza che, se lo facessi, non potrei più svolgere la
mia
onorata professione.
Incontrare
i miei clienti.
In
particolare, quello di stamattina pare interessante. Ha trentasette
anni, si chiama Marjorine ed è una disoccupata che sogna di
poter
aprire una pasticceria. Grassa, ma tutto sommato accettabile, sempre
se si è disposti a soprassedere sulla zazzera di capelli
palesemente
finti che le scendono come scalpi di Barbie cinesi sulle spalle
rotonde.
La
aggancio mentre mangia una brioche, seduta da sola in uno dei locali
più affollati che abbia mai visto; il mio istinto mi guida
fino al
suo tavolo, ridicolmente piccolo rispetto alla mole di Marjorine, e
guardando i suoi vestiti che gridano "SALDI AI GRANDI
MAGAZZINI" capisco perché nessuno si è
degnato di
agevolarmi il lavoro almeno un po'. Quando mi siedo davanti a lei la
poveretta sobbalza, cercando di frenare uno sconcerto che si tramuta
istantaneamente in rossore e iperidrosi sulle sue guance
ballonzolanti, poi mi inquadra meglio e sbatte con aria civettuola
mezzo metro di ciglia finte. Ha gli occhi piccoli, azzurri e vacui.
«Ciao».
Il sorriso affascinante che mi increspa le labbra è frutto
di ore di
allenamento davanti allo specchio, coadiuvate da un certo viscidume
congenito che devo aver ereditato dal mio adorabile papaparino
«Questo posto è libero?».
Marjorine,
che sa perfettamente di essere appena un gradino al di sopra di
qualsiasi altro freak, mi guarda come se fossi sceso dal cielo
insieme a una nuvola di angioletti svolazzanti. Conosco la reazione:
persone come questa hanno un'autostima così bassa che basta
persino
uno come me, la cui parvenza di bellezza deriva dall'età al
di sotto
degli enta, perché si credano oggetto di
un miracolo.
«Certooo».
Chioccia, strascicando le sillabe più di quanto sia
strettamente
necessario «Io sonooo Marjorineee».
«David».
Mi presento, un nome casuale che emerge mentre gli altoparlanti del
locale diffondono "Heroes" di David Bowie «Come mai sei
qui da sola?».
Lei
scuote la testa, nella speranza che un gesto tanto vago significhi
qualcosa di ironico e, possibilmente, divertente, poi ridacchia
agitando una mano grassoccia. Rido anche io ‒ è fondamentale
che
si senta a suo agio, altrimenti non riuscirò a portare a
termine
l'incarico.
«Posso
tenerti compagnia?». Domanda superflua, non mi manderebbe via
nemmeno se fossi un vecchio bavoso o un eroinomane in cerca di soldi.
Il suo disperato bisogno di compagnia trapela da ogni espressione, da
ogni gesto, da ogni nota tremante della voce stridula.
«Maaa
certooo. Seiii unooo studenteee, Daviiid?».
«Sì,
seguo dei corsi al college qui vicino».
Non
ho mai finito il liceo. A scuola andavo male, troppo indolente e
disinteressato perché qualcuno potesse spingermi a studiare,
e poi
erano più i giorni che passavo a casa, terrorizzato e
tremante e
nascosto in qualche angolo sicuro, che quelli di effettiva
frequentazione. Ma i freak non vogliono essere apprezzati da qualcuno
che è come loro: vogliono l'attenzione, persino l'amore
dei
vincenti, di quella massa di sgradevoli stronzi che per anni li ha
emarginati e spinti a diventare dei fallimenti totali. Potremmo
definirla una rivincita sociale, se soltanto non fosse falsa dalla
prima all'ultima battuta.
La
conversazione con Marjorine prosegue tra ovvietà devastanti,
formule
di cortesia e le sue assurde ciglia che non manca di sbatacchiare al
mio indirizzo ogni volta che pensa di aver detto qualcosa di
particolarmente acuto. Mi rendo conto che manca quasi un'ora e mezza
all'appuntamento successivo proprio mentre lei sta raccontando della
sua ultima storia d'amore andata male, così le sfioro una
mano con
la mia ‒ il dorso è morbido e cedevole come un materassino
ad
acqua ‒ e la fisso dritta negli occhi, concentrandomi.
«Sai,»
sussurro «sei davvero bellissima».
Forse
questo basterebbe anche senza tutto il resto. Le persone non ci
pensano mai, ma spesso ci facciamo influenzare di più dai
pareri di
chi non ci conosce quasi per nulla che da quelli di amici e
familiari. Un estraneo è voce imparziale, scevra da ogni
pregiudizio, parla solo in base a ciò che vede.
Io
so che per qualche istante, adesso, Marjorine si sentirà la
donna
più attraente del pianeta.
Ed
è in questo varco di soddisfazione improvvisa, proprio
quando la sua
mente è più debole, che mi insinuo senza farmi
notare. La coscienza
di Marjorine è un ammasso di recriminazione e sensi di
colpa,
autocommiserazione che affonda in un mare di fallimenti sia sul piano
affettivo che professionale; mi ci vuole un po' per individuare il
centro del suo dolore, nascosto sotto uno scudo così
impenetrabile
che devo accarezzarne ogni millimetro per individuare una fenditura.
Afferro
il conglomerato di ricordi con mani invisibili, e posso sentire,
mentre le dita si stringono sempre di più attorno a questa
massa
incancrenita, le urla di una bambina che viene derisa dai coetanei
per le ragioni più impensabili, le sue lacrime ingenue
soffocate da
un cuscino. In condizioni normali mi godrei i ricordi come un bel
film, raggomitolato nell'oscurità rassicurante di un
inconscio
estraneo, ma ho poco tempo e questa donna non sembra custodire nulla
di troppo interessante. Serro la presa, il grumo di sofferenza
esplode e si volatilizza nella mente di Marjorine come se non fosse
mai esistito.
Ti
sto dando una seconda possibilità, aspirante pasticcera.
Vedi di non
sprecarla.
Ha
gli occhi ancora più vacui di prima quando mi alzo e la
lascio
seduta al tavolo. Ci vorrà circa un quarto d'ora
perché si
riprenda, libera da tutte quelle cazzate inutili che l'avevano
inchiodata per anni allo status di disadattata, e riesca finalmente a
trovarsi un posto nella nostra meravigliosa, equa società.
Dal mio
punto di vista le ho fatto più male che bene, ma so
già che
l'ansioso fratellino di Marjorine chiamerà e mi
ringrazierà per
quello che si suppone sia il semplice operato di uno straordinario
assistente sociale. Il lato più interessante della questione
è che
sono io quello che avrebbe bisogno di un assistente
sociale.
ψ
Iosif
vive nell'appartamento accanto al mio.
Dopo
una giornata passata a rimettere a posto la testa degli altri ho
bisogno di qualcuno che rimetta a posto la mia, quindi spingo la
porta sfondata con il piede ed entro senza nemmeno chiedere permesso.
Non che il proprietario sia mai stato particolarmente selettivo per
quanto riguarda le amicizie.
Ci
incontriamo sempre a metà strada, io e Iosif, il mio respiro
sulla
sua pelle sottile come carta di riso e le sue mani ossute perse in
una ricerca febbrile sotto i miei vestiti. Ha un corpo in costante
cambiamento, sempre più magro e distrutto ogni volta che
varco la
soglia, ma i suoi occhi azzurri e folli come lanterne stregate sono
sempre lo stesso, rassicurante punto fermo nel caos di gusci vuoti
che mi circonda. Iosif è il gradino più basso
della società,
l'emblema di un degrado che incarna quasi con orgoglio ‒ e questo,
nonostante sia magro come uno scheletro e abbia la pelle coperta di
sfoghi, lo rende bello. Bellissimo, ben più della grassa,
patetica
Marjorine.
«Hai
portato la grana?». Ansima, spogliandosi in fretta e furia
degli
stracci laceri che ha rimediato in qualche raccolta di beneficienza
per senzatetto. La voce di Iosif è dolcemente musicale,
venata da un
accento nordico che riesce quasi a farmi dimenticare lo sgradevole
lato da transazione commerciale del nostro rapporto.
Se
non fosse per il suo fabbisogno in costante aumento di sostanze
psicotrope, probabilmente io non sarei nemmeno qui. Probabilmente non
potrei accarezzarlo, indugiare sulle costole che sporgono sul torace
giallognolo, graffiare clavicole sottili come quelle di un uccellino
e stringere i suoi capelli così chiari da sembrare quasi
bianchi.
La
manciata di banconote che appoggio sul comodino ogni volta che gli
faccio visita mi consente un controllo assoluto, assuefacente. La
mente di Iosif, una landa devastata da traumi come crateri di
meteoriti e ricordi così orribili che sembrano partoriti
dalle
propaggini di un incubo, è un luogo in cui amo indugiare
quasi come
nel suo corpo ‒ c'è così tanto dolore, una
rapsodia di sofferenza
e tentativi falliti di risalita dal baratro, da rendere il mondo
esterno nient'altro che un insieme di futilità.
Che
si fotta la crisi economica. Che si fottano i traditori, i bastardi,
i viscidi succhiacazzi che mi hanno reso la vita impossibile. Che si
fottano le vetrine scintillanti piene di cose che non potrò
mai
permettermi.
L'insoddisfazione,
la disperazione, la lenta discesa verso l'angoscia di una morte
ineluttabile: qui c'è tutto il mio mondo, tutto quello che
capisco e
di cui ho bisogno. Mentre affondo nel vortice emozionale di Iosif la
mia vita sembra un unico, infinito sentiero dorato ammantato di gioia
e fortuna.
