La
vendetta non è una questione di piatti caldi o freddi, ma di
pazienza.
La
stessa, identica pazienza che gli ha permesso di sopportare il
disfacimento del suo corpo sotto l'effetto del cianuro, e quello
della sua psiche sotto l'effetto delle torture.
Bisogna
imparare a guardare con distacco a se stessi, studiare con
curiosità
aliena i cambiamenti.
Amarsi
quando nessuno è più disposto a farlo, e imparare
a far bruciare
l'odio come una fiamma fredda.
La
vendetta di Raul Silva era una partita a scacchi in cui l'altro
giocatore era stato coinvolto a sua insaputa.
Era
rubare alla Regina il suo Re.
Silva
aveva studiato a lungo Bond, gli si era appiccicato addosso come
un'ombra leggera, lo aveva accarezzato quando il nero del dolore
aveva rischiato di farlo affogare in se stesso.
Bond
era stato il suo Endimione per così tanto tempo che quando,
per la
prima volta, se lo trovò davanti fece fatica a credere che
fosse
reale.
Era
così vivo.
Feroce
e sensuale.
Voleva
possederlo, fotterlo, voleva iniziarlo alla
religione del
rancore.
Voleva
essere il primo e l'unico.
Voleva
rubarglielo e poi restituirglielo spezzato, sedotto e plagiato come
il bambino a cui viene detto per la prima volta che Babbo Natale non
esiste.
Per
lei sarebbe stato molto più doloroso che morire.
Gli
voleva bene in quella sua maniera contorta, lo allontanava e lo
feriva solo per non ammettere di tenere a lui, e lui la allontanava
solo per dimostrarle di non aver bisogno di essere confortato.
Solo
per farle capire che non era suo figlio.
Silva
non si sarebbe mai stancato di studiarli, erano affascinanti,
terribili e fragili.
Ma
la vendetta ha senso solo se poi si decide di metterla in atto, e Re
e Regina, schiacciati sul pavimento, finiscono per avere la
rigidità
del marmo.
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