Cocci
È
un rumore forte abbastanza da scuotere la terra, da entrargli nel
sangue e fargli tremare le ossa e rimbombargli nella testa in una serie
infinita di echi, come se i Nove Mondi stessero crollando intorno a
lui. E poi, per un attimo, c’è solo silenzio.
Non ricorda di
aver chiuso gli occhi, ma quando li riapre la nonna sta ancora urlando,
con le voci rauche e stridule di tutte e cinque le sue teste e le gole
magre e rugose che si tendono nello sforzo, e sua madre non trova di
meglio da fare che rimproverarlo, sgridarlo come un bambino
disobbediente, lui
che non centra nulla in tutto questo. Hymir, invece, è
abbandonato sul pavimento come una bambola rotta, a tastarsi la testa e
lamentarsi per la sua tazza come un bambino al quale è stato
tolto il suo giocattolo preferito, e ...
E lui si rende
conto di quanto siano ridicoli,
tutti loro. Loro, coi volti distorti dall’ira,
l’espressione instupidita negli occhi, le facce sporche e gli
abiti trasandati. La nonna con i suoi insulti taglienti e la mamma con
gli occhi vacui colmi di sogni e illusioni, e perfino Hymir –
Hymir con la voce profonda e le mani grandi e forti e gli occhi come
braci, e un livido che si sta già formando sulla sua fronte,
là dove la tazza l’ha colpito.
I cocci
d’osso giacciono ancora per terra, immobili e silenziosi,
luccicando appena nella penombra della stanza male illuminata. A
guardarli, non sembrano veri – non possono essere veri.
Eppure lo sono. Sembrano usciti dai suoi sogni di bambino, quelli in
cui scappava ogni notte e andava a vedere i tetti dorati di Asgard,
quelli in cui il sole scioglieva il ghiaccio sulla banchisa e il mare
avanzava fino ad inghiottire la fattoria per sempre, trascinandola
giù, sempre più giù nelle acque gelide
e salate.
Tienilo
come ricordo ... Tyr!
Se le sue dita
indugiano appena su quelle di Thor, mentre prende il pezzo
d’osso dalla sua mano in un gesto esitante, nessuno sembra
notarlo. Thor
– l’idiota vanaglorioso che l’ha
trascinato nell’unico posto in cui non sarebbe mai voluto
tornare per una stupida scommessa, per orgoglio più che per
onore. E le sue parole rimangono nelle sue orecchie, entrano nella sua
testa e nel suo cuore come un ordine di Odino, rimbombano dentro di lui
come un tuono lontano.
Se fissa un
po’ troppo attentamente i suoi occhi limpidi e ardenti o il
suo sorriso sicuro e ancora un po’ arrogante – il
sorriso di un uomo che sa chi è, che non cambierà mai per nessuno
– nessuno se ne accorge.
Quando
finalmente distoglie lo sguardo e stringe più saldamente il
frammento della tazza nella mano, è di nuovo se stesso, di
nuovo Tyr che passa la notte nella casa sconosciuta di uno Jotunn in
una terra estranea. Di nuovo il generale degli eserciti, il dio della
guerra, l’Aesir – non ha debolezze né
paure, e nessuno può ferirlo.
Proprio per
questo, quel semplice grazie
gli si blocca sulle labbra e nel petto.
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