But I set
fire to the rain,
Watched it
pour as I touched your face,
Well it
burnt while I cried,
Cause I
heard it screaming out your name, your name.
[Adele – Set Fire to
the Rain]
Capitolo 9
11 luglio 1980.
Il Lago Nero era un’enorme distesa d’acqua di
fronte
a lei, luccicava come uno specchio alla luce del sole che sorgeva e
rifletteva
i suoi raggi rossastri sul viso di Minerva, che camminava poco distante
dalla
riva.
Era scalza, la sua veste verde scuro si avvolgeva
intorno alle caviglie, spinta da un leggero vento che portava ancora
con sé ciò
che rimaneva della fresca nottata appena trascorsa.
L’erba era inumidita dalla rugiada e i ciuffi verdi
le solleticavano le piante dei piedi.
Minerva sospirò e prese in mano la propria treccia,
iniziando a giocherellare con la punta, pensierosa.
Fu allora che lo vide.
L’acqua del Lago, prima avvolta in una calma piatta,
iniziò a muoversi. La superficie scura cominciò
ad incresparsi in un punto poco
distante da lei e ben presto una figura alta e distinta emerse
dall’acqua con
gli abiti e la barba gocciolanti: era Albus.
Si passò una mano sul viso per scostare i capelli
bagnati e la scorse. Si avvicinò a lei lentamente, come se
camminare nell’acqua
gli costasse un’enorme fatica.
La sua tunica blu notte emergeva dall’acqua mano a
mano che si avvicinava a lei, facendolo sembrare un pilastro di
cristallo
scuro: fiero, imponente, dalle mille sfaccettature.
Rimase senza fiato, come se un pugno invisibile
l’avesse colpita dritta allo stomaco, togliendole il respiro.
Non si vedevano
da pochi giorni, ma a lei era parso un’eternità.
«Minerva», la sua voce risuonò profonda,
facendo
vibrare l’aria tra loro.
Lei si limitò a fissarlo, cercando di imprimere ogni
dettaglio sulla propria retina, temendo di vederlo dissolversi da un
momento
all’altro.
Silente allungò una mano umida e le sfiorò
titubante
una guancia. Minerva si trattenne dal tremare quando il suo tocco le
provocò la
pelle d’oca.
«Albus, cosa…?», riuscì a
dire a stento.
Lui le sorrise, ma il sorriso non raggiunse i suoi
occhi azzurri, che brillarono tristemente.
«Ti prego, dì qualcosa», lo
incitò lei in un
sussurro.
Albus continuò ad accarezzarle le guance coi pollici,
il viso di Minerva tra le sue mani.
I suoi occhi la fissavano intensamente, come se
volessero sciogliere il suo intero essere, come se volessero penetrarle
l’anima. Minerva si lasciò sfuggire un respiro
tremante, non riuscendo a
distogliere gli occhi dai suoi, come se fossero due magneti.
Solo allora Albus avvicinò il viso al suo e la
baciò.
Lei si immobilizzò, le sue membra sembravano diventate di
marmo, ma lui
continuò a sfiorare le sue labbra, intrecciare le dita nei
suoi capelli e
reggere dolcemente il suo capo.
Minerva cercò di spingerlo via, di allontanarlo da
sé.
Che gli stava succedendo? Pochi giorni prima l’aveva
baciata, poi non era venuto a trovarla al San Mungo e nemmeno quando
era
rientrata a Hogwarts la sera prima e adesso
aveva il coraggio di venire a baciarla?
Albus si separò finalmente da lei con un triste
sorriso sulle labbra.
«Albus, cosa ti salta in mente?»,
replicò lei,
seccata, sforzandosi di non arrossire al pensiero delle sue labbra
sulle
proprie.
Lui si limitò a guardarla, per poi mormorare:
«Minerva».
La sua figura prese fuoco all’improvviso: le sue
vesti blu furono avvolte da fiamme di un rosso intenso e ben presto il
suo
intero corpo era intrappolato in un’enorme palla di fuoco.
Le uscì un grido soffocato: «Albus!»
Il fuoco bruciava sempre più caldo, sempre più in
alto. Minerva si allontanò da Albus, proteggendosi il viso
dal calore con le
mani.
Le lingue dorate e scarlatte iniziarono a danzare
insieme, unendosi e incrociandosi tra loro, iniziando ad assumere una
strana
forma: alcune si alzarono verso l’alto, incurvandosi e
brillando ancora più
intensamente.
Minerva aguzzò la vista, mentre altre fiamme quasi
lambirono i suoi piedi nudi e l’orlo della sua veste per poi
alzarsi in aria e
allargarsi sempre più a formare un paio di possenti ali.