E
forse potrei usare la mia abilità su di lui, ripulirgli la
coscienza
regalando a questo ragazzino di nemmeno diciannove anni la vita che
veramente merita. Amici, una fidanzata, un appartamento decente in
periferia e un'istruzione di livello medio/basso, ma comunque
sufficiente a garantirgli un lavoro.
La
verità, però, è che gli porterei via
tutta la bellezza tragica, il
languore spettrale che avvolge la sua figura di condannato ‒ lo
priverei di un'identità che mi è cara, e al suo
posto lascerei una
mente uguale a mille altre e del tutto priva di attrattive. Come
potrei stroncare una simile poesia in nome della morale comune? Iosif
è come una fenice, una creatura che deve bruciare fino in
fondo per
poter rivelare la sua vera bellezza, e solo con l'annichilazione
svelerà la magnificenza della morte.
Lo
amo troppo per salvarlo.
ψ
Non
sono mai stato il classico ragazzino solare e pieno di amici.
Ho
dei vaghi flash di me stesso al primo anno di superiori, una cosa
alta e sottile come un lampione che se ne andava in giro con l'opera
omnia di Proust nello zaino e trascurava allegramente i libri di
scuola per quelli di narrativa. I miei voti erano mediocri,
così
come la mia capacità di relazionarmi con chi avevo intorno,
e non
ero nemmeno lontanamente attraente.
Non
parlavo, preferivo stare zitto in un angolo e ascoltare la gente. E
più la ascoltavo, meno mi piaceva la compagnia.
Ricordo
che i miei coetanei non riuscivano a portare a termine un discorso
senza urlare, e io ho sempre detestato quel modo di fare da scimmie;
imparai a tenermi in disparte, rispondendo solo quando interpellato,
e lentamente capii che, contrariamente a quanto affermavano i miei
genitori, non avevo bisogno di compagnia. Preferivo
stare da
solo piuttosto che mescolarmi con quella che mi sembrava una massa di
imbecilli volgari e ignoranti, consumatori di beni prefabbricati che
si cibavano di oggetti come io mi cibavo di libri ‒ utenti
più che persone. Futuri capi di banca, star del cinema,
avvocati e
politici... potevo già capire cosa sarebbero diventati e per
certi
versi invidiavo la facilità con cui si divertivano, ma non
riuscivo
a passare del tempo in loro compagnia. Era come se ogni cellula del
mio corpo li trovasse disgustosi, repellenti.
A
quindici anni gli unici amici che avevo erano un gruppo di weirdos
convinti di far parte di chissà quale club elitario, ma nel
complesso interessanti. Rappresentavamo l'omologazione ad un livello
differente, l'idea di essere originali rispetto ad un mondo
imperniato sull'estetica e sul materialismo, ma alla fine eravamo
più
esteti e materialisti dei bersagli delle nostre critiche. Non mi
sentivo ancora un diverso.
Non
prima di Noah.
I
suoi erano la classica famiglia bigotta nordamericana che trascorre
ogni domenica in chiesa, e quando Noah divenne mio amico io avevo
già
la faccia crivellata di piercing e un guardaroba che avrebbe fatto
invidia al cantante dei Dimmu Borgir. Non furono molto contenti di
vedermi arrivare a casa insieme al figlio, ma a me non interessava il
giudizio dei miei genitori ‒ anche loro dotati di
una fede
pari all'intolleranza, di cui avevano fatto un vanto ‒ figuriamoci
quello di Ned Flanders e consorte.
Noah
fu la prima persona a farmi mettere in dubbio il mio orientamento
sessuale, il primo ragazzo che baciai e con cui, per una serie di
fortunate casualità, finii a letto. Non so se lo amavo, ma
probabilmente i sentimenti che provavo erano la cosa più
vicina
all'amore che mi avesse mai sfiorato.
Immaginate
che gioia quando se ne andò tutto piagnucolante dai genitori
e
raccontò che lo avevo trasformato in un frocio contro la sua
volontà. E io che speravo di aver cancellato anni di
educazione
rigidamente cattolica con l'aiuto congiunto di Bukowski e Irvine
Welsh.
Seguì,
com'era prevedibile, uno scandalo, e poi l'Inferno. Mi piaceva
atteggiarmi a duro, fare finta di essere la personalità
gelida e
borderline che avevo sempre ammirato negli altri, ma quando ogni
bisonte etero della scuola si sentì autorizzato a prendermi
a calci
e infilarmi la testa nel cesso mi dimostrai il coniglio tremante che
ero.
Se
potessi tornare indietro, probabilmente cambierei tutto.
«Ehi,
sei sveglio?». La voce assonnata di Iosif mi riscuote dalla
catalessi. Si tira su dal groviglio di coperte sporche e vestiti
buttati alla rinfusa che è il suo letto, frugando sul piano
del
comodino finché non trova una sigaretta miracolosamente
intonsa e un
accendino. Odio il fumo ‒ arrochisce la voce ‒ ma devo sopportare
in silenzio se voglio rimanere ancora un po' in compagnia di Iosif.
«Hai
visite in programma?». Da parte mia sarebbe piuttosto ingenuo
pensare di essere l'unico a foraggiare i costosi vizi del mio vicino
di casa, comunque immaginarlo in compagnia d'altri non mi ha mai
creato problemi.
«Nah.
Per oggi sono più che a posto con... con la roba».
Gli
tremano le dita, così fragili che se le stringessi un po'
più del
dovuto potrei spezzarle. Mi chiedo come sarebbe la mia vita se anche
io dividessi la mia vita in segmenti di poche ore ‒ ricerca,
acquisto, cucina, botta, down, astinenza ‒ e poi realizzo che
è
già quel che faccio. Scandisco le giornate grazie ai
clienti,
appuntamenti ravvicinati nel tempo, e le ore trascorse con Iosif non
sono che momenti di respiro in una routine serrata.
Forse
la mia si può classificare come dipendenza. Assuefazione
alla
miseria umana.
«Hai
altri soldi?». Mi fissa con la stessa intensità
che riserva alle
banconote da cinquanta dollari «Perché posso
guadagnarmeli, se
vuoi».
Non
posso impedire ad un piccolo sorriso cospiratorio di incresparmi le
labbra.
«Per
me è sempre un piacere, Iosif».
ψ
Anthony
Hall ha le braccia muscolose e dure come l'acciaio e un taglio di
capelli che conferisce ancora più stolida ferocia al suo
viso da
scimmione. Ride mentre mi infila la testa nel water e la spinge a
fondo, verso l'acqua putrida, mentre conati di vomito e globi di
rabbia incandescente mi riempiono l'esofago fin quasi a soffocarmi.
Cristo,
vorrei ucciderlo. Prendere quella sua lurida testaccia del cazzo e
sbatterla sul muro fino a far uscire il cervello, strappargli le
palle e gettarle in una porcilaia. Ma prima vorrei vederlo umiliato e
deriso da tutti quei coglioni dei suoi amici.
Vorrei
che qualcuno gli infilasse la faccia in un cesso come lui sta facendo
con me.
«Allora,
frocio, ti piace la sottomissione?».
Lurido
verme del cazzo, mi auguro che un giorno qualcuno te lo metta in culo
contro la tua volontà.
«Adesso
non ti va più tanto di andare ad infettare le persone per
bene,
eh?».
Mi
dibatto, senza speranza. La risata di Hall è di gran lunga
più
disgustosa di qualsiasi cosa ci possa essere sul fondo di un cesso,
ma devo persino considerarmi fortunato per il fatto che non ha
chiesto ai suoi amichetti di partecipare al gioco. Loro sì
che sanno
essere fantasiosi, quando ne hanno voglia.
Succede
tutto così all'improvviso che non ho il tempo di rendermene
conto.
Tony
Hall mi spinge con più forza nel water, la mia faccia
finisce dritta
nell'acqua e per poco non rischio di soffocare. La scossa di
adrenalina che mi colpisce è così forte che
riesco a spingerlo via
con un calcio e a rotolare lontano dal WC, la testa gocciolante sul
pavimento di linoleum bianco del bagno della scuola; per qualche
bizzarro motivo ho ancora il coraggio di alzare la testa e fissare il
mio aguzzino dritto nei suoi occhietti porcini, simili a minuscoli
sassolini lucidi.
Il
mondo sembra sparire.
La
sensazione è che tutto ciò che ho intorno si
offuschi e decada in
un'indistinta nebbiolina grigia, e l'unica percezione costante
è
quella delle pupille di Hall piantate nelle mie. E in quei buchi neri
ci sono... masse, aggregati di ogni forma e
dimensione che
pulsano in uno spazio scuro e caotico come una discoteca piena di
gente; mi attirano come calamite potentissime, ed è come se
la mia
testa si dilatasse per avvicinarsi il più possibile a quella
di
Hall. Mi sforzo di sfiorare una di quelle forme indistinte e subito
vengo catapultato nel bel mezzo di una partita di football, con
giocatori in uniforme imbottita che corrono disordinatamente per il
campo e il pubblico che rumoreggia. Non appena tocco un'altra massa
mi investe un senso di potente euforia, e le labbra di una procace
ragazza bionda si avvicinano alle mie ‒ adesso sono seduto su uno
sgabello in un pub all'ultima moda, il ritrovo abituale degli
studenti in della mia scuola. La ragazza si chiama
Audrey
Stevens, ed è la capo-cheerleader.
Ed
è allora che, complice la mia grande passione per la
letteratura
sci-fi, capisco.
Cazzo,
sono nella testa di Tony Hall.
Il
terrore mi investe giusto per qualche minuto, il tempo necessario
perché la mia immaginazione sempre in moto lasci germogliare
un'idea. Se questo è vero, se non è un sogno, se
davvero ho tra le
mani i pensieri più nascosti del peggior figlio di puttana
che abbia
mai incontrato, allora è arrivato il momento della rivincita.
