Eccomi qua!
Ho battuto la fiacca in questo periodo, ho iniziato tre storie e le ho
mollate tutte per strada, ma alla fine qualcosa ho partorito.
Confesso che è stata dura anche finire questa storia, ma mi
sono fatta violenza e l’ho conclusa, più che altro
perché volevo vedere anch’io come sarebbe finita,
e sapevo che se non provvedevo io non lo avrebbe fatto nessun altro!:DD
Si tratta di un esperimento con un triangolo ed una Sakura un
po’ stronzetta, che mi mancava per completare tutte le gamme
dello spettro e in futuro passare ad altro, magari con qualcosa di meno
ooc.
Poi ovviamente non mancano il romanticismo e i miei soliti
sbrodolamenti emotivi.
Ultimo, non ho messo la parte dal punto di vista di Sasuke, per vari
motivi che vanno da questioni pratiche ad altre più che
altro narrative, e credo che a volte se ne senta la mancanza (o almeno
l’ho sentita io), ma spero che attraverso gli occhi di Sakura
si capisca ugualmente chi è lui.
Ed ora bando alle ciance, mi vergogno un po' a propinarvi sempre esperimenti più o meno imbarazzanti, e perdonatomi per il solito titolo orrendo, per non
parlare del riassunto!
Tra la ragione e il cuore
1.
Rimboccai le lenzuola a mia sorella e le accarezzai lievemente la
fronte: dormiva, e nel sonno sembrava serena, in pace.
Mi sollevai, e una volta giunta alla soglia della stanza guardai ancora
la sagoma rannicchiata sul letto in posizione fetale, poi chiusi la
porta il più silenziosamente possibile.
- Sakura! –
Controllai l’ora e raggiunsi la camera di mia madre
imprecando tra i denti.
Mia madre era a letto, tanto per cambiare, e si portava il dorso della
mano sulla fronte in un atteggiamento petulante che conoscevo fin
troppo bene.
- Parla piano – spiegai frettolosamente.
- Sta ancora male? A me pareva che fosse guarita! –
minimizzò lei – Hai preso la mia
ricetta? –
- Sì, oggi compro la medicina,
c’è l’ultima pastiglia in cucina
–
- Portala qui con una brocca d’acqua…non
so se riuscirò ad alzarmi…oggi sto
così male…fortuna che tua sorella è a
casa, sta meglio oggi, no?! –
Non sopportavo quel tono melodrammatico e piagnucoloso.
Non sopportavo mia madre.
Era un’egoista, e un’egocentrica.
Era anche un’ipocondriaca, e come tutti quelli convinti di
essere ammalati si ammalava davvero, era piena di tagli di operazioni,
cambiava il medico se solo esprimeva qualche dubbio, e probabilmente a
quel punto era davvero invalida, dovevano essere gli effetti
collaterali di tutte quelle medicine, per cui la pensione
d’invalidità se la meritava tutta.
Col senno di poi potevo capire perché mio padre fosse
sparito, una notte di tanti anni prima.
Andai in cucina e ritornai da lei con la medicina e la caraffa piena
d’acqua, le appoggiai sul comodino, vicino al bicchiere vuoto.
- Ora devo andare, non svegliare Moegi, ha ancora bisogno di
riposare –
- Devi proprio andare a scuola oggi, non puoi saltare?
–
- Non posso saltare le lezioni, lo sai –
- Per una volta potresti, non succede
niente…è nuova? – cambiò
argomento improvvisamente attenta, sollevandosi sul gomito, e sapevo
che si riferiva alla leggera camiciola in seta grigia che indossavo -
Dove hai trovato i soldi? –
- E’ un regalo – tagliai corto.
- Vorrei sapere cosa fai per avere tutti questi regali
– mi replicò scettica, prima di riprendere
quell’espressione afflitta che non sopportavo.
