Non è la rosa non
è il tulipano
che ti fan veglia
dall’ombra dei fossi,
ma solo mille papaveri
rossi.
(La guerra di Piero
– Fabrizio de André)
Scent of magnolias, sweet
and fresh,
Then the sudden smell of
burning flesh.
(Strange Fruit –
Billie Holiday)
In the bottom of our
hearts we felt the final cut.
(Southampton Dock
– Pink Floyd)
Il
molo del dolore.
Southampton, 1943
Il
mare era calmo, grigio specchio di un cielo che la mandava
giù a dirotto. Acqua dentro acqua e le gocce di pioggia
rendevano la superficie del mare una tavola ruvida, un prato sbiadito
spazzato dal vento.
Il
tutto presumeva un addio.
Il
molo del porto di Southampton, ormai distrutto dalle bombe, era
affollato, quasi quanto il giorno in cui salpò il Titanic,
ma la gioia di allora era annegata insieme alla nave inaffondabile e,
dopo circa trent’anni, un’altra nave andava
incontro a un destino crudele, dritta nelle fauci di
un’Europa matrigna e nazista, lontana dalle braccia tenere e
soffocanti di mamma Inghilterra.
Un’altra
mamma era lì, molto più forte, protettiva e
audace della vile Inghilterra.
Con quale coraggio una pecora
manderebbe il suo agnellino nelle fauci di un lupo?
avrebbe chiesto retoricamente, mentre reggeva dritto e immobile un
ombrello azzurro, coprendo la propria testa e quella del bambino che le
stava accanto, fissandosi le scarpe, ma soprattutto quella
del fagottino che teneva in braccio. Suo figlio, su
questo non c’erano dubbi. Non che l’altro non lo
fosse, ma il piccolo era la sua copia sputata e dormiva beatamente, le
labbra socchiuse che s’increspavano agli angoli per via delle
guance paffute.
La
donna era una statua di sale. Perfettamente immobile, non un dettaglio
del suo abbigliamento che stonasse con la sua figura eretta e
impassibile. Era l’immagine di un dolore così
sublime da sembrare impercettibile. Eppure, soffriva. Suo marito era su
quella nave che si perdeva all’orizzonte, piccola come un
puntino, ma visibile. A quel punto, la folla si era dispersa, lasciando
solo il lugubre terzetto e una piccola figura inzuppata. Sul molo di
legno, poco distante dalla rocciosa madre, sedeva una bambina coperta, si fa per dire, da
un vestitino di cotone di un rosa depresso e da un paio di sandali
estivi ai piedi.
Per Dio, è Novembre!
pensò la madre voltandosi improvvisamente a guardarla. Si
chiese chi fossero stati quegli sciagurati genitori che lasciavano una
creatura così fragile (ed evidentemente malnutrita) sotto
una pioggia incessante e per di più mezza nuda, che cercava
di scaldarsi usando le manine intorpidite, strofinandole sulle braccia.
La
madre storse il naso e deglutì pesantemente. Poi, fece cenno
al primogenito di prenderle la mano e lentamente si avvicinarono alla
piccola creatura abbandonata dal mondo.
-
Chi sei? – chiese la madre quando fu vicina alla bambina. La
voce risultò aspra quasi quanto la domanda che
formulò, eppure era quello l’unico modo che
conosceva per essere comprensiva e dolce.
-
Maggie, s-signora. – tremò la piccola, battendo
visibilmente i denti. Era pallida, le labbra viola e la fronte coperta
dai lunghi capelli neri che gocciolavano incessantemente.
-
Che cosa ti è successo?
Una
minuscola falange si sollevò nella pioggia, indicando un
puntino nel mare – Papà.
-
È partito anche lui? – chiese ancora la madre,
questa volta con un nodo in gola, percependo qualcosa di più
nella sua domanda. Quando ha detto “anche lui”
sapeva di non riferirsi solo a suo marito, ma a qualcuno che aveva
intrapreso un viaggio più lungo e senza ritorno.
-
Sei sola?
La
bimba annuì e sembrò ancora più
piccola. John, il primogenito, guardava sua madre e Maggie, chiedendosi
cosa stesse per accadere. Il più piccolo del quartetto,
sorrise nel sonno.
-
Ora non lo sei più!
Una
lacrima si confuse con le gocce di pioggia che incorniciavano le
piccole guance di Maggie. Una lacrima piccola rispetto alla speranza
che sentiva crescere nel minuscolo petto.
-
Vieni con me. – disse mamma roccia, porgendole una mano e,
quando Maggie l’ebbe afferrata, la trascinò sotto
l’ombrello, lontana dalla pioggia. Lontana dal molo del
dolore.
***
Lontano, pochi mesi dopo, un
proiettile sferzò l’aria.
L’odore
d’erba si mescolò a quello del sangue e del piombo. Un albero di magnolia doveva trovarsi nelle vicinanze, perché c'era anche il suo profumo fresco e vivo.
Un corpo cadde morto in
un’immensa distesa di papaveri, i quali crescevano
imperterriti nonostante il freddo di febbraio. Qualche ora dopo, un
soldato raggiunse il compagno con gli occhi fissi spalancati contro il
cielo. Glieli chiuse, dentro di sé e sulle labbra una
promessa, mentre un nodo gli stringeva la gola.
- Tornerò, Eric, ce
la farò. - Eric voleva tornare a casa, ma morì in
terra straniera – Lo giuro su Maggie, Eric!
Il giovane vedovo si
rizzò sulle gambe, fucile in mano.
Si allontanò, con
quella promessa che, nel profondo del cuore, bruciava come il taglio
finale.
Angolo
dell’autrice.
Salve. ^^’
Bene, siamo allegri, eh?
Non c’è nulla da fare. A me, Southampton Dock fa
piangere sangue e prima o poi dovevo scriverci qualcosa.
Infatti questa non è una storia. È
“qualcosa”. Non saprei definirla nemmeno io.
Ringraziate solo tutti i santi del paradiso che io non abbia scritto su
Paranoid Eyes,
altrimenti davvero avrei gettato la sezione in una fossa. :’D
Ehm, niente, ho cercato un po’ d’informazioni
storiche riguardo Southampton, ma ne ho trovate poche e un
po’ confuse. Magari il padre di Roger non è
nemmeno partito da lì, ma dato che la storia era ispirata
alla canzone, ho incastrato le due cose. So che è anche
ispirata alla Falklands War, durante la quale Southampton venne usata
come base per le spedizioni, ma ho cercato l’evento
più vicino al 1945 che coinvolgesse quel porto e da
lì è nata la storia.
Tutto questo, per chiedervi di non fare caso ad eventuali lacune
storiche e per farvi sapere che, in fatto di ricerche, sono una grande
pippa. :3
Alla prossima,
Franny
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