È
l'istinto a guidarmi. Basta poco per capire come espandermi a mio
piacimento in questo labirinto di nebulose informi, anche se
all’inizio mi costa una certa fatica. Afferro una delle masse
più
luminose, uno splendido concentrato di gioia, e la disintegro tra le
dita come una palla di neve. Distruggo a calci intere vie lattee di
allegria, invidia, tristezza, interesse, praticamente ogni singola
esperienza emotiva che il maledetto Tony Hall ha immagazzinato nel
corso della sua vita finisce schiacciata nella morsa della mia
coscienza. Scopro di non poter sradicare i ricordi ‒ quelli
rimangono fissi come cozze attaccate ad uno scoglio ‒ ma non
è
comunque un gran cruccio nel momento in cui riesco a svuotarli di
ogni sentimento, pallidi fantasmi privi di significato.
Non
gli restano nemmeno le emozioni negative, perché non voglio
che
questo stronzo le sfoghi su qualcun altro ‒ specialmente su di me,
ad essere onesti.
Quando
mi ritiro dalla mente di Hall e il mondo riacquista forma e colore,
il mio aguzzino è sdraiato per terra con un filo di bava che
gli
cola dalla bocca e lo sguardo impersonale, fisso. Ho come la
sensazione che non gli passerà molto presto.
Raccolgo
lo zaino, gettato a terra accanto al water, e scappo. Sono sicuro che
non riusciranno mai a darmi la colpa dell'encefalogramma piatto di
Anthony Hall, ma una paura irragionevole mi spinge a macinare metri e
metri di corridoi finché non sono fuori, all'aria aperta.
Non
sono più un bamboccio indif...
Bi-bi-bip.
Bi-bi-bip. Bi-bi-bip.
«Ah,
ma vaffanculo!». Il telefono mi sveglia a metà di
quello che
prometteva di essere il miglior sogno-ricordo dell'anno. Allungo una
mano sul comodino, ancora un po' intorpidito, e rifletto. Sono
tutt'ora estremamente soddisfatto della fine che ho fatto fare a
quell'imbecille arrogante, a volte fantastico persino su come avrei
potuto ridurlo se la mia abilità fosse stata sviluppata ai
livelli
attuali, ma forse non meritava tutta quella ferocia. Era solo un
teenager più stupido della media.
Di
sicuro meno stupido di me, che ho dimenticato di mettere i tappi per
le orecchie.
«Pronto?».
«Aiuto».
Basta
quella parola, intrisa di un terrore che riesce a colpirmi nonostante
il filtro del microfono, a dissipare del tutto gli ultimi barbagli di
sonno. Scatto sedere sul letto, il cordless schiacciato
sull’orecchio
sin quasi a far male, e sussurro: «Chi
è?».
«Lo
so che sei quello che aiuta la gente. Lo so. Me l’ha detto un
mio
amico, che aiuti la gente». È un torrente di
parole sconclusionate,
inframmezzate da singhiozzi e sospiri isterici; la voce sembrerebbe
maschile, anche se piuttosto acuta. Quando guardo la sveglia per poco
non mi prende un colpo: sono le tre e quaranta del mattino.
«Ehi,
amico, calmati. Sono sempre disponibile per qualsiasi cosa, ma qual
è
il prob‒»
«Adesso.
Devi aiutarmi adesso. Se no io mi ammazzo,
capito?».
Percepisco un brivido che mi accarezza la schiena dalla nuca alle
natiche, sibillino, e una vampa di calore che accompagna
l’aumento
del battito cardiaco e precede di poco il sudore. Sapevo che prima o
poi mi sarebbe capitato di immischiarmi in qualche situazione
inquietante, ma non è mai troppo presto.
«Ok,
ok». Vorrei sembrare calmo, ma quello che mi esce dalla bocca
è un
mezzo verso strozzato «Va bene, arrivo immediatamente, ma
dimmi dove
sei». Il pensiero che dall’altra parte del filo ci
sia qualcuno
che sta consapevolmente mettendo le sue vita nelle mie mani incapaci
mi terrorizza più della prospettiva di un pazzo armato
d’ascia,
appostato in attesa del momento propizio per tirarmi fuori le
budella.
Mentre
immagino la meravigliosa prospettiva del mio intestino tenue che
diventa un nuovo pezzo d’arredamento, il ragazzo al telefono
mi
comunica piangendo il nome di un parchetto che, per qualche
miracolosa combinazione del destino, non è troppo lontano da
casa
mia. Posso raggiungerlo a piedi.
Butto
il cordless dall’altra parte della stanza e infilo le scarpe
da
ginnastica sotto il pigiama. Alle tre e quaranta per questo merdoso
quartiere girano solo puttane e spacciatori, gente che
eviterà di
far caso ai miei vestiti sbrindellati. Forse riuscirò
addirittura ad
evitare le minacce di morte e i tentativi di rapina ‒ così
conciato nemmeno l’individuo più disperato della
terra si
azzarderebbe a chiedermi dei soldi.
Corro
fuori dall’appartamento, giù per le scale,
continuo ad arrancare
anche quando il freddo pungente della notte attacca la pelle. Non
sono mai stato uno sportivo, e bastano dieci minuti di andatura
sostenuta perché i polmoni comincino a bruciare come se
avessi
inalato acido solforico.
Raggiungo
il parco in tempi minimi; è un fazzoletto di prato con pochi
alberi
e gli scheletri malandati di qualche panchina, avvolto in un buio
quasi totale a causa dei numerosi lampioni rotti ‒ il genere di
posto che, se di giorno non ha la minima attrattiva, di notte diventa
lugubre e losco.
Lui,
però,
lo vedo
benissimo. Sfiderei chiunque a non vederlo.
Indossa
scarpe col tacco vertiginose, di un rosa così acceso che
dev'essere
impossibile guardarle alla luce del Sole. Gambe lunghe, nude e
depilate con un'accortezza che credevo impossibile per un uomo,
scompaiono in una minigonna di paillette azzurrognole che, a
contrasto con la giacca di pelo intonata alle scarpe, lo fa sembrare
una specie di Barbie. O un Ken che le ha rubato i vestiti.
Fantastico.
Sembra un tipo più incasinato di quanto pensassi.
Ha
il viso rigato di lacrime e generose quantità di trucco
sciolto, i
pugni stretti attorno ad un fazzoletto di carta e le unghie, laccate
di rosso, sono artigli lunghi tre centimetri.
«Ehi,»
mi avvicino con circospezione e nel frattempo cerco freneticamente
qualche altra presenza umana, nella speranza di essermi sbagliato
«ciao. Mi hai chiamato qualche minuto fa, giusto?».
Lui
solleva lo sguardo dalle scarpe − e nonostante la luce fioca
i suoi
occhi sembrano brillare, così chiari che iride e sclera si
confondono − poi cerca di asciugarsi le lacrime, con l'unico
risultato di spalmare la matita sciolta sulle guance incavate. Sembra
uscito da un campo d'addestramento dei Navy Seals o da un film di
Sylvester Stallone, e la cosa, più che divertirmi, mi
impietosisce.
Sto
fermo come una statua mentre mi analizza. Si prende qualche secondo
più del necessario, scrutandomi sospettosamente dalla testa
ai
piedi, poi tira un sospiro di sollievo e si rilassa contro lo
schienale della panchina. Cosa si aspettava, l'ennesimo vecchio
bavoso? Deve averne visti molti, con la faccia che si ritrova.
«Sai,
credevo che tu fossi un po' più... Freud».
Ridacchia, brevi
singhiozzi privi di allegria, poi mi porge la mano «Lascia
stare, me
ne esco sempre con le cazzate. Io sono Marvin».
Che
strano, qualcuno che non usa uno pseudonimo idiota con me. La
sensazione è fastidiosamente intima, ma quasi mi dispiace
non poter
fare lo stesso.
«Frank
Zappa, molto piacere».
Mi
lancia un'occhiata sorpresa, e per un attimo penso che abbia capito
il suo errore nel presentarsi con il nome di battesimo; Marvin,
però,
sbatte le ciglia impiastricciate di mascara con aria innocente e
dice: «Ah, wow. Quindi hai origini italiane».
Io
sono a stelle e strisce fin nel midollo, amico, e tu ascolti musica
di merda.
«Sì,
per parte di madre. Posso sedermi, Marvin?».
Il
travestito − non ha nemmeno un vago accenno di tette sotto
quella
montagna di pelo rosa − annuisce e si fa un po'
più in là su una
panchina che potrebbe contenere agevolmente quattro camionisti da
cento chili ciascuno. Persone come questa ce l'hanno scritto in
fronte che sono delle vittime, che qualsiasi cosa capiterà
saranno
le prime a sottomettersi e subire il lato peggiore della vita; li
riconosco subito, con quei sorrisi timidi e il modo impacciato di
scuotere il capo, con le dita che tremano per la tensione e gli occhi
che non sanno mai dove posarsi − e so, anche se non vorrei,
che sto
guardando un pezzo di carne da macello. Marvin è quello che
sarei io
se non avessi la mia abilità.
«Allora,
che ci fai da solo in questo posto alle quattro del mattino?».
«Non
so dove scappare». Marvin nasconde il viso tra le mani, la
sua voce
si fa soffocata «O dove nascondermi. Un mio amico mi ha detto
che
hai aiutato la sua ragazza, che con una seduta riesci a curare la
gente che soffre. Così... così ho pensato di
fermarmi da qualche
parte e chiamarti».
«Perché
dovresti scappare? Hai combinato qualche casino? C'è
qualcuno che
vuole farti del male?».
