______________________________________________________________________________________________________
The
Only Woman, The Only Queen
La
sola donna, La sola regina
Capitolo
1: La bambola camuffata
“Siamo tutti
costretti, per rendere sopportabile la realtà, a coltivare
in noi qualche
piccola pazzia.”
(Marcel Proust)
-
Lettera accartocciata –
In
uno specchio è riflesso ciò che è
concreto e tangibile. Uno
specchio riflette esattamente quel che è davanti ai nostri
occhi.
Se
questo è vero… allora anche quel che io vedo
è reale!
Alexia….ci
sei tu dietro questo specchio?
Non
vedo più il mio volto. Non vedo più me stesso in
questa
immagine
specchiata. Di fronte a me vedo i tuoi occhi di Regina, il
tuo sorriso
dominatore,
il tuo sguardo vittorioso, il tuo genio inaccessibile….
Quell’inconfondibile
luce complice che solo l’uno negli occhi dell’altro
può vedere.
Oh
Alexia, mi manchi disperatamente…
Ma
sopporterò. E’
solo per te
che affronto questa incessante agonia.
Son
lieto e onorato di donarti la mia vita.
- … in
attesa di te, mia amata sorella,
Alfred
Ashford -
Non
è la realtà quella che si proietta nei nostri
occhi, ma allo stesso tempo non è una menzogna quello che
crediamo sia vero.
Allora cos’è davvero reale?
La
risposta è Nulla. Nulla, al di là delle
emozioni che viviamo.
Son
loro che dettano quel che crediamo sia vero.
E son esse che ci consentono di dire cosa amare o meno.
Ma
non pensiamo di essere liberi di poter
scegliere, perché sarebbe rovinosamente erroneo.
Siamo
tutti, infatti, vittime di una dura e inconsapevole
prigionia mentale che ci imbriglia e ci opprime fino a indurci a
dipendere
inesorabilmente a essa per non cadere nell’oblio.
Tutto
è solo un’ombra. Nulla esiste davvero.
Quindi
l’unica cosa che possiamo fare è vivere
nella nostra pazzia, l’unica a dare un senso al nostro
universo.
Una
giovane donna era adagiata sul suo
regale e imponente trono rivestito da un purpureo velluto pregiato. Un
bagliore
era riflesso nei suoi occhi e le impediva di focalizzare la stanza che
aveva di
fronte a sé, della quale scorgeva a stento i contorni
tramite confuse e
impalpabili ombre offuscate. Un tripudio di ansie faceva agitare il suo
corpo,
senza che potesse capire effettivamente da cosa fosse scaturito tale
affanno
interiore. Tuttavia in suo potere vi era l’unica
facoltà di aprire e
socchiudere gli occhi, mentre il resto del suo corpo era come se fosse
stato
riempito di piombo.
La
testa inclinata verso il basso le stava
provocano la nausea, eppure rimase immobile in quella posizione per
ore, concedendosi
soltanto dei lievi dondolii col capo che fecero oscillare i suoi lunghi
capelli
biondi, i quali cascarono prontamente davanti ai suoi occhi.
In
quello stesso istante una pallida mano le
accarezzò la guancia, facendo scorrere le sue dita attorno
al suo orecchio,
liberandola così dal sipario formato da quei sottili fili
dorati che pendevano
dalla sua fronte.
Ella
alzò faticosamente gli occhi,
schiudendo la sua bocca rosa intorpidita.
Un
uomo vestito di rosso comparve davanti
ai suoi occhi. Era piegato verso di lei, e le sorrideva.
La
sua pelle bianca ricordava una finissima
porcellana dalla bellezza quasi irreale. Poteva esistere un candore
simile?
Consapevole
di star concependo un pensiero
assurdo, li per li si chiese seriamente se accanto a lei ci fosse una
bambola.
I
sottili capelli dorati, luminosi,
delicati, e poi i suoi occhi color cristallo… tutto faceva
di quell’uomo
l’essere che più si avvicinava alla perfezione di
una bellezza botticelliana.
Eppure
nel suo sguardo albergava qualcosa
di dubbio, qualcosa di nascosto, qualcosa che non rifletteva la
realtà. Un
qualcosa di complesso e disturbante, che le faceva intuire
perfettamente che
c’era qualcosa di sbagliato,
anche se
non sapeva ancora cosa.
Quell’emozione
fuorviante le fu
d’improvviso familiare. Sentiva di conoscere la
verità da qualche parte, di
sapere che era vero: c’era qualcosa di oscuro e sbagliato in
quell’uomo.
Una
parte remota del suo inconscio reagì
prima ancora che si appropriasse di quel ricordo al momento annebbiato,
ma non
fu in grado di fare altro. Abbassò solo ancora di
più la testa, sentendo il suo
corpo sempre più pesante…
“Sorellina,
sei ancora stanca? Avevo fatto
preparare del tè da prendere insieme in giardino.”
Il
ragazzo dall’aspetto aristocratico
rimase in silenzio, attendendo invano la risposta. Sorrise dolcemente,
accorgendosi che la sua dama voleva dormire ancora un po’.
Fece
scorrere lentamente il suo sguardo su
di lei, godendo di ogni angolo che componeva il suo corpo.
Dai
suoi piedi rivestiti dalle scarpe col
tacco, perfettamente allineati all’estremità della
poltrona su cui era
adagiata; al suo vestito viola scuro, che lasciava scoperte le spalle,
e che si
posava leggiadro su ogni sua curva delineando il suo corpo longilineo,
accarezzandolo con le sue tenue balze di seta.