In realtà non era un regalo, l’avevo acquistata
con i soldi che racimolavo lavorando in un paio di posti, soldi che
nascondevo in camera per comprarmi i libri che la borsa di studio non
copriva e per le emergenze, ma non si sentivo in colpa, la camicia era
costata pochissimo, ormai ero diventata un’esperta nello
scovare cosucce al mercato dell’usato e avevo abbastanza buon
gusto da riuscire a combinarle in maniera perfetta.
Vintage, mi dissi, non usato, in fondo quella era una camicia di marca,
e in quel modo riuscivo ad avere sempre qualcosa di nuovo, ed
esclusivo, che non aveva nessun altro, e non si trattava di un
capriccio, ne avevo bisogno, perché avevo giurato a me
stessa di tirare fuori me e magari mia sorella da quel buco e non
tornarci mai più: avevo intenzione di diventare ricca, molto
ricca, a qualunque costo.
Per questo frequentavo la scuola più prestigiosa di Konoha,
per questo dovevo essere sempre abbastanza brava da guadagnarmi la
borsa di studio necessaria, e per questo dovevo stare attenta a
frequentare le persone giuste e l’ambiente giusto.
Non che potessi raccontarlo in giro, infatti nessuno sapeva niente di
me in facoltà, e sicuramente non sapevano che vivevo in una
casa popolare, che avevo problemi di denaro, o che i vestiti non
arrivavano da qualche boutique esclusiva, e andava bene così.
__
La prima ora avevo lezione assieme a Ino, che era perfetta: alta,
bionda, ricca e popolare.
Era anche intelligente ed aveva un notevole senso dello humor, a volte
la trovavo inconsapevolmente crudele, spesso superficiale, ma chi non
lo è, e poi era sincera e non aveva paura di niente, due
qualità che apprezzavo molto ed erano difficili da trovare
in giro per il mondo, qualsiasi posto si frequentasse.
Ero affezionata a lei, almeno per quanto mi era permesso dal momento
che non potevo lasciarmi andare completamente, avevo troppe cose da
nascondere.
- Ma come si veste! – mi bisbigliò
all’orecchio.
Eravamo sedute al solito posto nella classe di chimica, che era
incredibilmente noiosa, e la ragazza seduta proprio di fronte a noi era
una di quelle che Ino odiava senza un perché, dal momento
che non le aveva fatto niente.
Non era che approvassi sempre la sua sottile cattiveria e la sua
abilità nell’isolare le persone più
deboli, ma onestamente preferivo essere dalla sua parte, per esperienza
personale so quanto le donne possono diventare perfide tra di loro, e
la solidarietà femminile è una bella parola, ma
priva di agganci con la realtà.
- Eccolo! – esclamò poi Ino, e mi diede
una gomitata.
Stava entrando Kiba Inuzuka, e mentre andava a sedere mi
guardò e sorrise.
- Non capisco perché non siete ancora insieme voi
due –
Mi vennero in mente diversi motivi, tutti piuttosto validi,
ma non dissi niente, non potevo spiegarle che al momento non mi sentivo
pronta a lasciare avvicinare una persona così tanto.
Però era un po’ che ci pensavo, prima o poi avrei
dovuto intrecciare rapporti un po’ più stretti,
era anche nel mio interesse, e forse Ino aveva ragione, forse era ora
di lasciarsi un po’ andare, e Kiba non era male per
cominciare: era carino, simpatico, aperto, proveniva da un buon
ambiente, e soprattutto era un tizio tranquillo, nel senso che non
pensava troppo a quello che gli si diceva, accettava le cose
così come gli venivano dette senza metterle in discussione,
che può sembrare un modo carino per dire che uno
è stupido, ma non lo è, non completamente almeno.
Forse potevo almeno provare ad uscire con lui e vedere come andava, ed
era da un po’che Ino mi chiedeva di uscire con loro.
Più tardi chiamai mia sorella a casa.
- Sakura…
– iniziò lei, e già non mi piaceva quel
tono piagnucoloso che mi ricordava un po’ troppo mia madre.
Ascoltai comunque pazientemente e tentai di rassicurarla.
