Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Chi mi conosce saprà
che di solito le note le metto sempre alla fine del capitolo, ma in questa
particolare occasione ho pensato fosse meglio fare qualche precisazione
doverosa.
Questa breve storia,
qui divisa per ragioni di lunghezza in cinque capitoli, la si può considerare
una via di mezzo tra uno spin-off e uno slice of life della mia storia Tales Of Celestis.
In essa ho voluto
raccontare uno spaccato di Kyrador, la città dove sono
ambientate buona parte delle vicende della trama principale. Anzi, per essere
più precisi ho voluto raccontare la città stessa tramite i suoi luoghi più
simbolici ed importanti, ma anche le sue contraddizioni, le sue molte facce e i
suoi stessi abitanti, incarnando il tutto nelle vicende quotidiane di 5 diverse
persone.
Per poter leggere
questa storia non è necessario conoscere la vicenda principale, volendo anzi
che costituisca una sorta di “presentazione” al vero Tales
Of Celestis, ma sono
sufficienti poche brevi informazioni, che comunque saranno via via enunciate nel corso della vicenda.
Ecco, penso di aver
detto tutto.
Vi lascio alla
lettura. Perdonate la lunghezza forse eccessiva, ma ho cercato di tagliare il
più possibile.
A presto!^_^
Carlos Olivera
Chi cerca di realizzare
il paradiso in terra,
sta in effetti
preparando per gli altri un molto rispettabile inferno.
(Paul Claudel)
1
Sorgeva il sole su Kyrador, sulla più bella
città di Celestis.
Per i suoi tre milioni di abitanti iniziava una
nuova giornata. Una giornata come tante altre, con i suoi ritmi, i suoi eventi
quotidiani, la sua routine.
Ally detestava svegliarsi al
mattino, e ogni volta ci volevano le cannonate per riuscire a farle sollevare
la testa dal cuscino.
Sua madre dovette chiamarla quattro volte dalla
cucina prima di ricevere una confusa risposta d’assenso, e puntuale come ogni
mattina si ripeté il rituale della corsa dei cento metri. L’autobus per la
scuola elementare passava alle otto e undici precise, e perderlo voleva dire
arrivare in ritardo quasi di sicuro, con inevitabile nota di biasimo.
«Sono in ritardo!» esclamò la bambina rischiando di
capitombolare dalle scale.
Giusto il tempo di un bicchiere di succo, una fetta
di pane, un bacio a mamma e papà e Ally era in
strada.
«Bene, dovrei farcela.» disse tra sé correndo verso
la fermata.
Così, una volta tanto, poté permettersi di
rallentare il passo, e di godersi almeno un po’ la quiete della prima mattinata
in quel pacifico e ameno quartiere residenziale, lontano dai grattacieli e dai
palazzoni del centro, una tranquilla via costellata di amene casette a due
piani con giardino, staccionata e anche qualche piscina.
Il caldo non era eccessivo, benché fosse ormai quasi
estate; una piacevole brezza giunta dalle montagne aveva spazzato via la bruma
della prima alba, pulendo l’aria e riempiendola allo stesso tempo di una
delicata fragranza di pino, che andando a mescolarsi con la salsedine portata
dal mare generava un aroma che avrebbe ridato energia anche al più incallito
dei pigroni.
Laggiù, in lontananza, si intravedeva il centro
della città, bellissimo, arroccato sulla sua collina come un’acropoli,
puntellato di grattacieli e scintillante di bianco.
Solo in quel momento Ally
si ricordò cosa vi fosse in programma quel giorno. Era lì che lei e la sua
classe erano diretti, al museo nazionale delle scienze e della storia, e di
colpo le venne voglia di correre nuovamente, tanto la eccitava il pensiero di
ciò che avrebbe visto.
Con il cuore che batteva forte per l’attesa Ally giunse alla fermata dell’autobus trovandovi tutti i
suoi amici, tutti impazienti come lei. Meracle, la
sua compagna di banco, era al settimo cielo; la scienza e la storia antica di Celestis erano la sua grande passione, e anche se ormai
conosceva a memoria il museo dove erano ospitati i resti delle prime navi
coloniali giunte sul pianeta quasi quattrocento anni prima ad ogni nuova visita
c’era sempre qualcosa da scoprire.
E poi il museo era così bello.