Sul
suo collo troneggiava un girocollo
nero, ove ergeva incastonata una pietra scarlatta, simbolo della sua
famiglia.
Simbolo del suo destino. La pietra che apparteneva alla sua Regina, di
cui lui
era il mite e devoto servitore.
Inginocchiato
ai suoi piedi, fece cadere la
sua mano su quella di lei, sfiorando il gancio di ferro che incastrava
i suoi
polsi.
Egli
le accarezzò il dorso con le dita,
massaggiando le nocche della sua mano. La strinse per un attimo,
rievocando nella
sua mente quanto fosse bello il tempo in cui anche lei gliela stringeva
a sua
volta.
Affogato
nella visione di quel ricordo,
improvvisamente sul suo viso si disegnò una smorfia. Egli
aprì la sua bocca e
dalle sue corde vocali uscì una voce angustiante, una voce
inquietante, una
voce che non gli apparteneva…la voce di qualcun altro.
La
voce di una donna.
“Grazie,
fratello mio. Vorrei però rimanere
qui ancora un po’ se non ti dispiace.”.
Lui,
quasi senza rendersi conto di star
parlando da solo, annuì alla sua stessa affermazione,
reimpostando il suo reale
timbro di voce maschile.
“Ma
certo, Alexia. Riposa pure ancora un
po’… a più tardi.”
Un
tacito “ti voglio bene” si disegnò sulle
sue labbra.
Egli
rimase inginocchiato ancora un po’, osservando
silenziosamente gli occhi spenti della donna e le sue labbra che in
realtà non
avevano proferito alcuna parola.
Dopodiché
si alzò, mettendosi in piedi di
fronte a lei. La mano della fanciulla dai capelli biondi incatenata al
suo
trono rosso scivolò via dalle sue dita. L’uomo si
allontanò, camminando con una
postura perfettamente eretta ed elegante che fece oscillare
delicatamente i
gradi militari posti sulle sue spalle.
Giunto
sulla soglia del corridoio esterno,
mise un piede indietro in modo trasversale, e con un giro veloce su se
stesso
fu di nuovo rivolto verso di lei.
Prese
dunque fra le mani, rivestite da
vellutati guanti bianchi, le maniglie dorate e chiuse il possente
portone di
legno rinchiudendo la sua Marionetta Addormentata.
***
Il
magistrale portone di legno scuro era
stato appena chiuso. Il movimento tenue con cui la porta era stata
serrata non
impedì al rimbombo di propagarsi nell’ambiente.
La
penombra ombrò i colori di quella
stanza, come fosse il triste velo grigiastro di un sipario oramai
calato, e la
ragazza dai capelli biondi, col viso ancora chinato, guardò
attorno a sé. Il
suo sguardo scivolò sui suoi polsi ancorati a quella
poltrona regale rivestita
di rosso.
Quelle
morse rugginose, inquietantemente in
contrasto con la preziosità del trono su cui erano montate,
erano chiuse a
chiave, e non ricordava assolutamente quando vi era stata imprigionata.
Allo stesso tempo un
pensiero invase la sua
mente. Un pensiero scaturito dal nome con cui quel ragazzo dai capelli
pallidi
l’aveva chiamata.
………………………..Alexia…………………………
era
quindi
questo il suo nome?
Strinse
gli occhi riavvertendo dentro di sé
quell’emozione provata poco prima al cospetto del biondo.
Quella sensazione
disturbante, di chi si è accorto che qualcosa non quadrava.
Questo
perché era sicura di diverse cose,
che man mano stavano riemergendo dal suo inconscio:
Era
infatti sicura di non chiamarsi Alexia.
Era
sicura che quell’uomo non fosse suo
fratello.
Ed
era sicura di non avere i capelli
biondi.
Erano
in suo possesso queste sole certezze,
di cui l’ultima abbastanza superflua. Eppure sapeva che fosse
un dettaglio
importante, sebbene la sua mente non le permettesse ancora di
focalizzare al
meglio le sue attenzioni. Tuttavia ancora qualcosa la confondeva, e di
nuovo
quella strana sensazione la pervase. Perché aveva il vago
ricordo di avere
davvero un fratello.
Allora
forse si sbagliava? Forse quel
ragazzo altolocato era davvero suo fratello e lei la sua bionda
sorellina?
Forse
era davvero solo stanca?
La
donna chiuse gli occhi, sfinita da tali
taciti ragionamenti. Sebbene di natura non particolarmente contorta,
quei dubbi
ebbero su di lei un effetto devastante data la fiacchezza che aveva in
corpo. Così
si addormentò, abbandonando per qualche ora quella
realtà di cui lei al momento
era solo un’inconsapevole marionetta.
Mentre
si placava, i suoi ricordi si
focalizzarono su quel viso candido e delicato. Su quei tratti ben
definiti e
muliebri. Su quell’uomo la cui finezza rievocava una cerea
porcellana.
Su
quella occulta ma palpabile agonia nascosta
dietro i suoi occhi…
***
“Oh,
Alexia.”