Non
ha l'aria nevrotica e sciupata di Iosif, ma in questo quartiere ci
sono ben pochi ragazzi che il sabato sera non vomitano anche l'anima
ai lati del marciapiedi, strafatti o ubriachi. Per non parlare di
quelli che sarebbero disposti a spaccare la faccia a Marvin per via
delle sue inclinazioni.
A
sorpresa, però, mi caccia in mano il fazzoletto
appallottolato e si
volta dall'altra parte, in modo che non possa guardarlo in faccia. Mi
accorgo che si tratta in effetti di un foglio di carta da stampante,
bagnato e accartocciato fino a diventare morbido, e lo stendo sulle
ginocchia cercando di capire quello che c'è scritto
nonostante il
buio. In alto c'è il nome di un ospedale che non ho mai
sentito e un
timbro rettangolare mezzo sbiadito, e i caratteri neri spiccano sulla
carta immacolata con una crudeltà tutta particolare.
«Ah...»
cerco di controllare l'espressione del viso mentre lo piego in
quattro, con cura, e lo restituisco al legittimo proprietario
«...
mi dispiace, Marvin».
Che
frase del cazzo. Scommetto che un bambino di sei anni saprebbe fare
di meglio.
Il
fatto è che non so rapportarmi con situazioni come questa ‒
non
sono tagliato per i problemi gravi che riguardano il presente,
l'immediato, specialmente se non c'è modo di risolverli.
Come si fa
ad eliminare la sofferenza dalla mente di qualcuno che ha appena
scoperto di essere sieropositivo?
Come
posso esorcizzare un fantasma che gli rimarrà incollato per
tutta la
vita? Questi non sono traumi infantili, ombre del subconscio che si
possono fugare con la mia abilità. Questa è una
tragedia vera, e io
non sono la persona giusta per arginarla.
«Se
pensi che mi sia beccato il virus facendo marchette o bucandomi,
be'...» singhiozza, stritolando il responso delle analisi
come se la
sua rabbia cieca bastasse per cancellarlo «... non hai capito
un
cazzo. Quel figlio di puttana con cui stavo se l'è preso da
una
troia qualsiasi che nemmeno conosceva, e poi l'ha passato a
me».
«Lui
non sapeva di averlo, giusto?».
«No,
ma lei se l'è scopata mentre stava con me. Col cazzo che lo
perdono,
bastardo di merda...»
La
sua parlata ben poco elegante tradisce origini umili almeno quanto la
qualità dozzinale della parrucca bionda che indossa; povero
Marvin,
una vita iniziata male, continuata peggio e destinata ad un finale
così misero che non ho nemmeno voglia di immaginarlo. Se
anche
entrassi nella sua mente e frugassi a fondo, dubito che riuscirei ad
eliminare il nocciolo del problema: la malattia non è un
ricordo
passato che perderà di intensità se slegato da
qualsiasi emozione,
ma un incubo presente e assillante come il
ticchettio della
goccia cinese. Potrei spazzare via il dolore, ma ritornerebbe subito.
«Marvin,»
come si fa a controllare la voce mentre si distruggono le speranze di
una persona? «sono desolato, ma il tuo caso è
molto... particolare.
Non esiste una terapia per questo tipo di problemi, capisci? Si va da
un assistente sociale o da uno psicologo quando si vuole risolvere un
conflitto di natura astratta, o che comunque non sussiste nel
presente, non quando...» mi blocco a metà, non so
come continuare.
Mi guarda con una disperazione così intensa che mi sento
mancare la
terra sotto i piedi.
Cerco
− invano ‒ di recuperare il mio lato più cinico e
menefreghista,
ma tutto quello che ottengo è una secchiata di vergogna
bruciante e
il pensiero che sì, sono il peggior rifiuto umano sulla
faccia della
Terra. Un fallimento. Dev'essere quello che succede quando un
disadattato con evidenti problemi relazionali pregressi cerca di
prendersi cura di altre persone.
«Io
ho solo bisogno che tu mi dica perché non dovrei
ammazzarmi». La
voce di Marvin è un sussurro tremulo, mi fa venire i brividi
«Dammi
una sola ragione, Frank. Dimmi perché al mondo serve uno
come me, e
basterà. Se vuoi ti pago. Ma dimmelo».
A
questo punto mi si presenta un bivio. Potrei tirare fuori un mucchio
di cazzate sull'unicità di Marvin, sul fatto che uccidendosi
renderà
tristi tante altre persone. Potrei dirgli che avrà una vita
soddisfacente anche con l'HIV, se si curerà, che ci sono
moltissime
cose in lui che chiunque sarebbe disposto ad amare.
Ma
so che non funzionerebbe, perché ai tempi non ha fermato
neanche me.
Così,
con i suoi enormi occhi chiari puntati addosso, lo incoraggio a fare
l'unica cosa che mi sia mai riuscita in tutta la mia vita. Gli do il
consiglio peggiore, ma paradossalmente anche quello di cui adesso ha
più bisogno.
«Lo
stronzo che ti ha tradito... come si chiama?».
«Joseph».
«Bene,
è ora che Joseph si becchi una razione doppia di calci nel
culo. Te
lo dico io perché servi al mondo, Marvin: perché
uno stronzo come
quello non possa più fare del male a qualcuno». Lo
guardo, un
ragazzino infagottato in vestiti ridicoli, e non ho mai visto niente
di meno minaccioso in tutta la mia vita «Capisci? Sputtanalo,
paga
qualcuno perché gli faccia il culo, tira fuori le palle e
pestalo
fino a fargli sputare tutti i denti. Ma non lasciare che quello che
ti ha fatto resti impunito».
Nel
mio sguardo ci dev'essere qualcosa che lo ha allarmato,
perché si
allontanato leggermente; senza curarmene, continuo: «Puoi
star certo
che al resto del mondo non importerà se tu soffri per colpa
di un
bastardo. La gente fa sempre così: chiude gli occhi davanti
alle
ingiustizie e si rintana nel suo ovile comodo e sicuro, al riparo del
gregge. Se non dimostri che sei abbastanza forte, se ti ammazzi,
anche da morto ti trasformeranno in un reietto». Ho preteso
per
tutta la vita di non tenere in nessun conto l'opinione della gente, e
solo adesso mi rendo conto che probabilmente ho sempre vissuto
basandomi unicamente sui pareri altrui. Simulare spavalderia e
menefreghismo solo perché non si è capaci di
entrare in contatto
con il resto del mondo... suona patetico, ma a volte bisogna
aggrapparsi anche ad una cosa del genere. Devo ricordarmi in
continuazione che basto a me stesso.
«Mi
stai dicendo che dovrei vivere per... vendicarmi? Sembra tanto un
pessimo film di Hollywood».
«Tu
mi hai chiesto un parere, io te l'ho dato. Vorresti che qualcuno si
sentisse come ti senti adesso tu?». Sembra che la crisi di
pianto
sia rientrata nei ranghi.
Marvin
scuote la testa, le emozioni scorrono sul suo viso come sullo schermo
di un cinema.
«Forse
è una ragione peggiore di tante altre». Sospira,
infine, buttando
il foglio spiegazzato a terra «Ma è una ragione.
Fai dei bei
giochetti con le parole, tu».
«Be',
mi dispiace di non averti potuto aiutare».
Improvvisamente
mi rendo conto che sono le quattro e mezza di mattina, che ho una
discreta quantità di sonno arretrato e ho trascorso l'ultima
ora
della mia vita a preoccuparmi per un travestito con l'HIV in piena
crisi isterica. Improvvisamente, già, ho voglia di buttarmi
su un
letto e non incrociare mai più lo sguardo ridicolmente
speranzoso di
Marvin, puntato su di me come un faro.
Non
fissarmi in quel modo. E non farlo neanche con gli altri, idiota.
Ti
tradiranno altre mille volte, ti racconteranno un mucchio di cazzate.
Le persone lo fanno.
E
io sono il peggiore tra loro.
«Io...
credo che tornerò a dormire. Domani ‒ cioè, oggi
‒ ho un
mucchio di lavoro arretrato». Scatto in piedi, spinto da un
impulso
irrefrenabile, e faccio un mezzo passo indietro. Devo sembrare
ridicolo, con il pigiama che mi cade da tutte le parti e le scarpe
allacciate male «Arrivederci, Marvin».
Non
faccio in tempo a voltarmi che lui mi afferra un polso, stringendolo
tra le dita umide di lacrime, ed esclama: «Aspetta! Ti prego,
non te
ne andare».
Una
parte di me vorrebbe scrollarsi di dosso quella mano e scappare,
l'altra sceglie impietosamente di dare retta al ragazzino.
«Che
cosa vuoi?». Non riesco comunque ad impedirmi di suonare un
po'
brusco, ma so già che, qualsiasi cosa Marvin stia per
chiedermi, la
farò. Ha qualcosa di diverso da tutti gli altri, un'ombra di
grazia
innata che gli conferisce una bellezza del tutto aliena agli abiti
lisi del mio Marc Jakobs e alla tranquillità sudaticcia di
Marjorine. Mi rendo conto che potrei desiderarlo persino più
di
Iosif, se non sapessi che si porta dentro il virus.
E
io che speravo di aver accantonato ogni sentimentalismo.
«Non
ho un posto dove andare. Vivo con Joseph, ma a casa non ci
torno».
So
già dove vuole andare a parare, e socchiudo gli occhi in
attesa
della mazzata.
«Ti
prego, ospitami per una notte. Una notte soltanto, domani
chiamerò
qualche amico e me ne andrò da un'altra parte... non ti
accorgerai
nemmeno che ci sono, se vuoi dormirò sul
pavimento».