Chi lo aveva costruito aveva voluto farlo somigliare
ad una culla, un lettino rovesciato dalla forma vagamente pentagonale che
custodiva i ricordi della prima infanzia di tutti coloro che vivevano non solo
in quella città, ma nel mondo intero.
«Vedrai, ti piacerà un sacco.» disse Meracle all’amica appena ebbero preso i propri soliti posti
a bordo del pulmino «Dentro è così maestoso, e così straordinario. Pensa, ci
sono persino alcuni resti delle prime navi coloniali, e persino una
ricostruzione in scala interamente visitabile».
Meracle era andata avanti
a decantare le meraviglie del museo dal giorno in cui si era saputo della gita,
e ormai aveva finito per contagiare anche Ally, che
non vedeva l’ora di poter vedere tutte quelle magnificenze con i suoi occhi.
Abbandonato il tranquillo quartiere residenziale in cui le due
ragazzine vivevano con molti loro compagni l’autobus imboccò la
circonvallazione sopraelevata che come un anello cingeva il centro cittadino,
accogliendo le innumerevoli arterie stradali che arrivavano sia da altre parti
della città sia dall’esterno.
Da lassù, molti palazzi che prima sembravano enormi
ora apparivano piccini piccini, fili d’erba sopra cui
camminare che spuntavano da un pregevole giardino di strade più basse, parchi e
giardini, popolato di persone, animali e altre innumerevoli forme di vita.
Sembrava quasi di volare, tanto la strada arrivava
in alto, e per lei fu un po’ come provare quell’emozione per la prima volta,
anche se solo con gli occhi della fantasia.
Volare era un privilegio riservato a pochi.
Troppo poche le tratte sufficientemente lunghe da
rendere necessario l’uso di un aeromobile.
Come minimo bisognava fare un salto di due o tre
nazioni, altrimenti lo spazio era insufficiente per le manovre effettuate dagli
aerei, che prima salivano velocissimi fin quasi a lambire lo spazio profondo e
subito dopo riscendevano verso il basso, dritti verso la destinazione. Agli
occhi di chi stava a bordo sembrava di non essersi neanche mossi, ma in realtà
erano state percorse diverse migliaia di chilometri, impossibili da percepire
nitidamente, il che, a detta di chi l’aveva provata, rendeva solo l’esperienza
più entusiasmante e fuori dall’ordinario.
Coi treni, quelle rapide frecce che percorrevano da
un capo all’altro ogni punto del pianeta tracciando un’intricata ma molto
ordinata rete di rotaie, si arrivava dappertutto, e in tempi brevissimi. Niente
di paragonabile ai vecchi treni terrestri, che a leggere le cronache e gli archivi
al confronto dovevano sembrare tante tartarughe appesantite dal loro guscio.
Delle aeronavi da crociera poi, un viaggio che si
faceva una volta nella vita e che restava nell’anima, neanche a parlarne. Tanto
quelle che viaggiavano attraverso i continenti quanto quelle che esploravano lo
spazio avevano costi proibitivi, e solo i più ricchi potevano permettersi più
di una crociera.
Molti dei loro genitori lo avevano provato, magari
in occasione della luna di miele, sfruttando gli sconti riservati ai novelli
sposi, e forse anche per questo molte delle compagne di scuola di Ally non vedevano l’ora di sposarsi: volevano a tutti i
costi provare quelle emozioni meravigliose.
Vedere l’oceano stellare, oppure Celestis
dall’alto, fin oltre le nuvole, era qualcosa che sfidava la loro immaginazione
al di là ogni limite, cosa assai difficile per una mente come la loro, che con
le meraviglie del loro tempo conviveva praticamente tutto il giorno tutti i
giorni.
Purtroppo, il centro cittadino era tutt’altra cosa,
essendo anche mattina presto.
Lasciata la circonvallazione all’uscita quattordici,
l’autobus si ritrovò ben presto imbottigliato in un colossale ingorgo.
«Piccolo contrattempo.» disse la maestra Maifang affacciandosi dal sedile con quel suo sorriso un
po’ infantile «Ma non temete, arriveremo comunque in anticipo. Intanto, per far
passare il tempo, perché non riproviamo il coro per la recita della settimana
prossima?».
Quasi subito Ally si
chiamò da parte.
C’erano troppe cose da vedere per avere tempo e
voglia di cantare.