L’uomo
dall’apparenza regale sgattaiolò nel
corridoio, imboccando velocemente le scale. Si voltò di
scatto verso una parete
vuota ed estrasse dalla tasca della sua elegante divisa militare rosso
cremisi
uno strano emblema d’ottone. Lo fece roteare fra le sue mani
disponendolo nel
modo corretto, poi lo incastrò in una zona non ben definita
del muro,
impossibile quasi da scorgere per chi non sapesse dove guardare
esattamente.
Tale azione fece tremare per un istante l’ambiente che lo
circondava, ma lui
non si smosse essendo padrone di quel castello e conoscitore di tutti
suoi
segreti.
In
quello stesso istante, la parete sparì
scorrendo verso il basso, rivelando così un passaggio
nascosto, oltre il quale
era preservata una stanza buia, dissimile dalle altre.
Dentro
erano ubicati dei monitor accesi
sparsi un po’ ovunque, che mostravano tutti la stessa stanza
che lui aveva
appena lasciato.
Si
trovava in una piccola zona di
monitoraggio.
Egli
si aggrappò quasi con disperazione al
tavolo posto sotto uno degli schermi, puntando non solo lo sguardo, ma
tutto se
stesso sull’immagine della donna tenuta prigioniera.
La
luce cerulea dello schermo si rifletté
su di lui, rendendo la sua figura ancora più pallida. I suoi
occhi illuminati
da quel bagliore non sbatterono mai le palpebre, estasiati di poter
vedere
finalmente in carne e ossa la Donna. La sua Donna.
D’un
tratto però i suoi occhi si strinsero,
e con essi anche i pugni si serrarono. Il biondo digrignò i
denti deformando la
sua espressione, e con afflizione batté la testa sul tavolo,
prostrandosi verso
la sua mentale interlocutrice.
“Perdonami…”
sussurrò devastato. “Lo sai
che non potrei mai tradirti, Alexia.”
Disse
credendo davvero di parlare al
cospetto della sua Regina.
“Solo
a te devo la mia devozione, nessuno
potrà mai separarci. Ci sarò sempre al tuo
fianco, non lascerò che alcuno t’intralci.
Sarò al tuo fianco sempre, sempre,
sempre….”
Sbatté
un pugno, addolorato e oramai sul
punto di crollare.
Egli
aveva dimostrato la sua fedeltà
incondizionata per tutti quei lunghissimi anni. Aveva sofferto la
solitudine
più buia, illuminato dal solo e semplice ricordo di colei
che era la più
importante per lui.
Questo
da quando Lei aveva deciso di
ibernarsi per fare di se stessa la cavia del suo più grande
esperimento in vece
del suo inutile padre, che non era stato capace di riportare alla
gloria la
nobile famiglia dalla quale discendeva. Nemmeno nel momento della morte
egli
aveva saputo rendersi utile, condannando così Alfred Ashford
in un’insopportabile
attesa devastante.
Questo
perché Alexia fu costretta a
sacrificarsi al suo posto.
La
rabbia cominciò a crescergli in corpo,
torcendo le sue viscere in quel tormento che sembrava non avere
più fine. Quel
baratro che l’aveva condannato e aveva gettato nella
dannazione la sua realtà.
Alfred
aveva cercato di opprimere in tutti
i modi la frustrazione di quella solitudine non ancora cessata. La
solitudine
di quell’attesa devastante. La solitudine che lui avrebbe
colmato proteggendo
la sua bella Principessa Addormentata.
Ma
era una solitudine folle, una solitudine
al limite dell’inumano. Una solitudine che covava in corpo
oramai da quasi
quindici anni. Quindici anni…
Seppur
la non fisicità della sua adorata e
perfetta Alexia, la sua presenza era infatti rimasta come un alone
costante
nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto
castello.
Una
costante fittizia, ma così viva e
forte…così
tanto che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale
continuando a dare un
nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo
uno
spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo
aveva mai
lasciato.
Alfred
nascose infatti la sua assenza,
ingannando persino il suo stesso io che l’agognava
follemente, incapace di
vivere senza di lei. Eresse una formidabile commedia ove alcuno avrebbe
mai
potuto sospettare che ella non si trovasse davvero lì,
attualmente, a solcare
le mura del loro castello.
A
tal scopo, il biondo aveva curato il loro
luogo sacro, ucciso i loro oppositori, fatto tacere chi osava guardare
troppo,
insegnato cosa significava varcare le soglie del loro castello,
nutrendo le sue
insignificanti formiche col sangue di chi aveva avuto l’onore
di partecipare al
loro gioco perverso.
Tutto
questo recitando sempre l’illusoria
presenza di Alexia Ashford, il fantasma che regnava quel mondo assieme
a lui.
Alfred
aveva fatto sì che ella rimanesse
sempre al suo fianco, gettando il dubbio sulla sua presenza,
confondendo ruoli
e personaggi fino a creare un suo personale universo in cui lei era
accanto a
lui.
Ma
nonostante ciò, qualcosa ancora lo
turbava.
Il
solo alone della sua Regina non era
bastato.
Ancora
non si era reso conto, infatti, del
reale potere della solitudine più ombrosa di cui era vittima
in realtà.
Il
giovane uomo dai sottili capelli dorati
aveva provato di tutto pur di trovare la sua Adorata in qualche parte
remota al
di la di quel vetro dietro il quale ella era ibernata. Ma nulla era
valso
davvero. Nulla aveva potuto alleviare le pene di quell’attesa
interminabile.
Né
il sorvegliare il suo viso addormentato,
né la vita militare, né il centro
d’addestramento, né il sangue versato sui
suoi prigionieri, né la morte dei suoi nemici, né
i successi dei suoi
esperimenti...