Lo
fisso. Ha la parrucca storta da una parte, la pelle d'oca sulle gambe
e i denti macchiati di rossetto.
«Va
bene».
ψ
Com'era
prevedibile, gli amici di Marvin non rispondono al telefono.
Non
credo che menta, da quel poco che ho visto non ne è nemmeno
lontanamente capace, e poi si aggira per il mio appartamento come
un'anima in pena, il telefono stretto in una mano e l'altra calcata
tra i capelli ‒ che, parrucche a parte, sono folti e rossicci come
le foglie degli aceri in autunno.
Dopo
due giorni di pantomima decido che il nervosismo di Marvin influisce
negativamente sul mio rendimento lavorativo. «Su, non fare il
coglione». Gli dico «Puoi prendere residenza fissa
sul mio divano
finché non trovi un altro posto, l'importante è
che mi passi un po'
di grana. Sai, l'affitto».
Non
sono uno di quegli psicopatici che vedono l'HIV come una specie di
peste bubbonica del nuovo millennio ‒ non ho la minima intenzione
di intrattenere rapporti romantici e/o sessuali con Marvin, per cui
le possibilità di un contagio accidentale si avvicinano allo
zero.
Rischio molto di più ogni volta che finisco a letto con
Iosif, che
avrà fatto il test sì e no due volte in tutta la
sua vita (e puoi
usare tutti i preservativi che vuoi, ma statisticamente c'è
sempre
quello che si romperà nel momento meno opportuno).
La
quotidianità si trasforma con una velocità
allarmante, e la
presenza del nuovo coinquilino comincia ad invadere i miei preziosi
intervalli di solitudine. Marvin non è un tipo invadente o
chiassoso
‒ sta fuori tutto il giorno, e quando non lavora come cameriere in
una pizzeria del centro si agghinda ed esce fino alle cinque di
mattina ‒ ma sono le piccole cose, i particolari che ha stravolto a
colpirmi.
Accanto al divano, per esempio, c'è una valigia con i
suoi vestiti. Nel bagno si è preso un angolo e l'ha riempito
di
creme dai nomi strani e borsette stracolme di trucchi. Sul televisore
è comparsa una colonnina perfettamente ordinata di DVD ‒ ho
scoperto con grande stupore che sono gli stessi film che guardavo
insieme ai miei amici del liceo.
Non
mi sento infastidito, solo... confuso.
Fortunatamente
i clienti riescono sempre a ristabilire il giusto ordine nella mia
vita. Martedì mattina apro l'agenda per dare un'occhiata
agli
appuntamenti della giornata e, non senza un certo piacere, leggo
l'annotazione "Julia - Marc Jacobs" sulla riga
delle
11.00; adoro gli incarichi che riguardano insicurezze così
blande, e
sono anche abbastanza incuriosito dal tipo di donna che ha deciso di
passare la propria vita con lo squallido yuppie che ho incontrato
pochi giorni fa.
Per
una volta curo un po' di più il mio aspetto, sistemo i
capelli e i
vestiti e metto persino un po' di profumo. Non so nemmeno io
perché
lo faccio ‒ se per una sorta di antagonismo verso Marc Jacobs, per
dimostrare che sono meglio di lui, o per la vanità che
Marvin è
riuscito inspiegabilmente a risvegliare ‒ ma quando mi rimiro
nell'unico, lurido specchio dell'appartamento mi sento piuttosto
stupido. Stupidamente ridicolo.
«Non
torno a pranzo». Grido, e Marvin emette un vago mugugno
mentre si
spalma la faccia con una crema verdognola dall'aria ben poco
invitante «Ehi, capito?».
«Non
sono mica tua moglie, cazzo. Scaverò in quel relitto di
frigo alla
ricerca di qualcosa».
Mi
dico che non dovrei apprezzare risposte acide come questa
più del
consentito, che sarebbe ben più saggio cacciarlo fuori a
calci ‒ e
invece faccio spallucce, contengo il sorriso fino alla soglia ed esco
dall'appartamento con un ghigno idiota che mi tende tutti i muscoli
della faccia. Ghigno che non scompare nemmeno quando affronto un
disperato dopo l'altro, usando la mia abilità con una
disinvoltura
che velocizza notevolmente il lavoro; forse c'è persino un
po' di
felicità, in me, quando mi preparo
all'incontro delle 11.00.
La
situazione ti sta sfuggendo di mano, vecchio mio.
Le
strade sono quasi deserte, la maggior parte della gente è al
lavoro
o sta già preparando il pranzo, ma nel minuscolo bar dove ho
fissato
l'appuntamento c'è una calca notevole; fortunatamente
riconosco
immediatamente Julia, abbandonata contro lo schienale della
poltroncina con il viso notevolmente rannuvolato. Spesso mi chiedo
come facciano i clienti a farmi trovare i loro amici e parenti nei
posti che stabilisco io, all'ora giusta ‒ se dovessi farlo io,
probabilmente i miei tentativi si concluderebbero con un fallimento
abbastanza misero.
Mi
siedo con nonchalance, le sorrido.
«Ciao,
sei qui da sola?».
Lei
non sembra particolarmente colpita, ma non mi scaccia.
«Quindi
sei tu il famoso amico di Arthur che dovrebbe aiutarmi per la
plastica al naso? Non hai l'aria del dottore, tesoro».
Mi
irrigidisco e prego ogni divinità del firmamento che questa
donna
non pretenda una conversazione incentrata sulla chirurgia estetica:
le uniche nozioni che ho al riguardo derivano da qualche servizio
scandalistico sulle tette di Pamela Anderson. Sudando freddo, mi
produco in un sorrisetto tirato e giocherello con il porta-fazzoletti
di metallo.
«Io
sono il... tramite. Conosco un chirurgo che è un vero
esperto in
questo genere di cose ed è disposto ad abbassare
notevolmente il
prezzo se sono io a chiedergli un favore, ma tutto dipende dal vostro
budget».
«Stiamo
parlando di una clinica privata?».
Annuisco.
Non vedo l'ora di finirla, ma lei non è ancora abbastanza
tranquilla.
«Naturalmente.
Il prezzo per un intervento di questo tipo, e stiamo parlando di
plastiche di alto livello, va dai seimila ai settemila dollari. Per
te si potrebbe parlare di... cinquemila, forse quattromilacinquecento
dollari».
Julia
si ravvia i capelli con un gesto stanco e mi lancia uno sguardo
rassegnato dei suoi magnifici occhi azzurri; è elegante, una
bellezza matura che riesce a farsi notare nonostante il difetto
abbastanza marcato che ha al centro del viso ‒ e sembrerebbe anche
piuttosto intelligente.
«Con
lo stipendio di mio marito e l'affitto, le bollette e l'assicurazione
non avrò mai quattromila dollari da spendere in una cosa del
genere.
Scusa, come hai detto che ti chiami? Non ci siamo presentati, mi
sembra».
«Dylan».
«Julia».
Fruga nel cappotto finché non trova un pacchetto di
sigarette e un
accendino, poi sembra ricordarsi che in questo locale non è
permesso
fumare e li posa sul tavolo «Tu sei fortunato, Dylan. Giovane
e
carino... quanti anni hai?».
«Ventiquattro.
E non credo che tu abbia bisogno di una plastica al naso, credimi.
Sei... bella così come sei».
Il mio tentativo di flirt va in
porto, lei sorride con aria lusingata e si sistema una ciocca di
capelli dietro l'orecchio, ma c'è comunque una luce fredda
nei suoi
occhi. Non mi crede.
«Una
delle caratteristiche che ogni uomo dovrebbe possedere per piacere
alle donne è l'abilità nel mentire».
Sorride, lievemente
maliziosa.
«Tu
che voto mi daresti?».
«Otto
e mezzo».
Colgo
l'attimo di rilassata intimità e cerco di immergermi nella
mente di
Julia, scivolando nei suoi occhi azzurri come un verme in un pantano
di fango viscido. La sua espressione si congela in quella che
inizialmente credo semplice catatonia, ma ben presto la
realtà della
situazione mi colpisce più forte di un pugno.
Non
riesco ad entrare.
C'è
una specie di barriera, uno schermo d'acciaio che mi separa dalla
mente di Julia. Mi affanno per cercare di abbatterlo, e i miei sforzi
cessano nel momento esatto in cui lei ‒ con mio grande stupore ‒
inclina la testa da un lato e comincia a ridere come un'ossessa,
dondolando contro lo schienale della poltroncina. So che dovrei
alzarmi e scappare, ma una forza sconosciuta mi tiene ancorato alla
sedia e sento il cuore in procinto di esplodere.
«Oh,
mio, Dio». Tra una parola e l'altra infila una risata alta e
singhiozzante, da iena, fissandomi con quei suoi strani occhi gelidi
«Non ci posso credere. Cosa pensavi di fare,
stronzetto?».
Mi
sento un topo, un minuscolo topolino da laboratorio in trappola.
«Cosa
diavolo sei?». Conosco già la risposta, ma nulla
mi impedisce di
sperare che questo sia semplicemente un brutto incubo. Cerco di
tirarmi in piedi e scopro che i muscoli non mi rispondono
più, un
attimo prima che un dolore lancinante mi trapassi le tempie e le dita
gelide di Julia si infilino nel mio cervello. Mi sono sempre chiesto
cosa provino le persone su cui utilizzo l'abilità, e adesso
lo so: è
una violenza disgustosa, invasiva, uno stupro della mente in cui si
resta inermi mentre qualcun altro fruga tra tuoi i ricordi e li
accarezza a suo piacimento ‒ tutte le mie emozioni nelle mani di
Julia, una creatura che è come me ma, realizzo,
infinitamente più
potente.
