Sta piovendo
da oltre un mese qui.
Gocce
d’acqua
fredde e pungenti come spilli cadono sul mio viso e dentro me.
Questa notte
il cielo, nero e senza stelle, mi sta suggerendo di confidarmi con lui,
di
aprirmi, di esprimergli tutto quello che sento, smettendo di tenermi
tutto
sepolto nel profondo della parte più nascosta del mio cuore.
Non si può
fingere di stare bene, quando dentro una bestia ci sta dilaniando
dolorosamente.
Questo
rabbioso essere, che con le sue affilate unghie graffia, con i suoi
denti
aguzzi azzanna, urla e si muove disperato, è la tristezza,
che sta
inesorabilmente annientando ogni parte di me.
Sto
camminando avvolta da un misero impermeabile nero, tale solo di nome. I
capelli
mi si appiccicano, pesanti, sul volto e sbatto velocemente le palpebre
imperlate di pioggia e lacrime, evitando di scomporre le braccia,
conserte
all’altezza del mio seno. I pantaloni sono sottili, troppo
sottili, rispetto a
questa temperatura quasi invernale. Sopporto stoicamente il dolore dei
miei
piedi dovuto all’esagerata altezza dei miei tacchi.
Per la strada
sento gli apprezzamenti volgari che gente mai vista mi rivolge.
Imperterrita,
continuo il mio cammino verso una meta inesistente.
Qualcuno, tra
i più socievoli di loro, mi si è avvicinato, mi
ha rivolto qualche domanda, ha provato
a conoscermi oltre il mio aspetto fisico, ma dopo pochi mesi si
è nuovamente allontanato
da me.
Ed io l’ho
lasciato andare.
Non voglio costringere
nessuno a stare
insieme a me se non gli è gradito farlo.
Altri,
invece, coloro i quali interpretano il ruolo dei più
coraggiosi e altruisti, dopo
il tempo passato con me, sia esso stato un giorno, un mese o un anno,
ritengono
di avermi già inquadrato, come si suol dire.
Dio solo sa
quanto sbaglino.
Considerano
veri i sorrisi facili e l’allegria che dipingo sul mio volto
tutte le mattine,
sperando che ogni nuovo giorno sia diverso da quello squallido che
l’ha
preceduto.
Voglio
illudermi di poter piacere a qualcuno.
Prego
affinchè chiunque mi giri intorno mi sia davvero affezionato.
Ne ho abbastanza di
mandar giù bocconi
sempre più amari.
Sono stanca
di affidare il mio cuore malato, ridotto in mille pezzi, fasciato alla
bell’è
meglio in bende grondanti sangue, nelle
mani di medici che lo bistrattano, lo rigirano come più
garba loro e lo
lanciano in bilico su un vecchio tavolo, senza curarsi di raccoglierlo
quando precipita
sul freddo e duro marmo del pavimento del loro candido e tanto prezioso
ospedale.
Ripeto a me
stessa che devo essere forte, che posso farcela anche da sola, che,
prima o
poi, troverò qualcuno il quale mi risolleverà
dall’abisso in cui sto cadendo
senza neanche più la forza di urlare aiuto e con le mani
asciugherà le lacrime
che mi rigano le gote, un tempo paffute.
Muta, sono
due giorni che piango le mie lacrime, rannicchiata sotto le coltri
fredde del
mio letto sfatto. Intorno a me solo buio e qualche ombra a tenermi
compagnia.
Vorrei essere felice.
Solo questo.
Nient’altro.
Ma, probabilmente, non
è il tempo per
questo.
Mi dicono di
guardare e pensare a chi sta peggio di me. Beh, sapete una cosa?
L’ho fatto e,
sebbene mi senta una merda a paragonarmi a loro, anch’io sto
male. Anche io,
come molti di loro non ce la faccio più.
Forse sarebbe
ora che qualcuno mi guardasse con più attenzione e meno
supponenza.
La gente che
mi gira intorno desidera che gli doni sicurezza, sollievo, gioia,
appoggio,
affetto, forza…ma chi di loro ne darà un briciolo
a me?
Io non sono
il cristallo nero, duro e infrangibile, che sembro.
Mi sembra di essere
l’invitata sgradita di un grande ricevimento in cui tutti,
vestiti del loro
abito migliore, discutono fra loro allegramente in gruppi da cui io,
con i miei
jeans sgualciti e la mia maglietta del tutto inelegante, sono tagliata
fuori.
La stanza è
gremita
di gente e vengo spintonata in ogni dove. Non ho la forza di alzare lo
sguardo
dal pavimento su cui poso timidamente i miei piedi nudi e mormoro scuse
a
destra e a manca.
Poi, in un
impeto di coraggio, alzo il capo e tendo la mano, bramando un amico,
qualcuno
fidato che la afferri e mi rialzi dall’angolo in cui mi sono
rintanata, con le
spalle al muro e le ginocchia strette al petto.
Ogni presente
mi guarda con evidente disgusto e sprezzo e dopo una lunga occhiata di
sufficienza, torna a vivere la sua allegra vita.
Senza di me.
Il cuore nel
petto mi batte forte, la testa mi gira. Mi sento sola e abbandonata.
Vedo tutto
vorticarmi velocemente intorno, le loro acute risate di scherno e gli
indici
che mi puntano contro con fare accusatorio.
Serro gli
occhi con tutta la forza che mi è rimasta in corpo, celando
i miei occhi
arrossati, aridi e gonfi, e chiudo a coppa le mani sulle mie orecchie.
Non voglio
sentire. Non voglio vedere.
Mi sento un
albero secco quasi totalmente spoglio.
Ero felice
quando le mie uniche quattro foglie mi tenevano compagnia, ma ora sul
mio ramo
ne è rimasta aggrappata solo una, la speranza.
Le altre, da
sempre state sul punto di staccarsi, si sono affidate al vento, che le
ha
aiutate a volare lontano da me.
Forse,
un’altra primavera arriverà, donandomi nuovi
fugaci e istantanei momenti di
gioia, portando con sé le compagne di una prossima estate,
ma tornerà l’autunno
e, dopo di lui, l’inverno a riportarmele via.
Non voglio
più rendermi conto di quanto mi abbiano lasciato da sola.
Chiedo solo, a
quest’ultima mia foglia, di
stringermi forte, prima di abbandonarmi per sempre anche lei.
Spazio
autrice
Quella che avete appena
letto è una
riflessione sull’ incostante personalità delle
persone. Voglio dire, un attimo
credi di essere felice, circondato da persone che ami e che ti amano,
ma
l’attimo dopo ti ritrovi da solo, ad affrontare gli ostacoli
che la vita ti
pone sul tuo cammino.
Non sempre chi credi ti
sarà per sempre
accanto, si renderà conto di come stai realmente e, non
sempre, sarà disposto a
darti la mano che tu non gli hai mai negato.
Ho pubblicato questa shot
prima nella
sezione “Originali – Introspettivi”, poi
ho notato che poteva andar bene anche
a un personaggio come Pansy Parkinson, che credo possa rispecchiare la
situazione della protagonista di questa mia piccola pazzia.
Grazie per aver letto
questo sfogo scritto
alle quattro di notte e chiedo scusa se non è piaciuto. Un
vostro commentino mi
risolleverebbe il morale, la cui posizione attuale è, a dir
poco, sotto i
tacchi.
Kiss,
Rio
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