Le lingue di fuoco più in alto avevano assunto la
forma di una sorta di collo animale, becco e cresta.
“Un uccello”, pensò Minerva, confusa.
Il fuoco scintillò ancora più intenso e tutto
ebbe un
senso.
Minerva soffocò un urlo. «No, non può
essere!».
Le fiamme si illuminarono di un tenue bagliore blu
che crebbe in intensità finché del fuoco e del
corpo di Albus non rimase che
uno scintillante Patronus azzurro, che aveva assunto le sembianze di
una grande
e possente fenice.
L’animale aprì il becco e ne uscì un
grido stridulo e
acuto, dopodiché esplose in centinaia di frammenti di
cristallo. Minerva si
accucciò e si protesse il capo con le braccia ma le schegge,
a contatto con la
sua pelle, si trasformarono in gocce di pioggia, bollente al tatto.
Al posto di Albus e della fenice infuocata era
comparso un piccolo gatto tigrato.
Il micio miagolò lamentoso e Minerva non poté
fare a
meno di avvicinarglisi per vedere se fosse ferito.
Aveva un segno scuro intorno agli occhi, come se
portasse gli occhiali.
Sembrava ferito gravemente, una grande quantità di
sangue usciva dal suo fianco destro.
L’animale si voltò a guardarla e la
chiamò:
«Minerva».
Minerva non riuscì a trattenere l’urlo che le
uscì
dalle labbra. Urlò a pieni polmoni, urlò fino a
non avere più fiato.
«Minerva! Minerva!», sentì la voce di
una donna
chiamarla.
Finalmente si svegliò. Pomona la stava scuotendo con
forza, preoccupata.
Dopo aver aperto gli occhi di scatto, Minerva cercò
di mettersi a sedere, ma fallì e ricadde sul materasso.
«Ahi».
Si sentiva molto calda e la sua camicia da notte le
si era incollata addosso: era madida di sudore.
«Minerva?», domandò incerta Pomona.
«E’ tutto a posto, è stato solo un
brutto sogno. Sono
sveglia ora».
Pomona sembrò visibilmente sollevata ma tornò a
corrucciare la fronte. «Un brutto sogno, dici?».
«Sì, un incubo. Niente di importante»,
tagliò corto
Minerva, mentendo. «Perché sei qui?».
«Buongiorno anche a te», replicò
l’amica,
ironicamente. «Sono venuta ad aiutarti a lavarti e
vestirti».
«Ne sono perfettamente in grado».
«Allora ti terrò semplicemente
compagnia».
Minerva si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo e
sorrise. A volte Pomona sapeva essere davvero testarda.
«E brava la mia piccola Tassorosso»,
borbottò
l’altra.
Pomona le scoccò un’occhiata truce, subito
sostituita
da un’espressione preoccupata.
«Sicura di stare bene? Non vuoi parlarmi del
sogno?».
«No», rispose secca la professoressa di
Trasfigurazione.
«Sudavi freddo e balbettavi», fece notare
l’amica.
Minerva s’alzò a fatica dal letto e finse
d’essere
impegnata a indossare vestaglia e pantofole.
«Ho provato a chiamarti più di una volta senza
risultati e…».
«E cosa?», sbottò Minerva, infastidita.
«Hai nominato più di una volta Albus».
Minerva si sedette pesantemente sul letto, come le
sue ginocchia avessero ceduto all’improvviso.
Pomona le si avvicinò titubante. «Se hai bisogno
di
qualcosa, di qualsiasi cosa, non esitare a chiamarmi, chiedere di fare
quattro
chiacchiere con me. Davvero, io…».
«Sì», replicò Minerva,
interrompendola. «Di qualcosa
ho bisogno», aggiunse, suonando distante anni luce persino a
se stessa.
«Cosa?».
«Trovami un po’ di coraggio».
*
Il suo ufficio era immerso nel silenzio e, quando
qualcuno bussò alla porta, il rumore rimbombò per
tutta la stanza.
Fawkes alzò il capo da sotto l’ala e si
guardò
intorno, cinguettando confuso.
«Avanti», incitò Albus, senza alzare lo
sguardo dalle
carte su cui stava lavorando.
«Buongiorno, professor Silente», lo
salutò una voce
rauca.
Albus alzò gli occhi dai fogli per educazione e la
vide.
Minerva era appena entrata nel suo ufficio,
richiudendo la porta in silenzio.
Era dimagrita e si serviva di un bastone per
camminare. Indossava la sua tunica verde preferita e un mantello di un
verde
più scuro. Che avesse freddo?
Nonostante la fatica e la stanchezza si leggessero
chiaramente sul suo volto, la sua schiena era dritta come un fuso e la
sua
testa era tenuta alta.