Tra
tutti i pensieri che potrei formulare in questo momento, ne sovviene
uno particolarmente futile: questa donna mi ha appena privato
dell'unica qualità veramente unica che possedevo. Sono di
nuovo uno
dei tanti, membro standardizzato di un'ampia categoria. Meraviglioso.
«Ah,
che vita interessante». Non so come faccia a rimanere
ancorata alla
realtà mentre si infiltra nella mia memoria, io non ci sono
mai
riuscito «Quindi ne hai fatto un lavoro, uh? Ed è
per quello che
sei qui... perché quel coglione di Arthur si preoccupa per
me e per
i suoi soldi». La sua risata mi fa venire la nausea, mi
ricorda
quella di Tony Hall.
«Credevi
di essere l'unico sulla faccia della Terra? Che pretesa ridicola.
Nessuno è realmente unico, Dylan, men
che meno che quelli
come noi. Siamo come sciacalli, che proliferano quando gli altri
soffrono... e la gente soffre così tanto, così
tanto... oh, guarda.
Eri un bambino problematico anche tu, eh?».
Questo
è mille volte peggio di qualsiasi cosa Tony Hall mi abbia
mai fatto.
La sento avvicinarsi al punto nevralgico, al nodo di rabbia e
risentimento che si annida al centro della mia mente ‒ ma non
voglio, non voglio che lo tocchi. Non voglio che
veda, che
sappia quello di cui non ho mai osato parlare nemmeno a me stesso ‒
e cerco di dibattermi, ma la mia abilità è la
mano impotente di un
bambino contro gli artigli di una tigre affamata. Ha già
vinto.
«Ma
pensa, non sei nemmeno riuscito ad ammazzarti. Questo sì che
è da
falliti, bimbo».
Vorrei
morire. La rabbia che mi assale è così tanta che
per un attimo
Julia indietreggia e io riesco quantomeno a parlare, anche se di
alzarmi e fuggire come vorrei non se ne parla nemmeno.
«Lasciami
andare, stronz−»
«Zitto».
Riprende subito il controllo, chiudendomi la bocca mentre si
accarezza le labbra con aria civettuola «Sai, di solito
riesco a
percepire la presenza di quelli come noi, ma il tuo potere è
così
debole che a stento si avverte. Quello che riesci a fare,
però, è...
ammirevole, direi. Quasi geniale. Curi gli altri per non pensare ai
tuoi problemi».
Maledetta
puttana, non sai niente di me.
«Oh,
non so niente di te? Non direi proprio, caro il mio intossicazione
da fenobarbital. Avresti fatto prima a buttarti sotto una
macchina in corsa, se proprio non volevi che la gente capisse che la
tua era solo una disperata richiesta di attenzioni. L'hai
già detto
a Marvin?».
Solo
adesso capisco la portata della situazione, la minaccia melliflua
sepolta nelle parole di Julia.
«Che
cosa vuoi fare, adesso?». Ringhio, quando lei mi lascia
intenzionalmente libero perché possa risponderle −
è come se
qualcuno avesse eliminato una pressione di diverse centinaia di chili
dal mio cranio.
«Ho
sempre seguito una politica aggressiva nei confronti dei piccoli
cazzoni come te, bimbo». Più che un sorriso,
quello di Julia è uno
snudare le zanne «E sono piuttosto vendicativa nei confronti
di chi
cerca di fregarmi. Ma tu sei troppo patetico perché possa
pensare di
prendermela con te, non trovi? Fai finta che la realtà non
esista,
ti trovi persino questo pseudo-amore pieno di problemi... oh, gli
ostruzionisti. Forse un po' vi invidio».
«Ti
ho chiesto che cosa vuoi fare». Inspiro, mi aggrappo al bordo
del
tavolino con tutte le mie forze e mi sento quasi mancare «Ce
ne sono
degli altri come noi, vero?».
«Oh,
ce n'erano degli altri, in questa città,
prima che li
uccidessi uno per uno». La voce calma e impersonale di Julia
ha il
potere di terrorizzarmi. Raggelato, la guardo in attesa che riprenda
possesso della mia coscienza e la renda una poltiglia di materia
grigia e sinapsi distrutte, esattamente come io ho fatto con Tony
Hall.
«Perché...»
faccio fatica a parlare, un sudore freddo come ghiaccio scorre sulla
schiena «... perché hai fatto una cosa del
genere?».
«Forse
non lo sai, ma noi portatori del dono possiamo
prenderci la
forza degli altri una volta che li abbiamo ammazzati. Come le zanzare
o le pulci, succhiamo via il potere dal cervello di chi lo
possiede».
Sorride di nuovo, e io perdo del tutto la capacità di
ragionare
coerentemente. Sono morto.
«Ma
non mi servirebbe a niente prendermi il tuo, bimbo. È
così poco che
non lo sentirei nemmeno». Si alza in piedi, raccoglie
sigarette e
accendino, mi volta le spalle e fa per uscire. Proprio quando sto per
tirare un sospiro di sollievo e un timido barlume di speranza si
affaccia nella mia mente, Julia mi regala uno sguardo che mi
fa
accapponare la pelle e sussurra: «Non credere che non ci
rivedremo,
bimbo. So già che mi mancherai».
Solo
quando è uscita dal locale mi rendo conto delle scie umide
che ho
sulle guance.
Sto
piangendo. Sto piangendo di paura, e non c'è assolutamente
niente
che possa fare per tirarmi fuori da questo incubo.
ψ
Ho
staccato il telefono.
Marvin
mi ha chiesto il perché, ma non gli ho risposto. Per cinque
giorni
ho aspettato che si materializzasse una soluzione al problema,
raggomitolato tra le coperte nella mia stanza che puzza di chiuso, ma
per quanto mi arrovellassi non ho trovato vie d'uscita; così
ho
strappato un foglio a quadri da un vecchio quaderno, ho acceso il
computer e ho deciso di compilare la lista.
Fosforo
rosso, trecentonovantanove dollari e novantanove centesimi.
Costa
troppo.
Veleno
per topi, tredici dollari e novantotto centesimi.
Doloroso.
Stricnina,
irreperibile a meno di non possedere una ricetta.
Cianuro,
irreperibile.
Candeggina.
Varechina.
Barbiturici.
Rasoio.
Benzina.
«Ar-se-ni-co».
Sillabo, tracciando le parole con mano più ferma di quanto
credevo
possibile. Stavolta non devo sbagliarmi, non devono potermi salvare
−
soprattutto Marvin, spero che abbia l'accortezza di buttare il mio
cadavere in un fosso con l'aiuto di Iosif e stabilirsi vita natural
durante nell'appartamento. Forse dovrei avviare una qualche sorta di
procedura testamentaria, ma sono al verde e non posso permettermi un
notaio.
Mi
è rimasto un centone, e con quello comprerò la
sostanza destinata
ad ammazzarmi. Non posso vivere con il ricordo delle grinfie gelide
di Julia nel mio cervello, con il suo sguardo che compare in ogni
incubo e la sua risata agghiacciante che mi riverbera nelle orecchie;
soprattutto, non riesco ad uscire di casa se penso che potrei
trovarmela davanti a qualsiasi ora. La paura mi paralizza soprattutto
quando realizzo che non importa quanto mi nascondo, lei prima o poi
verrà a cercarmi.
Percepisce
la presenza di quelli come noi.
Fisso
il foglio, lo studio, rileggo i nomi impilati ordinatamente ed
equidistanti dal margine sinistro, passo le dita su Stricnina
e arriccio il naso quando il pollice scivola inavvertitamente su
Varechina; sospiro, infine, prima di stracciare la
carta
sottile con mani nervose e appoggiare la nuca al muro alle mie
spalle, sospirando.
Marvin
obietterebbe che le mie prediche si allontanano un bel po' dalle mie
azioni, ma lui non si trova a fronteggiare un mostro impazzito e
infinitamente forte. Lui ha le sue medicine che gli danno una
speranza di salvezza, mentre ogni appiglio a cui io
cerco di
aggrapparmi sfugge sotto le dita come se fosse cosparso di olio.
Se
la spada di Damocle pende sulla mia testa, allora sarò io
stesso a
tagliare il crine che la sostiene.
Non
permetterò a Julia di avere il monopolio sulle mie azioni.
«Vaffanculo,
troia psicopatica!». Quasi grido, appoggiando la
fronte sulle
ginocchia, e mi manca immediatamente il fiato. Da quant'è
che non
faccio un pasto degno di questo nome? Da quando è cominciata
la mia
reclusione volontaria, probabilmente.
«Sei
diventato più rumoroso da quando hai portato qui quel nuovo
coinquilino. Per fortuna ci hai fatto la grazia di staccare il
telefono».
Sollevo
la testa di scatto, cercando frenetico la fonte di quella voce
sottile e acuta come quella di un bambino, e la trovo in una piccola
bestiola dalle zampe lucide appoggiata con grazia sul copriletto, le
antenne che sfiorano il pacco di caramelle balsamiche con una
cupidigia quasi tangibile.
Uno
scarafaggio.
«Ero
convinto di averti ammazzato». Sussurro, mentre il mio ospite
indesiderato entra nella busta di plastica trasparente e comincia a
palpeggiare le caramelle scadute, dubbioso.
«Tu
eri convinto di molte cose». Risponde, la vocina soffocata
dagli
innumerevoli strati di leghe polimeriche che ci separano «Le
blatte
sopravvivono alle esplosioni nucleari, pensavi di potermi finire con
una confezione di shampoo da discount?».
«Ma
c'erano le tue budella». Sussurro «Le tue budella
sparse nel
lavandino».
«Forse».