I palazzi attorno a lei, se un attimo prima le erano
sembrati minuscoli, ora invece facevano sembrare lei solo una formichina, un
essere piccino di fronte all’imponenza degli edifici più alti di tutta la città.
Ogni grattacielo era più alto di quello accanto, in
una sorta di scala armoniosa che di tetto in tetto arrivava fino alla Marble Tower, la mitica sede centrale dell’Agenzia, il cuore del
centro cittadino come di tutta Kyrador, anzi, del
mondo intero.
Di tutti gli edifici era sicuramente il più bello,
con quella sua forma richiamante una lancia conficcata a testa in su nel
terreno, quello scintillio omogeneo di vetro traslucido, quelle pareti bianco
brillante che le davano il nome, e in cima quel possente stemma in oro e krylium, grande da solo come la casa di Ally,
che come un gigantesco occhio sembrava voler sorvegliare ogni cosa,
silenziosamente ma senza fallo.
Per puro caso l’autobus era stato costretto a fermarsi proprio ai
piedi del Sunset Building, probabilmente il solo
edificio del centro cittadino capace di rivaleggiare in grazia e bellezza con
la Marble Tower.
Grazie al soffitto trasparente del veicolo Ally poté ammirarne appieno l’eleganza, la linea slanciata
che si protendeva verso l’alto descrivendo una curva su uno dei suoi lati, tale
da farlo sembrare, a paragone dei molti palazzi rigidi e squadrati che lo
circondavano, un cavallo bianco in una mandria nera.
Sulla cima, terminante in una curva pronunciata, si
allungava da quest’ultima una larga piattaforma circolare, sorretta da quattro
possenti colonne diagonali, che altro non era se non il leggendario Sunset Café, un locale tra i più
esclusivi di tutta la città.
Tutte le mattine, al sorgere del sole, la cupola
vitrea che solitamente lo avvolgeva veniva abbassata, dando modo ai commensali
di poter godere della spettacolare vista dei primi raggi di luce che sbucando
da oltre le montagne si incuneavano tra i palazzi per arrivare fino a lì,
creando un effetto come a specchio che sfruttando le vetrate e i lucernari
degli edifici circostanti inondava il locale di un bagliore quasi
sovrannaturale.
Era un ambiente riservato a pochi, dove anche solo
consumare una bibita poteva arrivare a costare lo stipendio di una giornata,
figuriamoci farlo accomodati ad uno dei piacevolissimi divani di morbido
tessuto rivolti verso il mare o a qualcuno degli eleganti tavoli circolari in
legno scuro coperti da tovaglie di pura seta bianche come le nuvole.
Il caffè era particolarmente frequentato alla
mattina presto, dato il gran numero di uffici e sedi diplomatiche che
popolavano tanto i palazzi circostanti quanto lo stesso Sunset
Building, che oltre alle sedi centrali di molte importanti aziende ospitava
anche l’ambasciata di Fhirland.
Lo stesso ambasciatore Klose
era solito recarvisi quasi ogni mattina con la moglie e i due figli.
L’ambasciatore, un uomo che si era fatto a solo,
aveva cercato di inculcare il culto del duro lavoro in entrambi i suoi figli,
ma se il maggiore Christofer aveva recepito il
messaggio, ed era ormai ad un passo dal diventare un suo collaboratore, la
minore Pam era per lui una inesauribile riserva di
preoccupazioni.
Benché fosse già all’ultimo anno di liceo, quella
ragazza non aveva mai lavorato un giorno della sua vita, e spesso, troppo spesso
per un uomo nella sua posizione, si era messa nei guai con i suoi
atteggiamenti.
Tra i due era uno scontro continuo, e quando andava
bene si ignoravano a vicenda, come quella mattina.
L’ambasciatore si sentiva in parte responsabile per
quella situazione. Pam era nata in un momento in cui
la sua carriera stava subendo una rapida svolta, che lo avrebbe portato da
anonimo politico di provincia a figura di spicco del proprio Paese a livello
internazionale, e per riuscire ad arrivare a quel punto si era trovato
costretto a trascurare spesso la famiglia.
Per Christofer non era
stato un problema, abituato com’era a vivere lontano da casa per frequentare
prima il collegio e poi l’accademia di magia, ma Pam
doveva aver avvertito molto questa mancanza, che ora sfogava comportandosi in
modo impulsivo e talvolta immaturo.
«Forse è il caso che ti sbrighi.» la rimproverò
l’ambasciatore vedendo che Pam esitava a finire la
colazione «O farai tardi anche questa mattina.»