Neppure
se stesso, che possedeva l’unico
viso al mondo che potesse ricordargli la sua amata gemella. Un volto
che,
mascherato, gli rammentava il calore di avere qualcuno accanto.
Ma
non bastava…non bastava mai nulla…
Nulla
colmava davvero la lontananza di
Alexia.
Alzò
quindi il viso verso lo schermo,
ancora fisso sull’immagine della ragazza bionda ancorata sul
suo trono. La sola
donna da lui tanto agognata.
La
sola donna che poteva amare.
La
sola donna che esisteva ai suoi occhi.
La
sola donna che lo comprendeva.
La
sola donna che lo amava.
Si
alzò quindi in piedi e in posa solenne
giurò ancora una volta sulla fedeltà che avrebbe
avuto verso la sua sovrana,
che mai avrebbe tradito, alla quale aveva donato la sua intera
esistenza.
“Alexia,
tu sei l’unica che può esistere
per me. Tu…sei la mia unica Regina. Alexia… mia
amata Alexia.”
Si
abbandonò in seguito a una fragorosa
risata, che lo costrinse a coprire la sua fronte con una mano.
Un’insana
sensazione pervase la sua
ragione. Una conosciuta e ignota consapevolezza allo stesso tempo. Una
verità che
possedeva, ma non voleva ammettere.
Una
realtà da cui egli stava consapevolmente
scappando: la realtà di star prendendo in giro oramai
persino se stesso.
Perché
quella donna al di là dello schermo… non
era la sua Alexia.
***
Villa
Ashford (luogo sconosciuto) – prime ore del pomeriggio
Giardino
La
ragazza dai capelli biondi sollevò molto
lentamente la delicata tazzina da tè che aveva fra le sue
mani. Essa era bianco
avorio decorata con delle sottilissime rifiniture dal tema floreale,
contornata
dai bordi dorati.
Il
sole batteva forte a quell’ora del
pomeriggio, ma l’ombra dei portici sotto i quali era seduta
per fortuna la
allietava con il suo fresco.
Ella
era seduta su un tavolino circolare
bianco, dalla forma bucherellata. Su di esso vi erano poggiati un
cestino ricco
di deliziosi biscotti in stile british, e la preziosa teiera
appartenente allo
stesso servizio da tè della tazza che aveva in mano.
Il
prato che la circondava era perfettamente
tagliato, poteva sentirne ancora il tenue e dolce profumo albergare
nell’aria.
Attorno al vialetto di pietra che accompagnava i passeggeri da un
angolo
all’altro del giardino, vi era un piccolo condotto
d’acqua artificiale che
richiamava l’immagine di un ruscello. I raggi solari si
riflettevano sul quel
cristallo, creando dei luccichii simili a delle pietre preziose.
Era
un’atmosfera splendidamente piacevole,
rilassata, silenziosa. Una pace intensa, che stava perdurando ai limiti
dell’inquietudine.
Alzò
delicatamente gli occhi oltre il fluido
ramato contenuto nella sua tazza e il suo sguardo cadde inevitabilmente
su
quella costante e unica seconda presenza che negli ultimi giorni
accompagnava i
suoi spenti risvegli. Il ragazzo aristocratico vestito di rosso era
infatti di
nuovo lì, di fronte a lei.
Egli
aveva finito di sorseggiare il suo tè
da un bel po’, così se ne stava semplicemente
seduto a guardarla, con una mano
adagiata sul tavolo, e l’altra che sorreggeva la testa sulle
sue nocche.
Seppure
la bionda non lo guardasse in
faccia, ma tenesse appositamente lo sguardo vago verso la sua tazzina,
avvertiva
la costante sensazione che lui la contemplasse. Sempre, con insistenza,
con
ossessione.
Nonostante
la pacatezza che la circondava e
che sentiva nel suo corpo, era sempre più inquieta. Le
sensazioni
d’inadeguatezza provate il giorno prima erano ancora correnti
e insistenti nel
suo animo. Sperava che quella spiacevole percezione sparisse quanto
prima
illuminandola con una risposta.
In
quell’istante la sua mano tremò inconsapevolmente,
probabilmente perché ancora infiacchita, nonché
distratta da quei pensieri. Il liquido
contenuto nella porcellana oscillò appena oltre i margini,
ma ancora una volta,
prontamente, quell’uomo le sorresse la mano. La ragazza a
quel punto alzò il
viso verso di lui.
L’uomo
fu costretto così a specchiarsi nei
suoi profondi occhi blu oltremare. Un contatto visivo che
durò pochi secondi,
un istante forse, e nel quale la ragazza ebbe il tempo di vedere
addirittura
sgomento, se non paura.
Egli,
infatti, discostò lo sguardo per
qualche motivo, preferendo avvicinarsi verso di lei alzandosi dalla
sedia,
interrompendo quel contatto visivo. Sembrava non sciolto nei suoi
movimenti.
“Forse
sei ancora un po’ stanca, Alexia.
Vuoi dormire ancora un po’?”
Chiese
con una gentilezza che oramai aveva
palesemente dell’anomalo.
Quel
morboso interesse, quella patologica
attenzione che lui aveva verso di lei, quasi come fosse la sua piccola
bambola
preziosa…in contrasto tuttavia col terrore di guardarla.
Era
strano.
