Anni difficili

di pozzanghera
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Si sciacquò il viso per la terza volta, “sei invincibile” disse alla figura riflessa nello specchio. Uscì dal bagno, prese lo zaino e scappò verso la fermata dell’autobus dove quattro ragazzi assonnati erano in attesa. Li salutò e si mise dietro di loro, vicino al recinto di una casa. Cercava di non farsi sopraffare dall’ansia, ma tutte le volte che c’era un compito in classe si sentiva lo stomaco chiuso, le gambe instabili quasi avessero voluto scappare via e non riusciva a tenere ferme le mani. Era sempre stato così, non era una grande studiosa, era il tipo da “signora, sua figlia è intelligente ma non si applica”, aveva sempre dato il minimo cercando di ottenere il massimo. Salì sull’autobus e per l’ennesima mattina, dovette stare in piedi. Ma la cosa che più le disgustava di quei viaggi in autobus erano due compagni di classe che facevano i cretini infondo. Fingeva sempre di non conoscerli, le venivano naturali le facce schifate ad ogni loro battuta scema o risata sguaiata, li odiava. Si chiedeva costantemente cosa diamine vivessero a fare certi soggetti, poi pensando a sé si rendeva conto che neanche la sua vita aveva gran senso e si sentiva sopraffatta da un senso di angoscia. Quando le porte si aprirono, fu trascinata fuori da qualche decina di studenti, una volta sul marciapiede si guardò attorno in cerca di vie di fuga. “Andiamo?” le chiese un ragazzo brufoloso, ma Andrea non lo ascoltava. Lei voleva scappare. Ma quei cinquecento metri le sue gambe li conoscevano bene, e anche oggi l’avrebbero condotta lì.
La prima ora sembrava non passare mai, la professoressa di matematica interrogava e parlava, parlava, poi correggeva qualcosa che un alunno aveva scritto alla lavagna e continuava a parlare. “Possibile che alle interrogazioni parli solo lei?” sussurrò al ragazzo brufoloso al suo fianco. Lui alzò le spalle e continuò a disegnare. Quando la campanella suonò Andrea si sentì quasi svenire: il professore d’italiano doveva aspettare fuori la porta perché entrò prima che la collega uscisse.
“Ci siamo” disse Elena voltandosi, ma Andrea sembrava in trance e la ragazza le punzecchiò la mano con la matita. Andrea scattò sulla sedia e tutta la classe scoppiò in una risata: l’ansia a quanto pare aveva contagiato solo lei. “Girati che il tenente ti manda fuori” disse con un tono finto arrabbiato.
“Avete due ore e vediamo di essere puntuali stavolta. Prendete due fogli e le penne, voglio solo quelli sul banco, se vedo cellulari li porto dal preside”. Prese un gesso e scrisse in un corsivo appena comprensibile sulla lavagna: L’amore.
I ragazzi fissavano la lavagna, vedendo il professore voltarsi nuovamente verso di loro lo guardarono perplessi. Nessuno aveva scritto quella parola, che titolo poteva mai essere?
“Vogliamo cominciare? Due ore passano in fretta” disse con quel tono antipatico che gli era valso il titolo di stronzo dell’epoca.
“Professore mi scusi, ma è tutto qui?” chiese Elena non sapendo bene come l’avrebbe presa, a volte sembrava uscito da un manicomio!
“Si.” Fece una pausa, si alzò e si mise davanti la cattedra guardano i giovani davanti a lui: “avete studiato,no? Fino a prova contraria avete un cuore, siete capaci di amare. Vi siete fatti un’idea dell’argomento. Qualcuno di voi scrive poesie d’amore nei gabinetti della scuola!” Tutti scoppiarono a ridere ma il professore era serissimo “ora cominciate”.
Che palle! pensò Andrea, strinse la penna tra le dita come se questo potesse aiutarla. Sembrava un compitino di quelli che assegnano ai bambini delle elementari. E lei le elementari le aveva già concluse da un pezzo, cosa doveva scriverci? Che la mamma e il babbo si amano, che vorrebbe anche lei un amore così o…. si mise all’opera, e scrisse d’impulso tutto ciò che le venne in mente. Alla fine fu soddisfatta, tanto quel compitino lo avrebbe letto solo il prof. Fece sparire la brutta, l’avrebbe conservata, magari ci avrebbe riso su prima o poi.





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