«Hai così tanta fretta di liberarti di me?» sibilò
la ragazza chiudendo svogliatamente la finestra per messaggi olografica del
comunicatore montato sul suo orologio.
«Io non farei lo spiritoso, signorina. Fra due mesi
ci saranno gli esami, e sai meglio di me che se non li passi potrai scordarti
l’ammissione all’accademia di magia.»
«Dai quasi per scontato che io voglia frequentarla.
Non ti viene neanche in mente che potrei avere altre ambizioni?»
«Per esempio? Andare a ragazzi e locali notturni?
Sono stanco di doverti venire a prendere nelle stazioni
di polizia, signorina. O passi gli esami, e con un voto che non sia la solita
sufficienza, o ti avverto che per te le cose potrebbero farsi davvero
complicate.
Spero di essere stato chiaro».
Pam rispose all’ultimatum
alzandosi stizzita dal tavolo facendo quasi cadere la sedia.
«Come vuoi.» disse recuperando la giacca e lo zaino
«Tanto è la tua specialità. Valutare la gente solo in base a quanto ti
gratifica. Stupida io a pensare che con me fosse diverso perché sono tua
figlia.»
«Non osare rivolgerti a me con questo tono. Pam!» ma ormai la ragazza se n’era già andata.
Pam lasciò il Sunset
Building incamminandosi nel traffico cittadino.
La giornata si preannunciava soleggiata, e così
molti avevano lasciato a casa la macchina ripiegando sui mezzi pubblici, e
anche se questo non impediva al centro di essere comunque congestionato dal
traffico il caos sui marciapiedi era se possibile anche migliore.
I palazzi erano così alti che a meno di non avere il
sole a picco le strade, soprattutto la mattina presto, erano perennemente
avvolte nell’ombra, e anche se i combustibili fossili o inquinanti erano ormai
un ricordo ci pensava l’aria viziata per la troppa gente ad appesantire
l’atmosfera.
Alle volte quella parte della città riusciva ad
essere davvero invivibile.
Un po’ discostate rispetto al centro cittadino vero
e proprio si innalzavano tre colline non troppo alte, i soli avvallamenti di
quel territorio dominato invece da vasti appezzamenti pianeggianti che
scivolavano placidamente verso il mare, e in cima ad una di queste vi era la
Scuola Superiore Alloway, così chiamata in memoria
del comandante della Nave Coloniale Aurora che aveva toccato terra proprio nel
luogo in cui sarebbe sorta un giorno Kyrador.
Non era particolarmente ripida, ma ciò nonostante
doverla risalire tutte le mattine o quasi era uno dei tanti motivi per i quali Pam aveva sempre detestato quella scuola, e poco importava
che Angin Street, il grande viale pedonale che da una
strada laterale del centro sbucava proprio davanti ai cancelli dell’istituto,
fosse tra i più apprezzati della città.
Ciottoli bianchi e rossi coprivano il selciato,
descrivendo piacevoli motivi geometrici, due file di aiuole disposte l’una di
fronte all’altra ospitavano bassi alberelli, e ai piedi dei molti lampioni
trovavano spazio confortevoli panchine per riposare o godersi la tranquillità.
Vetrine di negozi, pasticcerie e altri locali
adornavano il tutto, rendendo Angin Street una delle
mete favorite di turisti e vacanzieri, ma anche semplicemente di abitanti alla
ricerca di un luogo dove trascorrere il tempo libero.
Pam era seriamente
intenzionata ad andare a scuola, se non altro per evitare nuove noiose
discussioni con suo padre, ma il caso volle che proprio ad un passo dai
cancelli incontrò Shirley e Marie, le due sole persone che potesse davvero
definire amiche, le quali a loro volta quella mattina avevano molta poca voglia
di entrare in classe.
A quel punto la ragazza prese la sua decisione.
«Al diavolo tutto.» sbottò dando un calcio alla
elegante cancellata «Andiamo a farci un giro, ci state?»
«Vuoi marinare la scuola anche oggi?» domando Marie,
che per quanto insofferente al protocollo e alla noiosa routine scolastica come
Shirley teneva non poco al proprio futuro
«Perché, voi no? Personalmente oggi tutto mi fa gola
tranne ascoltare l’ennesima lezione di storia.»