Concede lui, agitando un'antenna «Ma non capisco
perché la storia
delle sette vite sia appannaggio esclusivo dei gatti. Voglio dire,
puzzano e occupano un mucchio di spazio, non meritano tutta
quell'attenzione».
«Quindi
tu saresti... risorto».
«Mai
sentito parlare di un certo Gesù di Nazareth?».
«Ok,
Gesù. Vuoi qualcosa da me o sei qui soltanto per rompermi i
coglioni? Non è il momento più adatto».
Non
ho niente con cui schiacciarlo, e poi davanti a me c'è la
prova
lampante che non servirebbe comunque a nulla. Mi chiedo
perché tutti
gli elementi di disturbo della mia vita siano impossibili da
sradicare.
«Sono
qui per darti un consiglio, umano».
«Sentiamo».
Gesù
striscia fuori dalla busta − evidentemente le caramelle fanno
schifo pure a lui − e volta la testa verso di me. Credo che
mi stia
fissando.
«Veleno
per topi». Sussurra, mefitico, prima di schizzare via tra le
coperte
appallottolate e sparire in qualche angolo inesplorato della stanza.
Ragiono sul suo consiglio per qualche secondo, poi annuisco in
silenzio: se una blatta torna dagli inferi per aiutarti a morire,
cazzo, vale proprio la pena di darle retta.
Mi
vesto con tutta calma, raccattando i vestiti più puliti che
ci sono
tra tutti quelli impilati vicino alla porta − e non
è una ricerca
semplice, considerate le condizioni igieniche precarie in cui versa
la camera da letto; quando mi guardo allo specchio vedo un me stesso
sfatto, malaticcio, con le occhiaie arrossate e la barba incolta, il
colorito giallastro e le mani tremanti per la pressione bassa. Sembro
Iosif.
Sorrido.
La
chiave provoca uno stridore fastidioso quando la costringo a girare
nella serratura, quindi non c'è di che stupirsi se, nel
momento in
cui metto un piede sul pavimento del corridoio, Marvin è
già
davanti a me. Mi punta addosso i suoi enormi occhi spiritati e posa
le mani sottili sulle mie spalle, fissandomi come se le parti fossero
invertite e io mi portassi dentro un qualche male incurabile; stai
forse guardando la mia follia, Marvin? La vedi, finalmente?
Perché
io me la sento scorrere sotto la pelle, negli occhi, nel cuore e nel
cervello, insieme ad una paura così acuta da destabilizzarmi.
«Ehi,
finalmente. Stavo per chiamare la polizia. Si può sapere che
cazzo è
successo?».
Oggi,
stranamente, non è truccato. Mi piace di più
così, con i capelli
rossi in disordine e il viso bianco, pulito, qualche lentiggine
dorata sul naso.
«Mi
sono preso una... pausa di riflessione». Ho la bocca
impastata,
neanche avessi passato gli ultimi giorni ad ubriacarmi come un
qualsiasi vecchio pezzente. Mi dispiace, Marvin, per la prima volta
in vita mia mi dispiace dover costringere un altro essere umano ad
assistere a questa sottospecie di catarsi senza fine che è
la mia
vita. L'unica, parziale consolazione è che finirà
presto.
«Stai
uscendo?». Chiede, speranzoso, senza levarmi le mani di dosso.
«Seh.
Devo comprare delle cose».
Annuisce:
«E poi ho praticamente svuotato il frigo. Ci sono rimasti un
paio di
barattoli di maionese e un pezzo di formaggi. Dai, ti
accompagno».
Ha
paura che mi faccia del male, il cretino, e risponde con premure che
normalmente aborrirei. Ma lui è Marvin, e ormai entrambi
sappiamo
che non posso negargli nulla − tra l'altro se ne approfitta
in un
modo tanto infantile da non lasciare spazio al risentimento.
«No.
Cos'è, mi hai preso per un vecchio? Non ho bisogno della
badante».
Il
pallido tentativo di sviare le attenzioni appiccicaticce del mio
adorato coinquilino si infrange contro il muro in calcestruzzo della
sua testardaggine: incrocia le braccia sul petto, mi guarda con
un'aria a metà tra il malizioso e il divertito, soffia:
«Guarda che
devo prendere la metro per andare al lavoro, non esco di casa apposta
per accompagnarti. Non vorrai mica lasciarmi in balia di tutti gli
stronzi incivili della città... potrei prenderla sul
personale,
sai?».
«Non
sei l'articolo più richiesto, gringo».
Sorrido «Al primo
posto ci sono io».
Ricevo
la spallata con un gemito soffocato, appoggiandomi alla parete per
non barcollare.
«Ok,
dammi cinque secondi e sono pronto!». Marvin si infila in
salotto
quasi correndo, ma i suoi cinque secondi si trasformano ben presto in
quasi mezz'ora di straziante attesa. Accasciato contro il muro, con
il sangue viscoso come miele che scivola lentamente nelle vene,
rivedo con cura i dettagli del mio piano: accompagnerò
Marvin alla
fermata della metro e mi comporterò il più
normalmente possibile
finché non sarà scomparso dalla circolazione, poi
mi dirigerò nel
primo negozio disponibile e comprerò una confezione di
veleno per
topi in bustine, quei piccoli pacchetti quadrati pieni di una
sostanza simile a pongo che causano pesantissime emorragie interne.
Mi infilerò in un vicolo, tra i sacchi della spazzatura, e
ne
manderò giù una mezza dozzina.
Il
lato positivo della questione è che non darò una
scusa alla polizia
per ispezionare l'appartamento e, magari, accorgersi dello stile di
vita non propriamente ortodosso di Iosif; non ci saranno indagini di
nessun tipo, sparirò da qualche parte in una
città che conta il
maggior numero di omicidi annui dell'intero Stato e Marvin
potrà
tenersi la casa finché qualcuno non lo farà
sloggiare − il che mi
auguro succeda il più tardi possibile. Julia non
riuscirà mai a
trovarmi e, di conseguenza, ad arrivare a Marvin.
Spero
che tu sia contento, Tony Hall. Il pezzo di merda che hai cercato di
far fuori per anni si sta togliendo di mezzo da solo.
«Andiamo?».
Marvin ha con sé la borsa in cui so che tiene la divisa
della
pizzeria in cui lavora, io ho infilato un modesto rotolo di banconote
da dieci dollari nella tasca anteriore del pantaloni. Cerco di
imprimermi la sua figura snella nelle retine, perché so
già che è
pensando a lui che manderò giù il veleno.
«Tu
aspettami giù, io devo fare una cosa».
Mi
rifila un'occhiata sospettosa prima di scendere le scale, arreso a
quello che, con un po' di poesia tragica assolutamente superflua,
potremmo considerare il mio ultimo desiderio.
La
porta dell'appartamento di Iosif penzola dai cardini, in procinto di
staccarsi, e la aggiro senza fare rumore; affacciandomi alla porta
del salotto posso vederlo dormire, rannicchiato tra cuscini sudici,
con il petto che si alza e si abbassa lentamente. Avvicinarsi e
appoggiare ottanta dollari accanto al divano è semplice, un
po' meno
guardare il suo viso percorso da spasmi sottili e sapere che questo
è
l'ultimo momento che passerò in sua compagnia.
Tutta
quella storia sulla sublimazione della morte mi sembra una
grandissima stronzata, adesso.
«Ty
moe dychanije». Sono le uniche parole russe che
conosco, me le
ha insegnate lui; significano qualcosa come "tu sei il mio
respiro", e suonano dannatamente smielate in questa situazione.
«Vedi di non morire troppo presto». Aggiungo,
giusto per mantenere
una parvenza di onestà intellettuale.
Raggiungo
Marvin che la mia testa sembra priva di peso, con il battito cardiaco
così accelerato che la cassa toracica potrebbe scoppiare da
un
momento all'altro − adesso, mi dico, comincia la parte
difficile,
la parte in cui dimostro di non avere un minimo di
palle. La
verità è che Julia potrebbe essere ovunque e io
mi sto pisciando
sotto dalla paura.
«Cazzo,
c'hai messo un secolo. Guarda che sono già in
ritardo».
«Scusa».
Borbotto, laconico. Vorrei essere più espansivo, ma ogni
passo che
faccio fa parte di un conto alla rovescia che conduce dritto al
patibolo − di conseguenza, amico, perdonami se non ho tutta
questa
voglia di ridere.
ψ
Marvin
non smette un secondo di parlare.
Passa
da un resoconto dettagliato dei suoi ultimi cinque partner
occasionali − al che sono grato al cielo di non avere nulla
sullo
stomaco − alla descrizione pedante delle sue giornate
lavorative,
con annessi aneddoti sostanzialmente inutili su capo e colleghi.
Gesticola, balbetta, si impappina in continuazione.
«E
poi lui mi dice... cioè, lei mi fa...»
«Mh-mh».
Nel frattempo mi guardo intorno, cercando la sagoma familiare di una
donna alta con i capelli biondi, ma fortunatamente i marciapiedi sono
quasi deserti, fatta eccezione per alcune bande di adolescenti che
non si curano di noi.
«Sai,
Frank,» percepisco il cambio di discorso e dedico un po' di
attenzione a Marvin, senza perdere di vista la strada «mi
dispiace
che tu ultimamente stia... male, ecco. Si capisce che stai male. E io
ti devo un mucchio di cose... cioè, io stavo per fare una
cazzata
tremenda e tu mi hai aiutato, perciò se c'è
qualcosa che posso fare
per te chiedi pure, ok?».
«Io
sto benissimo». Sono particolarmente bravo a scodellare
menzogne
spudorate, e questa non fa eccezione «Avevo solo bisogno di
riprendermi dallo stress, capito? Mi sono preso qualche giorno di
vacanza. E non annuire con quell'aria poco convinta».