Egli
le asciugò lo spigolo della bocca con
la punta di un fazzoletto di stoffa, curando la sua meravigliosa
Alexia, la sua
potente sorella impeccabile.
In
seguito le porse la mano, aiutandola ad
alzarsi. La ragazza, sconcertata, non poté far altro che
allungare anch’ella la
sua mano verso di lui. Il vestito viola scuro ondeggiò
mentre si scostava dalla
sedia. I suoi lunghi guanti bianchi che la coprivano lungo tutte le
braccia si
posarono su quelli anch’essi bianchi di lui.
Il
ragazzo così mise sotto braccio la
fanciulla, ed insieme si incamminarono per il piccolo viale di pietra,
dirigendosi verso il portone principale, pronto a mettere al sicuro la
sua
preziosa bambola nella sua teca di cristallo.
Ignara,
la bionda guardò dritto dinanzi a
se, mentre sempre più dubbi si affollavano nella sua mente.
Sbirciando
ancora una volta verso di lui,
poté scorgere la sua espressione silenziosa ed assorta.
Che
anche lui fosse vittima di qualche
ambiguo complotto come lei, si chiese.
Lo
vide camminare lentamente, rispettoso del
suo passo incerto dovuto all’intorpidimento che non voleva
abbandonarla. Egli
si prendeva seriamente cura di lei.
Allora
perché era così ambiguo il suo
comportamento? Perché aveva paura di guardarla? Cosa stava
nascondendo in
realtà?
Mentre
salirono i pochi gradini che erano ai
piedi del portone di legno massiccio, gli occhi del ragazzo scivolarono
per un
istante verso di lei.
Una
parte di lui era altamente desiderosa di
vederla in viso, ma qualcosa glielo impediva. Qualcosa chiamata
razionalità,
coscienza, che sapeva che non avrebbe mai visto ciò che lui
sperava di vedere.
Ma
oltrepassò ugualmente quella soglia,
incuriosito dalla preziosa donna legata al suo braccio.
Spiò
quindi verso di lei, la quale era in
quel momento voltata in altra direzione. Tuttavia il cieco fato era
sempre
pronto a mostrare con crudeltà l’inganno che lui
voleva raggirare.
Facendo
per aprire il portone, infatti, le
sue attenzioni non andarono sul volto di lei. Quel che si
focalizzò nei suoi
occhi fu altro. Qualcosa cui una persona comune non avrebbe mai dato
grossa
importanza.
Perché
quel che egli scorse di sfuggita, fu
un semplice e quasi invisibile filamento rosso che pendeva sulla spalla
di lei.
Un particolare marginale, ma che inesorabilmente catturò
tutte le sue attenzioni,
depennando tutto ciò che lo circondava in quel momento.
A
quella visione, infatti, lo sguardo
dell’uomo altolocato mutò drasticamente, come se
quell’insignificante dettaglio
avesse rovinato uno splendido quadro.
Nonostante
fosse costantemente intontita,
persino la “così chiamata Alexia”
sbirciò anch’ella in quella direzione, ma lui
la precedette, prendendo quel filo fra le sue mani, staccandolo dal
tessuto del
vestito sul quale era impigliato.
Quel
filo che mascherava la realtà.
Quel
filo che simboleggiava l’inganno
costruito.
Quel
filo che raggirava una solitudine
repressa che l’aveva fatto soccombere alla pazzia.
Quel
filo… che in realtà era un capello. Un
semplice capello rosso.
***
Qual
è esattamente il momento nel quale
sprofondiamo nella follia?
Spesso
non siamo in grado di focalizzare
quell’istante, perché esso si traccia attraverso
un lento percorso… …così lento
che spesso dimentichiamo quando tutto è cominciato
esattamente. O
forse, semplicemente, siamo sempre stati
folli. Sempre ciecamente e inconsapevolmente folli.
Ma
nel nostro mondo anche la follia ha un senso.
Nel mondo che solo noi abitiamo e nel quale soltanto noi sappiamo
trovare le
strade da percorrere.
Se
solo non fossimo lasciati da soli a cercare
quelle strade….
Il
sottofondo di un triste motivetto di un
antico carillon risuonava per le mura di una buia camera da letto,
echeggiando
senza fine, ripetendosi senza sosta, martellando quelle pareti.
L’oscurità
nascondeva i perimetri di quella
stanza, divorando nelle tenebre tutto ciò che la componeva.
La
costruzione di un mondo buio e perfetto,
di una piatta tavola nera in cui non esiste null’altro che il
ricordo dei tempi
che furono. Tutto può essere nascosto dal Nulla. Meglio il
Buio, che la triste
realtà della Luce.
Quel
che in fondo non si vuole mostrare, o
ricordare, può essere facilmente avvolto col manto nero
dell’ombra, ma nulla
può essere occultato del tutto. Perché i contorni
si delineano sempre una volta
abituati ad esso.
Così
l’oscurità poteva nascondere chi era
rifugiato in quella stanza, e chiunque avesse cercato di entrarvi
avrebbe
certamente arrancato a muoversi nel nero più assoluto. Ma
quel che componeva
quella stanza non avrebbe mai potuto sparire.
Tuttavia
questo non era attualmente
importante per lui. Non era suo intento sparire. Quel che gli
interessava era
essere proprio lì, da solo, nelle tenebre più
intense, coccolato dal ricordo di
quando non era solo, di quando era felice.