- Devi cercare di non pensarci più, è
andata, fatta…finita…ed è meglio che
domani torni a scuola – l’avvisai prima di
riagganciare, perché rimanersene chiusa in casa con la loro
madre non era certo salutare per nessuno e probabilmente era
l’ultima cosa di cui sua sorella aveva bisogno.
La prima invece era andarsene da lì, cambiare ambiente,
perché evidentemente frequentava delle pessime compagnie,
come si deduceva dal fatto che era rimasta incinta a quindici anni.
E a pensarci bene, per trovare un lato positivo, avrebbe potuto andarle
molto peggio: avrebbe potuto prendersi una malattia grave, o mettersi
nei guai con la legge, o con la droga, o anche innamorarsi perdutamente
di un pazzo criminale e scappare di casa, mentre almeno a quel problema
avevamo potuto rimediare prima che fosse troppo tardi.
Ero stata io che mi ero informata, che avevo preso
l’appuntamento ed avevo accompagnato mia sorella
all’ospedale, io che l’avevo spinta ad andare
avanti quando aveva manifestato dei dubbi, perché la
conoscevo e sapevo che non era in grado di prendersi nessuna
responsabilità al momento, neppure quella di decidere cosa
fare.
Avevo minimizzato spiegandole che si trattava solo di un embrione, che
non era niente, che studiavo medicina anche se ero solo al primo anno,
e lo sapevo, ma erano solo parole in fondo, e alla fine, in nuce, era
una vita quella che avevamo cancellato, e capivo perfettamente il
dolore di Moegi, ed anche i suoi sensi di colpa.
Per quello avevo cercato di caricarmi io di quel peso, in modo che mia
sorella potesse incolpare me, non se stessa, perché io ero
forte e potevo portarne il peso.
Così le avevo tenuto la mano e le avevo sorriso rassicurante
mentre lei mi fissava con quello sguardo smarrito, incredulo, e colmo
di tristezza.
Uno sguardo che non avrei mai dimenticato.
E intanto quel bastardo che l’aveva messa incinta non si era
posto neppure il problema, lo stronzo.
Non ero ancora riuscita a farmi dire chi era il bastardo e nel dubbio
squadravo con sospetto tutti i ragazzi del quartiere tentando di
scorgervi un segno, un indizio, non che contassi di vederne uno, a
quelli non fregava niente di niente.
Feccia.
E pensare che avevo riempito mia sorella di miliardi di
raccomandazioni, e che personalmente ero sempre stata paranoica proprio
per evitare di trovarmi di fronte a quella scelta, tanto che con il mio
ragazzo, l’ultimo anno del liceo, avevo usato ogni volta il
preservativo, anche quando avevo iniziato a prendere la pillola.
Meglio esagerare che correre rischi, mi ero detta, ma alla fine nella
vita c’è sempre qualche imprevisto che ti frega, e
quella scelta che non avrei mai voluto fare l’avevo dovuta
fare lo stesso, e neppure su me stessa, ed al momento mi pareva un peso
doppio da portare.
Passai il resto della mattina a prendere appunti, e a chiacchierare e
scherzare con i pochi amici che mi ero fatta, e con Kiba, cui forse,
forse, potevo dare una chance, chissà.
Presi la metropolitana alla solita ora e tirai fuori un libro per
evitare che qualcuno attaccasse discorso.
Neppure guardavo chi saliva e si sedeva accanto a me.
Mi interruppi solo per rispondere ad alcuni messaggi al cellulare, e
feci per riprendere a leggere.
- Ciao! –
Ignorai il saluto, di sicuro non si rivolgevano a me, e cercai il punto
della pagina in cui ero arrivata.
- Dico a te! Sei Sakura vero? –
Sollevai appena lo sguardo, seccata, e mi trovai seduti di fronte
Naruto Uzumaki e Sasuke Uchiha, due perdenti che vivevano dalle mie
parti.