«Hai litigato di nuovo con tuo padre?» le chiese
Shirley
«Non mi và di parlarne. Allora, siete con me o no?».
Le due ragazze esitarono un momento, ma poi come al
solito si lasciarono convincere e seguirono la loro amica nel suo ennesimo
colpo di testa.
Mentre scendevano lungo la strada che avevano appena
percorso nel senso opposto, le loro strade si incrociarono con quella di uno
dei più curiosi e strani personaggi che la città avesse mai offerto; calzoni
bianchi, camicia bluette a quadretti, panciotto imbottito color cuoio,
portamento leggermente curvo ma ugualmente elegante, mani dietro la schiena ed
espressione gentile, affabile, resa ancor più apprezzabile da una non troppo
rada chioma argentata.
Lo chiamavano Signor Loyde,
come un personaggio di una popolare serie per bambini cui assomigliava, visto
che, tra quelli che lo conoscevano o avevano sentito parlare di lui, nessuno
sapeva il suo vero nome.
Lui passeggiava. Passeggiava sempre.
Da una parte all’altra, passeggiava per Kyrador come un qualsiasi visitatore occasionale, posando
con fare a metà tra l’assorto e il contemplativo brevi sguardi su ogni cosa
catturasse la sua attenzione, dai numeri sui tombini alle tende delle finestre.
Ogni tanto si fermava, indifferente al traffico di
una strada o all’andirivieni ininterrotto di un marciapiede, focalizzando tutte
le sue attenzione su un particolare qualsiasi, fosse esso l’architettura di un
palazzo o la particolare impronta del volto di una statua, quindi si rimetteva
in cammino, alla ricerca di qualche altro posto da esplorare.
Non vi era luogo della città che non conoscesse;
conosceva ogni via, ogni strada, ogni palazzo. Era come una guida turistica
vivente di Kyrador. E per chi aveva voglia e tempo di
ascoltarlo, si rivelava ogni volta un inesauribile pozzo di storie, aneddoti, e
qualunque altra cosa riguardasse sia la storia gloriosa sia l’esistenza
quotidiana della città più bella del mondo.
Con il tempo, sempre più persone avevano avuto modo
di conoscerlo, e alcune gli erano diventate persino amiche; persino una piccola
emittente cittadina si era interessata a lui, dedicandogli un servizio
intitolato Il Signor Kyrador,
ma nonostante ciò la sua figura rimaneva avvolta da un che di misterioso.
Secondo alcuni era un agente della MAB in pensione,
secondo altri un ex poliziotto, secondo altri ancora un’artista, forse
originario di un altro Paese, giunto come tanti altri in città ed
innamoratosene a tal punto di averla eletta a propria nuova casa e di aver
fatto della sua scoperta una personale ragione di vita.
A chi gli aveva chiesto lumi sul suo passato, o su
cosa avesse fatto nella vita, la risposta, accompagnata da un sorriso gentile,
era stata sempre la stessa.
«Un po’ tutto e un po’ niente.»
Stessa cosa per chi gli aveva domandato quanti anni
avesse, cui rispondeva sempre con un vago “Abbastanza.”
senza capo né coda.
Non era la prima volta che le ragazze lo
incontravano, visto che non era raro vederlo passeggiare su e giù per Angin Street, con l’occhio solo parzialmente catturato
dallo splendore delle vetrine, ma mentre Shirley e Marie non si negarono al suo
gentile saluto quando questi le vide approssimarsi Pam,
al contrario, si mostrò leggermente seccata, anche se cercò di non darlo a
vedere.
«Buongiorno signorine.» disse portando malamente
l’indice destro alla fronte, quasi a scimmiottare un saluto militare
«Buongiorno, signor Loyde.»
rispose Marie «Era da molto tempo che non la incontravamo.»
«Effettivamente. Ma era da un po’ che non mi
ricapitava di transitare da queste parti.»
Poi, la sua attenzione fu catturata dal nastro che
cingeva delicatamente il colletto delle uniformi scolastiche delle tre ragazze,
la cui eleganza ben si confaceva al prestigio di una scuola illustre come
l’accademia Alloway.
«Il colore è cambiato» disse dopo aver osservato per
molti secondi quello di Pam, suscitando oltretutto
nella ragazza un misto di imbarazzo e repulsione. «Prima era un rosso più
delicato, come il petalo di una rosa. Ora invece sembra di qualche gradazione
più scuro. Direi un color vino.»