La
porta d’ingresso era stata chiusa a
chiave dall’interno, sperando di bloccare con essa anche
tutto ciò che era
fuori, che era estraneo a quel ricordo. Essa era stata sigillata con
rabbia,
con disperazione, come per nascondere il suo padrone dal resto del
mondo. Un
mondo crudele, sbagliato. Un mondo che lo aveva solo sfruttato. Un
mondo che
senza la sua Alexia non aveva alcun senso.
Solo
nella sua stanza, il biondo strinse
quel capello rosso che era ancora fra le sue mani. Lo strinse
fortemente in un
pugno di collera che scavò quasi nella sua carne.
Il
luogo che lo circondava venne lentamente
a delinearsi nell’oscurità.
Egli
era seduto sul suo letto a baldacchino,
rivestito dalle lenzuola dall’apparenza molto pregiata. Il
soffitto era
decorato con un affresco angelico che si distingueva a stento per i
suoi colori
vivaci. Posto di fronte a lui vi era un armadio di legno scuro, a
fianco del
quale era posta una specchiera magistralmente rifinita dalle splendide
onde
barocche intagliate nel legno.
Un
angolo dello specchio era riuscito a
inquadrare parte del viso del giovane, mostrandone le labbra marmoree,
le quali
stavano serrando i denti in un ghigno enigmatico per chi lo osservava.
“Claire
Redfield….”
Ringhiò
a denti stretti, maledicendo nella
sua mente quel nome.
Il
nome della donna dai capelli rossi che
aveva osato invadere il suo cammino nel momento più
prezioso.
Il
nome dell’Infima donna che aveva sporcato
l’universo Perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel
loro territorio.
Nel
contorcimento di quei mentecatti
pensieri scaturiti da chi aveva vissuto tutta la sua vita al servizio
di
un’unica e adorata persona, quel capello rosso rappresentava
invece tutto ciò
che era estraneo al suo mondo. Era un piccolo simbolo di altre
verità, ai suoi
occhi spregevoli e indegne delle sue attenzioni.
Tuttavia
esso era gelosamente stretto fra le
sue mani, in una morsa d’odio e di disprezzo, ma che
trapelava un nascosto
disturbo interiore.
Generava
in lui un indefinibile corpo
estraneo, che vagava disturbando i suoi sensi, costringendo il suo
animo a
serrarsi… a serrarsi sempre di più, obbligandolo
ad aggrappandosi a quell’unica
certezza che dava ancora un senso alla sua vita: Alexia.
Perché
più il suo cuore refrigerava in quel
confuso adulterio, scaturito dalla volgare e spregevole
curiosità verso colei
che era l’Altra Donna, più egli si aggrappava a
Lei…. la sua crudele e perfetta
Regina.
Perché
le sue attenzioni potevano
appartenere a una e una sola.
L’altra
donna doveva morire.
Nonostante
ciò, il disdegnato cimelio era
tuttavia ancora ancorato nelle sue mani, stretto come se volesse
distruggerlo.
Stretto come se volesse possederlo.
Non
ebbe il coraggio di disfarsene per la
deviata ragione che voleva reprimere.
Ma
l’oscurità poteva nascondere ogni cosa,
persino i suoi reali pensieri. Lì nessuno
l’avrebbe visto, o lo avrebbe rimproverato.
Quasi
come se fuggisse dalla sua coscienza
grazie alla discrezione del buio, custodì quel capello,
segregandolo in
modalità in realtà velatamente simili alla stessa
donna che egli venerava.
Perché
anche la stessa Alexia era stata
segregata nel suo cuore, rinnegando ogni realtà a lei
dissimile in suo onore e
per sua fedeltà, questo fino a logorate e distruggere se
stesso, costruendo una
realtà in cui lei fosse davvero accanto a lui.
Lo
stesso, in qualche modo, era per quel
rifiutato capello rosso, di cui egli smentiva la sua
identità, ma di cui allo
steso tempo desiderava la sua ignobile conoscenza. Lo
conservò ugualmente, come
fosse uno sporco cimelio prezioso… nascondendolo
egoisticamente in quella
stanza conoscitrice della sua maturata follia e incolmabile solitudine.
***
Sala
della Musica - mattina
Brano:
Studio Op. 10 n. 3 – Fryderyk Chopin
*
Il
componimento echeggiava per il salotto, chiamato Stanza della Musica
perché luogo utilizzato dagli Ashford per dilettarsi
ascoltando composizioni
classiche, meditando sulle loro misteriose e armoniche note fino ad
abbandonarsi completamente ad esse.
Esso
aveva un aspetto ricco e barocco. I colori del legno e del rosso la
facevano da padrona donando a quella stanza un aspetto vivace e
ingombro.
Due
paia di divani dall’aspetto rigonfio erano posti gli uni di
fronte
gli altri, rivestiti di un tessuto a righe bordò e bianco
papiro. Fra essi vi
era un tavolinetto di vetro, ove erano poggiate un paio di statuine di
porcellana. L’ampia e vaporosa tenda rendeva fioca la luce, e
riempiva
l’ambiente di una calorosa accoglienza con la sua imponente e
voluminosa
presenza. I tappeti rivestivano quasi interamente la pavimentazione,
rendendo
quella camera un piccolo gioiello prezioso, ove ovunque ci si voltasse,
ci si
poteva perdere nei suoi secenteschi dettagli.