Ride,
passandosi una mano tra i capelli con evidente imbarazzo.
«Scusa,
so che probabilmente sono una rottura di coglioni appiccicosa.
È che
non vorrei che ti succedesse niente di male».
«Figurati».
Hai
il potere di distruggermi da dentro, Marvin. Sei tu la cosa che mi fa
più male di tutte.
Vorrei
gridargli di smetterla di comportarsi come un ragazzino fragile e
ingenuo, ma l'entrata della metro − una voragine di miasmi e
frastuono che conduce sottoterra, la porta dell'Inferno ‒ si
frappone tra me e il mio proposito sostanzialmente stupido.
Ci
sistemiamo sulla banchina in attesa del treno, che come al solito
è
in ritardo, e Marvin ricomincia immediatamente con la sua sgradita
filippica.
«Dimmi
se ti pare normale,» borbotta «che quello stronzo
di Robb McCarthy
possa darmi del frocio sul posto di lavoro. Che
cazzo, siamo o
non siamo nel ventunesimo secolo?».
Vorrei
rispondergli che è già tanto se Robb McCarthy non
lo prende a pugni
fino spaccargli la mascella. Marvin, però, è
forse l'unica persona
al mondo su cui non ho voglia di scaricare tutto il mio cinismo,
quindi mi limito a inarcare un sopracciglio e attendere che
ricominci il discorso.
Ci
vuole qualche secondo perché mi accorga che ha lo sguardo
completamente perso nel vuoto.
«Ehi,
Marv?». Agito una mano davanti alla sua faccia, ma non
reagisce
«Marv, si può sapere di che cosa sei
fatto?».
Non
sembra che se ne sia accorto. Le sue pupille sono fisse in un punto
poco al di sopra della mia spalla e... un momento. Quegli occhi sono
tutt'altro che persi: Marvin sta guardando qualcosa
alle mie
spalle. Marvin non riesce a staccare lo sguardo da quel qualcosa
alle mie spalle.
La
sua espressione mi mozza il respiro, perché col tempo ho
imparato a
riconoscerla su milioni di facce. Fa parte di me, del mio lavoro, di
quella che credevo un'abilità completamente unica e soltanto
mia.
"Credevi
di essere l'unico sulla faccia della Terra? Che pretesa ridicola".
Quando
mi volto so già cosa cercare; la banchina della metro
è
praticamente deserta, fatta eccezione per un paio di ragazze
stravaccate sulle uniche sedie intatte, quindi impiego un attimo per
inquadrare la figura longilinea che sta, ritta, a qualche metro da
me. Con le mani affondate nelle tasche di un parka azzurro e un
sorriso crudele che le taglia il viso in due, Julia sembra quasi la
caricatura grottesca di un angelo vendicatore ‒ e non sta guardando
me, realizzo. I suoi occhi sono puntati in quelli di Marvin.
Che
cosa gli stai facendo?
Annullo
la distanza che ci separa con pochi passi affrettati e mi lancio su
di lei, buttandola a terra con tutta la forza che ho. La rabbia
è
talmente tanta che non riesco a parlare, l'unica cosa che vorrei fare
è ringhiare come un cane rabbioso e affondarle le dita nel
petto,
strapparle via il cuore, ma Julia scivola sul pavimento usurato dagli
anni e in un attimo è di nuovo in piedi. Sicuramente
è furiosa, ma
ormai sono convinto che nulla possa toglierle quel sorriso irritante
dalla faccia.
Lancio
un'occhiata a Marvin, e con la coda dell'occhio lo vedo scuotere la
testa, confuso. Per fortuna sta bene, mi dico, giusto in tempo
perché
la coscienza di Julia afferri la mia e la tenga ferma come un pitone
che soffoca la preda. Stavolta la morsa è soverchiante,
invincibile:
nell'attimo cristallizzato in cui Julia mi costringe a girare la
testa verso di lei riesco ad emettere un breve urlo soffocato, poi
più niente. Le ragazze ci guardano con aria terrorizzata e
so che
non interverranno.
«Ti
starai chiedendo come vi ho trovati, immagino».
Perché
Marvin non viene a controllare cosa sta succedendo? CHE COSA GLI HAI
FATTO?!
«Ho
capito di che zona si trattava grazie al prefisso del tuo numero di
telefono... sai, ci è voluto un po' perché Arthur
si decidesse a
darmelo». La pressione sulle tempie diventa così
forte che temo di
impazzire «Mi sono appostata da queste parti
finché non sei uscito
allo scoperto. Mi ci è voluta un bel po' di concentrazione
per
percepire la tua presenza, bimbo».
Cerco
disperatamente di usare l'abilità, mi scontro contro il muro
invalicabile del potere di Julia e capisco che è tutto
inutile.
«Ti
sei mai chiesto quali altri applicazioni possa avere il nostro dono,
al di là del curare le persone o ridurle alla morte
cerebrale? Mi
spiego: tu manipoli le persone eliminando le emozioni negative per
far sì che quelle positive risaltino, influenzi il loro
comportamento... hai mai provato a eliminare soltanto le emozioni
positive e vedere che succede?».
Mi
chiedo dove vuole andare a parare, e improvvisamente capisco.
No.
Non sta succedendo davvero.
«Girati,
bimbo. Goditi lo spettacolo».
Non
sta succedendo davvero, vecchio mio, è solo un brutto
incubo. È
solo la stanchezza, lo stress.
Le
mie patetiche bugie sfumano come miraggi quando Julia mi costringe a
torcere il collo e gli occhi di Marvin sono nei miei, colmi di una
disperazione così esulcerata che mi arriva come un pugno
anche a
diversi metri di distanza. Ha il viso di un uomo che si è
arreso, le
guance afflosciate in un atteggiamento di profonda tristezza, le
braccia distese lungo i fianchi e la schiena un po' curva, come
quella di un vecchio. Mi sorride con aria mesta, una smorfia che sa
di rassegnazione e dolore, poi fa un passo in direzione dei binari.
«NO,
MARVIN!». Non so se sia stata Julia a liberarmi o se mi sono
conquistato il diritto alla parola grazie alla scarica di adrenalina
che è esplosa nelle mie vene, e grido come un ossesso mentre
i fari
del vagone della metro in rapido avvicinamento illuminano
parzialmente la galleria buia.
«Tu
non ti ammazzerai per uno così, bimbo. Vuole morire
più di te,
sai?».
«Sta'
zitta, maledetta puttana!». Ringhio, fuori di me dalla rabbia
«Lui
non avrebbe mai‒»
«Si
vede che non sei entrato nella sua mente, bimbo».
Julia
mi costringe a tenere lo sguardo fisso sui binari anche quando Marvin
salta oltre la linea di sicurezza, anche quando il vagone arriva
sferragliando e schizzi di sangue denso tingono di rosso la banchina.
Urlo, le dita gelide di Julia si conficcano nel mio cervello e lo
incidono a fondo mentre mi strappo via i capelli, striscio sul
pavimento sudicio e disegno impronte insanguinate alla ricerca dei
brandelli di una vita che non esiste già più. Non
credevo che si
potesse provare un dolore così acuto e totalizzante, un
brivido
denso che scuote le ossa e mi trascina ai margini del baratro della
follia ‒ perché Marvin, tutto quello che lo rendeva una
persona
unica e speciale e soprattutto viva, è
scomparso sulle rotaie
di una metropolitana. In un battito di ciglia.
Il
mondo è sfocato. Io sono sfocato.
La
mia coscienza e il mio cervello non sono altro che aggregati di
viscida bruma.
Marvin
è morto.
Non
è stata colpa mia. Io non volevo. Ma è stata
comunque colpa mia,
perché ho attirato questa pazza psicopatica e l'ho portata
da lui.
Marvin
è morto.
Potevo
evitarlo? No. Sì. Perché facciamo sempre l'errore
di legarci a
persone che invariabilmente perderemo?
Marvin è morto per
colpa mia.
Marvin
è morto perché non so fare altro che male alle
persone.
«Ah...
ah...» Bava viscida mi cola sul mento, mista a lacrime miste
a
singhiozzi che sembrano gli ansiti di una bestia in agonia. Proprio
quando sto valutando l'opzione di lasciarmi morire di dolore qui, sul
pavimento della metro, una mano dolcemente autoritaria si posa sulla
mia spalla e una voce calma e gelida come la prima neve sussurra:
«Quelli come te e me non sono fatti per l'amore, bimbo. Non
siamo
come gli altri, capisci? Siamo creature solitarie, che si cibano del
dolore e sguazzano nella miseria. Cosa volevi dimostrare a te stesso?
Che potevi essere come loro? Amare qualcuno
significa dargli
la possibilità di farti del male, e noi temiamo la
sofferenza più
di tutti gli altri».
Ti
ammazzerò, Julia. Ti ammazzerò nel modo
più lento e doloroso che
conosco.
Ma
ora non posso focalizzarmi alla vendetta, non con la bile che punge
sul fondo della gola e il cuore che sanguina nel petto. C'è
un solo
pensiero a cui aggrapparsi, adesso, l'unica cosa che mantiene un
minimo di significato nonostante il nonsenso totale che sembra avere
invaso la mia vita.
«Io
basto a me stesso». Sussurro, e poi di nuovo, più
forte «Io basto
a me stesso».
Arriva
la polizia, qualcuno grida. Qualcuno mi tira su e mi costringe a
drappeggiarmi una coperta sulle spalle, mi ficca in mano un bicchiere
di caffè.
Non
mi importa. Non mi importa più niente.
Continuo
a ripeterlo, il mio piccolo mantra personale, convinto che mi
salverà.
Io
basto a me stesso.
Io
basto a me stesso.
Io
basto a me stesso.
|