«Non le sfugge proprio niente, Signor Loyde» sorrise Shirley. «In realtà è perché abbiamo fatto
il cambio di stagione. L’altro nastro è dell’uniforme invernale.»
«Ah, capisco. Sapete, una volta le ragazze della
vostra scuola portavano una uniforme diversa.
Mi ricordo di averla vista la prima volta proprio
qui, in una mattina di primavera.
Era molto bella. Color grigio perla. Con un colletto
bianco, e un nastro blu. E le ragazze avevano tutte una cartellina di pelle
marrone. Erano così eleganti. Sembravano già donne mature e madri di famiglia.
Come voi del resto.
D’altronde, trovo che esaltare la femminilità e
l’eleganza sia il pregio maggiore delle uniformi scolastiche.»
«Ragazze, avete finito di fare salotto?» domandò
spazientita Pam.
«Scusatemi, mi sono dilungato troppo. Mi ha fatto
piacere incontrarvi, signorine. Spero di rivedervi presto.»
«Arrivederci, Signor Loyde.»
Mentre si allontanavano Pam
si volse a guardare nuovamente a guardarlo, incrociandone brevemente lo sguardo
fino a che l’anziano, rivolto un ultimo saluto, non le diede le spalle
riprendendo a sua volta la propria strada.
«Si può sapere che ci trovate in quel vecchio?»
domandò notando, non senza stupore, le guance rosse delle due amiche
«Beh, è molto affascinante, devi ammetterlo» disse
Marie quasi a volersi giustificare.
«Avrà settant’anni come minimo.»
«Sarà anche anziano, ma sa come adulare le persone»
rispose Shirley con sguardo sognante. «E ogni volta che lo guardo negl’occhi,
mi sento così strana. È come se tutto il mio corpo tremasse all’improvviso.»
«Dite un po’ non sarete mica gerontofile?»
«Piuttosto, l’uniforme di cui ha parlato» disse ancora
Marie. «Se non sbaglio veniva usata durante i primi anni di esistenza della
nostra scuola, quasi centocinquant’anni fa. Come fa a
dire di averla vista?»
«Mi sembra ovvio che non ci sta tanto con la testa»
tagliò corto Pam. «Ci sono le vecchie foto nell’atrio
principale, e si sarà convinto di averle viste di persona.
E ora, se non vi spiace, gradirei parlare d’altro.»
Pam e le sue amiche girovagarono qualche ora
per le strade attorno alla scuola, per poi decidere, sul fare di mezzogiorno,
si spostarsi nella grande zona commerciale nei pressi della via di Saint Augustine, dove al termine dello shopping si sarebbero
concesse una lunga e molto rilassante passeggiata pomeridiana, magari condita
da un cocktail in uno degli innumerevoli caffè che costeggiavano ogni angolo
della via del relax e del divertimento più famosa di Kyrador,
secondo sola all’altrettanto bella, ma indubbiamente meno caratteristica, Angin Street.
Non si trattava di un vero e proprio centro
commerciale, ma piuttosto di una cittadella, racchiusa entro una immaginaria
cinta muraria formata dalle pareti posteriori degli edifici che componevano la
cinta esterna, con vari ingressi, un chiostro centrale all’aperto e tre piani
di negozi, sia generici che specializzati dove si poteva trovare di tutto, dai
prodotti per l’igiene alle autovetture.
Forse non era il più grande di Kyrador,
ma di sicuro era il meglio frequentato, soprattutto per la presenza di molti
marchi prestigiosi.
Era una specie di tempio dell’opulenza, dove tutto
era a portata di mano, ma senza dimenticare il buon gusto e la ricerca del
bello che pervadeva buona parte della città.
Oltre ai negozi, ai ristoranti e ad altri esercizi
la cittadella ospitava anche un vasto giardino, un parco giochi per i bambini,
una palestra attrezzata e in ultimo, nei sotterranei, persino una vasta
piscina, ritrovo favorito di molti giovani e impiegati al ritorno dall’ufficio.
Il giardino al centro della struttura ai piedi della
torre principale era attrezzato anche di panchine e divanetti, ed era ad uno di
questi che era seduto, con una cert’aria ansiosa, Vick
Owen, un piccolo truffatore che si era già fatto conoscere dalla polizia ma a
cui la comprovata affidabilità come informatore aveva sempre permesso di
evitare la galera.