Ancora
una volta, accomodati insieme nella stessa stanza, vi erano le
medesime figure dai capelli platinati.
Alfred
Ashford e la
“così chiamata Alexia”.
Tuttavia
qualcosa si era spezzato.
Nonostante
la soavità delle note di Chopin
che risuonavano armoniosamente dal grammofono alle sue spalle, il
biondo non
riusciva quasi più a reggere la bambola fittizia che celava
l’Altra Donna sotto
il suo trucco.
Riaffiorata
appena il giorno prima, la sua
presenza era oramai nell’aria. Per quanto l’avrebbe
ignorata, per quanto
l’avrebbe camuffata e nascosta….
l’inganno non avrebbe potuto perdurare.
Perché
Lei non era Alexia Ashford, la sua amata sorella.
L’unica
manifestazione esterna del rifiuto
categorico verso l’accettazione di quella realtà,
era rappresentata
dall’incessante battere del suo piede sul pavimento, che
movimentava tutta la
sua gamba sinistra. Le sue labbra invece erano premute fortemente
contro il
dorso della sua mano.
Dall’altra
parte, di fronte a lui sul
divano, la ragazza chiamata Alexia era assorta, immersa e alienata
nell’ascoltare quella musica. I suoi muscoli erano
intorpiditi, esattamente
come negli altri giorni.
Si
chiedeva perché tale fiacchezza non
avesse mai fine. Era esausta sempre, sempre, sempre…
Oramai
le veniva il voltastomaco per tutta
quell’inerzia. Una straziante e sfiancante
passività che la stava facendo
sprofondare in un turbine di rassegnazione e dimenticanza.
Osservò
il giovane di fronte a lei e sorrise
mentalmente, costatando che oramai il suo esperimento andava
puntualmente a
segno.
Ella
infatti giocava mogiamente a cercare il
suo sguardo, che prontamente rifuggiva. Un atteggiamento insolito e
piuttosto
contraddittorio, perché stranamente alla riverenza che lui
dimostrava nei suoi
riguardi, egli non osava guardarle il viso. Oppure lo faceva molto di
rado, in
modo spesso riservato e occultato.
‘Perché
tale disagio?’, si chiedeva ogni
volta, ma senza trovare la volontà di rispondersi.
Era
davvero stanca… tanto stanca….
Doveva
trovare una soluzione, nonostante non
avesse più alcuna forza in corpo.
Nell’insofferenza
e nell’intorpidimento dei
suoi sensi, aveva capito da tempo che egli le stesse somministrando
qualcosa
per tenerla a bada. Era tutto troppo confuso e annebbiato, e
l’unica cosa che
poteva fare, ora come ora, era muovere a stento le braccia e le mani, o
dondolare la sua testa. Ma dentro se stessa, vibrava forte la
consapevolezza
che doveva liberarsi, che quello era il male, che c’era
qualcosa di
assolutamente sbagliato, che lui non era chi diceva di essere.
Che
lei non era la fantomatica Alexia.
Senza
che se ne accorgesse, Alfred intanto
era tornato a guardarla di nascosto, mentre la sua mente cercava sempre
più di
scappare da quella morbosa paura verso quella giovane donna che non era
chi
bramava in realtà.
La
paura di ammettere quella realtà, di
tornare ad essere solo….
Egli
avrebbe fatto qualsiasi cosa per
soppiantare tutto ciò, così cercava
disperatamente le sue risposte nella figura
di quella ragazza, che osava essere dannatamente bella come la sua
Alexia…
Fece
scorrere il suo sguardo dalla sua
fronte, fino al mento, passando per i suoi occhi rotondi, per il suo
naso a
virgola, per la sua bocca carnosa…
I
suoi occhi si abbuiarono, contorcendosi
nelle sue paranoie e ossessioni incolmabili.
Perché
nella sua mente era logico adorare
solo e soltanto Alexia. E se la donna di fronte a sé era la
sua adorata
sorella, allora poteva felicemente soccombere al peccato di
quell’attrazione,
senza essere ferito dall’ignobile e vergognosa colpa del
peccato.
Avrebbe
così colmato finalmente la sua
insostenibile solitudine dopo quindici anni di sofferta attesa.
Era
una folle e inconcepibile soluzione che
però salvava la sua mente, in realtà
già in balia della pazzia.
Era
forse un peccato quello di costruirsi la
realtà che si preferiva credere?
Alfred
Ashford non se ne sarebbe mai reso
conto, cullato com’era nella consolazione di avere finalmente
Alexia di fronte
a se. Consolato dalla vicinanza di quel meraviglioso volto che aveva
cercato in
tutti i modi di rimpiazzare.
Si
alzò dunque dal divano, e con passo lento
si affiancò alla sua amata. La guardò estasiato,
con la tenerezza negli occhi,
felice di essere al suo cospetto. I suoi occhi quasi si commossero, non
potendo
credere di averla davvero accanto.
Desideroso
del conforto che solo le sue
braccia potevano dargli, egli distese la testa sulle sue ginocchia,
portando le
mani di lei sulla sua nuca, facendosi accarezzare dal suo lento e
delicato
tocco.
Sentì
le sue dita muoversi fra i suoi
capelli ingellati, le quali riuscirono a rasserenare le sue angosce.
Chiuse
le palpebre beandosi di quel momento,
appagato finalmente dopo tanta e disperata emarginazione.
Se
solo Alexia non lo avesse mai lasciato
solo…
Ma
lui non l’avrebbe mai incolpata di nulla.