Quando ci eravamo trasferite in quel quartiere avevo solo dodici anni,
ma già avevo deciso che quell’ambiente non mi
apparteneva, che meritavo di meglio (si trattava di buon senso, non
presunzione), per cui avevo costretto mia madre ad iscrivermi in una
scuola lontano da lì ed avevo evitato i ragazzi della zona,
ma questo non mi aveva impedito di farmi un’idea (per lo
più negativa) su tutti loro: in fondo, volente o nolente, li
vedevo spesso.
Naruto era un pagliaccio senza futuro e senza cervello, Sasuke era uno
stronzetto arrogante che probabilmente, grazie a tutta quella boria, un
giorno avrebbe fatto una gran brutta fine.
Gentaglia.
Inoltre, come tutti i maschi che abitavano nel quartiere ed erano sotto
i venticinque (mi rifiutavo di prendere in considerazione gente
più grande), erano sospettati di avere messo incinta mia
sorella: Moegi aveva avuto una cotta durata anni per Sasuke, compresa
di pedinamenti e ridicole letterine, e mi parlava sempre con
ammirazione di Naruto, in più facevano parte ambedue di uno
stupido gruppuscolo di rock inascoltabile, e quelle cose attiravano
sempre ragazzine senza cervello qual era mia sorella al momento (si
sperava che crescesse e maturasse).
Li squadrai dall’alto in basso.
Erano vestiti malissimo, il biondo, Naruto, con un’oscena
camicia arancione e blu aperta su una t-shirt bianca,
l’altro, con i capelli nerissimi ancor più
arruffati del suo amico, indossava una maglietta nera senza marca e
scolorita.
Ambedue avevano jeans sdruciti e anfibi allacciati male ai piedi.
E almeno non si vedevano i tatuaggi di cui sapevo erano provvisti.
Mio malgrado soffermai un po’ più lo sguardo su
Sasuke Uchiha, che vedevo ogni venerdì pomeriggio,
purtroppo, dal momento che tra tutti i posti in cui poteva lavorare,
era proprio nello squallido bar di fronte allo studio
dell’estetista in cui lavoravo io. Era piuttosto belloccio,
dovevo concederglielo, glielo avevo sempre concesso, ma quando
incrociai i suoi occhi neri mi affrettai ad abbassare lo sguardo:
quegli occhi erano come due pallottole di pece che trapassavano ogni
barriera, e parevano scavarmi dentro.
- Ma cosa studi? – esclamò
l’idiota, Naruto, che allungava la testa per sbirciare
– sembra difficile! Anche Sas’ke studia sai...solo
perché non ha fede in noi – si era interrotto per
dare una gomitata all’amico – perché io
so che diventeremo ricchi e famosi…e anche presto!
– aggiunse ghignante.
Come no.
- E’ perché studi quella roba difficile
che non esci mai? – insisteva quello – secondo me
ti fa male, dovresti divertirti qualche
volta…perché non esci con noi? Una di queste sere
passo a prenderti se vuoi, so dove abiti, è vicino a casa
mia… –
- Mi dispiace ma non posso, sono impegnata –
risposi, anche se lui non aveva specificato il giorno
–…ora devo finire di leggere la pagina, scusate
– chiusi il discorso.
Feci in tempo ad incrociare lo sguardo intenso del suo amico e feci
finta di non notare il suo odioso sorriso beffardo prima di riprendere
a leggere ed ignorarli apertamente.
- Secondo me studia troppo – sentii parlare Naruto,
che era il tipico discorso da perdente che non avrebbe combinato mai
niente nella vita.
Per un po’ ascoltai ancora vagamente i loro discorsi,
parlavano di qualcuno che doveva vederli, o aiutarli, ma smisi
interamente quando iniziarono a discutere di musica che non seguivo e
non capivo.
Tuttavia dovevo ammettere che la voce di Sasuke Uchiha era piacevole
all’orecchio.
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Devo ancora trovare un nome per la band, ho il vuoto...non
è che qualcuno ha un'idea?
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