Aveva appuntamento con un compratore, qualcuno al
quale piazzare a buon prezzo del materiale molto importante di cui era entrato
in possesso recentemente che avrebbe provocato una vera e propria esplosione
nei centri di potere della città e permesso a lui di vivere di rendita per il
resto della sua vita.
Per lui, cresciuto lontano dal lusso e dallo sfarzo
dei distretti centrali, era come aver trovato l’eldorado, e poco importava se
si trattasse di qualcosa con indubbi risvolti pericolosi, data l’importanza
delle informazioni.
Non era stato facile trovare qualcuno in grado di
credergli, e di fornirgli nel contempo sufficienti garanzie per tutelarsi
prima, durante e dopo la transazione, ma alla fine era riuscito a raggiungere
un accordo con il procuratore distrettuale Griffith, che gli aveva promesso un
generoso compenso e una nuova identità con cui trasferirsi in un’altra nazione.
Tuttavia, qualcosa lo turbava.
Benché si trovasse nel luogo convenuto l’ora
stabilita per l’incontro con il suo compratore era passata già da qualche
minuto, e ora cominciava ad essere nervoso.
Spazientito telefonò al procuratore nel suo ufficio,
e grande fu il suo stupore quando, aprendo la finestra di comunicazione, vide
comparire non lui, ma quella che doveva essere la sua segretaria, una ragazzina
castana in uniforme dall’aria innocente e semplice.
«Si può sapere dov’è finito il procuratore?»
brontolò
«Sono spiacente.» rispose l’angelo in divisa «Il
procuratore non c’è. È ad una colazione con il giudice Birmington.»
«Come sarebbe a dire a colazione con il giudice!?
Avevamo appuntamento al centro commerciale di Saint Augustine
venti minuti fa.»
«Veramente, il procuratore aveva detto di avere un
appuntamento questa mattina prima dell’incontro col giudice, ma prima di andare
via mi ha comunicato di averlo cancellato.»
Vick cadde dalle nuvole,
ma da uomo della strada quale era non impiegò molto per capire cosa stava
succedendo.
Ovviamente non poteva saperlo, ma la verità era che
il procuratore, la sera prima, aveva ricevuto un messaggio, apparentemente
proprio da parte di Vick, in cui lui annunciava di
aver trovato un compratore migliore e di avere per questo rinunciato
all’affare.
Nel momento in cui vide sopraggiungere da dietro un
edificio un enigmatico figuro, tarchiato, quasi calvo e in occhiali da sole,
che vistolo prese a camminare nella sua direzione con passo deciso Vick capì che qualcosa era andato decisamente per il verso
sbagliato, e come se avesse avuto il diavolo alle costole si alzò e se la diede
a gambe, rapido ma senza correre, per non creare scompiglio e potersi
confondere tra la folla.
Il cuore gli batteva in petto, mentre sentiva quella
presenza minacciosa farsi sempre più vicina, e cercando per quanto possibile di
mantenersi calmo.
Nel frattempo Pam, Marie e
Shirley avevano visitato le boutique, i negozi di cosmetici e anche
l’autosalone, fantasticando del momento in cui avrebbero finalmente posseduto
una macchina tutta loro, e dando a fondo a tutto quanto avevano nel portafogli.
Erano appena uscite dall’autosalone quando Pam venne urtata accidentalmente Vick,
che troppo spaventato ed assorto nei suoi pensieri quasi non si accorse di
nulla proseguendo per la sua strada.
«E sta attento, cafone!» sbraitò la ragazza
all’indirizzo dello sconosciuto con la giacca da baseball.
Più vicina si fece l’uscita più Vick
aumentò il proprio passo, che varcato l’arco d’ingresso divenne vera e propria
corsa.
Anche l’inseguitore si mise a correre, ma
sfortunatamente per lui quando raggiunse il parcheggio Vick
era già risalito sulla sua carretta e se n’era andato, veloce come la folgore.
Tuttavia, pur essendosi momentaneamente salvato, Vick si sentiva comunque in trappola. Ciò che era successo
era la prova che le persone alle quali le sue informazioni potevano nuocere non
poco lo avevano scoperto, e si erano mosse per impedirgli di parlare.
Non sapeva cosa pensare, o cosa fare.
Una cosa la sapeva: aveva bisogno di aiuto. E decise
di chiederlo all’ultima persona che un truffatore incallito poteva considerare
amica.