Per
lei avrebbe fatto volentieri qualsiasi
cosa, perfino sopportare quella tremenda ed estenuante attesa.
Adesso
però che era lì, accanto a lui,
poteva tornare a essere felice.
La
donna dai capelli biondi intanto muoveva
la sua mano sul suo capo, condizionata nell’assecondare i
desideri del suo
strano fratello. Incerta e confusa, stette ancora una volta in silenzio.
Fu
imbarazzante e difficile per lei
interpretare quel gesto, quelle pretese carezze con cui
l’aveva pregata di
cullarlo. Provava una strana morsa al cuore.
Chi
era realmente Alexia per lui? Perché la
temeva e la desiderava tanto?
Dire
che fosse la sorella non era esaustivo…
più di qualcosa le era ancora ignoto.
Sentiva
intanto il capo di lui premere sulle
sue cosce, abbandonandosi sempre di più alle sue ricercate e
amorevoli cure.
Sporgendosi, poteva scorgerne parte del profilo al di la degli zigomi,
e il suo
viso sembrava veramente disteso…come fosse in pace, avrebbe
potuto osare dire.
Come
se non fosse desideroso di null’altro
che di quel piacevole inganno.
Questo
mentre La Tristezza di Chopin
continuava a produrre la sua
armoniosa melodia, che si diffondeva sempre più nella
stanza, irradiandosi nel
silenzio tormentato delle loro menti, concentrati su quella menzogna
che entrambi
internamente sapevano di vivere.
***
NOTE:
*
Lo Studio
Op. 10 n. 3 -
o Étude
Op. 10 n. 3 , conosciuto anche con il titolo apocrifo di Tristesse o Tristezza ,
è una composizione musicale per pianoforte scritta
da Fryderyk
Chopin nel 1832.
(Font.
: Wikipedia)
NdA:
Salve!^^
Grazie
per aver scelto di
leggere il primo capitolo di questa fan fiction, che vedrà
come protagonisti
Claire Redfield e Alfred Ashford. Il contesto in cui ho deciso di
ambientare la
storia è quello di Re: Code Veronica X, leggermente
modificato in modo da creare
un lasso temporale in cui svolgere la narrazione.
Ci
tengo a precisare che farò
riferimento solo e soltanto a
re:cvx! Non terrò minimamente presente Darkside Chronicle.
Faccio tale precisazione
perchè tengo al fatto che il lettore abbia ben presente il
contesto a cui
faccio riferimento in quanto reputo che questi due giochi siano
assolutamente
diversi pur trattando della stessa storia. Vi annoierò ora
con solo qualche
piccola riga introduttiva^^:
Il
mio intento, con questa
storia, è quello di rendere omaggio a un personaggio molto
conosciuto della
saga, ma probabilmente poco approfondito come dovrebbe essere, e che mi
ha profondamente
affascinata ultimamente. Parlo di Alfred Ashford.
Un
ragazzo enigmatico,
visibilmente disturbato, succube di un mondo che l’ha reso
folle. Vittima di
una depressione che l’ha morbosamente attaccato alla figura
della geniale
sorella Alexia.
Ho
scelto questo titolo,
infatti, poiché riassume in pillole il rapporto di Alfred e
Alexia, ove per lui
la bionda è la sola donna al mondo, l’unica donna
della sua vita, l’unica donna
che lo comprende, la donna perfetta, la donna alla quale sacrifica la
sua vita,
la donna che deve proteggere, la donna che può cambiare il
destino… la sua Regina.
In contrasto con questo suo
malato micro universo che ruota attorno ad Alexia, ecco però
che farò
subentrare un altro personaggio: Claire Redfield.
Claire
che invece è solo una
donna. Una donna che non somiglia per nulla alla sua Regina. Eppure osa
essere
dannatamente bella ed attraente, forte e coraggiosa….ma non
può però esistere
un’altra donna per Alfred all’infuori di Alexia.
Sebbene
il pairing insolito,
spero di riuscire a coinvolgervi e a comunicarvi il fascino di Alfred
Ashford,
assieme alla meravigliosa Claire Redfield. Preciso che non
costituirò una
AfredxClaire nel vero senso della parola, ma voglio sicuramente provare
a
stuzzicare e a perseguitare un po’ la mente del biondo.
Se
durante tutta la vicenda
riuscirete a sentire la follia e il tormento che alberga nelle mura del
Castello Ashford, allora sarò riuscita nel mio intento! ^^
Al
momento è tutto! Spero che
la lettura sia stata piacevole! ^^
Rendetemi
partecipe dei
vostri pensieri, mi raccomando. Le recensioni sono il carburante dello
scrittore, e conoscere i vostri pareri mi sosterrà e mi
aiuterà moltissimo alla
costruzione di questa storia! ^o^
Un
ringraziamento speciale va a mia
sorella, la mia sempre prima sostenitrice, che mi ha spinta a
cimentarmi in
questa scrittura; e alla mia amica Astarte90, che mi ha caricato e dato
tanta,
tanta motivazione!! *O*
Grazie
ragazze!!!!! Questa fic è
dedicata a voi!
A
presto,
Fiammah_Grace
Ps:
A proposito! Se voleste
votare Alfred e Alexia nell’elenco dei personaggi che devono
essere aggiunti
alla categoria di Resident Evil, ve ne sarei davvero grata. ^^
|