“Non ha perso il suo portamento fiero”,
notò con
piacere Albus.
Subito dopo una fitta di senso di colpa lo colpì allo
stomaco. Non c’era stato per lei. Non era andato a trovarla e
non le aveva
scritto, nonostante lei si fosse sacrificata per lui.
«Buongiorno, Minerva», salutò, tentando
di far
sembrare la propria voce il più ferma possibile.
Il viso della donna s’indurì al sentire il suo
nome
di battesimo. Albus ignorò la sua espressione.
«Sei ritornata ieri?».
«Ieri sera, preside».
Preside? Da
quando lo chiamava così?
Albus proseguì imperterrito a darle del tu: «Come
ti
senti?».
«Ancora un po’ debole, ma miglioro di giorno in
giorno, preside».
Albus fece una smorfia impercettibile al sentire
Minerva chiamarlo in quel modo, ma decise di provare a sotterrare il
proprio
orgoglio.
«La diagnosi?».
«Frattura dell’arto superiore sinistro e traumi da
Maledizione,
signore».
Signore?
«Non sono più il tuo professore da tanto tempo,
Minerva», replicò lui, pacatamente.
Gli occhi di lei fiammeggiarono. «Mi scusi, preside».
«Ci siamo sempre dati del tu, Minerva», fece notare
Albus.
«Lo so. Me lo ricordo».
Oh, andiamo,
sai perfettamente perché ti tratta così
freddamente, sussurrò una voce
nella sua testa.
Sentendo i suoi occhi su di lui, Albus si trovò
costretto ad affrontare la questione. Il giorno che aveva
così tanto temuto era
arrivato e, da codardo quale era, doveva viverlo.
«Non sei venuto a trovarmi», sputò
Minerva dopo
lunghi momenti di silenzio.
«No», replicò Albus.
«Eri impegnato». Non era una domanda, era
un’affermazione.
«Sì».
«Non hai avuto un minuto libero».
Albus non rispose.
«Non hai mandato nemmeno un biglietto. Non hai detto
a Filius o Pomona di portarmi i tuoi saluti. Non ho avuto tue notizie
per
giorni, Albus».
«Adesso mi dai del tu?».
La freddezza che incontrò nello sguardo di Minerva
gli fece più male di quanto avesse pensato.
«Se questo è il ringraziamento che ricevo per
averti
fatto da scudo contro
Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato…».
«Lord Voldemort, Minerva. Comunque non ti ho mai
chiesto di sacrificarti per me».
Minerva lottò perché le lacrime non le rigassero
le
guance e cercò di deglutire l’improvviso nodo che
le si era formato in gola.
«No, infatti, non me l’hai mai chiesto», concordò lei, con voce piatta.
Albus non rispose, abbassando lo sguardo sulle carte
a cui stava lavorando poco prima.
«Trascorra una buona estate, preside».
«Minerva…».
«Penso che non soggiornerò qui in questo periodo.
Tornerò il trentuno di agosto, pronta a iniziare
l’anno scolastico».
«Minerva, io…».
«Per cortesia, desidererei che mi chiamasse
professoressa McGranitt, da oggi in poi».
Albus si trattenne dallo strabuzzare gli occhi e
spalancare teatralmente la bocca. «Come
desidera, professoressa». Quell’appellativo suonava
così estraneo sulla sua
lingua.
«Buone vacanze, preside», replicò
Minerva,
chiudendosi la porta alle spalle.
Nel silenzio del suo ufficio, risuonò forte e chiaro
il suo: «Mi dispiace, Minerva».
*si ripara da
eventuali lanci di pomodori con una padella, stile Rapunzel*
Si, lo so. Lo so, non aggiorno dal 14 di aprile.
Vi
dirò la verità, la scuola è una brutta
bestia, non ti lascia un briciolo di forza, ispirazione e voglia per
metterti a scrivere alla sera.
Secondo: ho iniziato a scrivere fanfiction in inglese su ff.net e
questo mi ha rubato quel poco di tempo libero che avevo tra un impegno
e l'altro.
Adesso, grazie alla mia B.B. (lei sa cosa vuol dire) Charlotte_McGonagall sono tornata
in pista con questo capitolo che avevo in mente da un po' (ma non avevo
la forza mentale per scriverlo). Ringrazio anche la mia dolcissima
Acquamarine_ che mi incoraggia sempre.
Ringrazio tutti voi che continuate a seguire e commentare questa
storia: i 13 che l'hanno inserite nelle preferite, i 20 che la seguono
e i 3 che
la ricordano.
Grazie per continuare a seguire un piccolo rottame come me. Spero il
capitolo non vi abbia deluso e, incrociando le dita, il prossimo
dovrebbe arrivare tra poco.
Jo
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