“L’aggressività
è
il più grande segno di debolezza che un uomo possa mostrare.
Se si comporta in
modo aggressivo con te, significa che si sente talmente vulnerabile, da
attaccare prima che tu possa anche solo pensare di ferirlo.”
“Sì, mamma”
“Ricordati,
Helaida, che dietro ai comportamenti delle persone si nascondono sempre
i loro
pensieri, i loro sentimenti, la loro esperienza di vita. È
fondamentale tenere
presente questo,
per comprendere
veramente il significato dei loro gesti. Altrimenti giudicherai sempre
male.”
“Papà, me lo
ricorderò.”
“E se il male
genera altro male, perché il bene non dovrebbe produrre del
bene?”
“Non c’è motivo per
cui non
lo faccia.”
Crebbi in compagnia di
queste parole: insegnamenti che, nella mia famiglia, erano supportati
da tanto
fervore e tanta abnegazione da impregnare le pareti dei muri di casa,
il cibo
che mangiavamo e i sentimenti di tutte noi.
Non avevo mai viaggiato né
incontrato persone al di fuori della cerchia più stretta
delle mie conoscenze:
gente mite che rinforzava la visione della vita trasmessami dai miei
genitori.
Non sapevo potesse esistere
qualcuno che, con tutta la sua forza, si imponeva di percorrere una
strada
completamente opposta.
Né sapevo, allora, che le
parole dei miei genitori mi avrebbero salvato la vita.
1
- Helaida... il Granduca ti
ha accettata!
Sollievo e orrore mi
travolsero in egual misura, costringendomi a cercare un sostegno nella
credenza
alle mie spalle.
- Hai origliato, Lana?
- Non ho potuto farne a
meno... ero talmente in ansia!
Non mentiva, lo sapevo: Lana
era la sorella a me più vicina - ci separava solo un anno e
mezzo - e la
maggior parte delle esperienze dei miei diciotto anni di vita
l’avevo vissuta
accanto a lei.
- Dunque è deciso?
- Sì, ma... Hela, quell’uomo
che è venuto a parlare con mamma e papà dice che
dovete partire immediatamente!
- Oggi?
Annuì, con gli occhi chiari
sfumati d’angoscia.
- Non piangere, Lana, lo sai
che è la cosa giusta.
Deglutì e fece un cenno
d’assenso con il capo.
- E poi non ho bisogno di
tempo per prepararmi – aggiunsi – Non ho nulla da
portare con me, se non un
cambio d’abito e un paio di libri.
Se io, che ero la figlia del
barone, mi ritrovavo talmente povera da non avere bagaglio, quanto
più doveva
soffrire la gente delle mie terre?
Mio padre raggiungeva ogni
giorno a cavallo i nostri affittuari, lavorava con loro, divideva
equamente tra
le famiglie i frutti dei campi; ma il Granduca chiedeva sempre di
più ogni mese:
aumentava le tasse, affamava la nostra gente e puniva severamente
chiunque
tentasse di opporsi al suo volere.
Dieci anni fa aveva
acquisito le nostre terre e tutte quelle confinanti quando, alla fine
di una
lunga guerra, il nostro vecchio sovrano aveva dovuto cedere buona parte
dei
suoi possedimenti. Da allora ci eravamo impoveriti, ogni anno sempre
più, fino
ad arrivare a una condizione di tale indigenza da dover assistere
impotenti
alla miseria più completa e devastante della nostra gente.
Il popolo iniziava a morire
di fame. A morire davvero.
- Hela...
Rika mi scrutava dalla
soglia della porta, gli occhi acquosi di lacrime, il mento tremante.
- Mamma e papà ti vogliono
di là.
- Vado.
- Hela... non lasciarti
portare via subito!
Scossi la testa, cercando di
darmi un’aria insofferente – Anche tu hai
origliato? Ma le buone maniere che vi
hanno insegnato con tanta cura dove sono finite?
Il mento le tremò con
maggior violenza e immediatamente accantonai ogni proposito di
rimprovero.
- Oh, Rika, se è necessario
che io parta immediatamente, partirò. Non dobbiamo irritare
il Granduca, sai,
dobbiamo pensare alla nostra gente.
Aveva solo undici anni, ma sapevo
che poteva comprendere: non aveva vissuto alcuna infanzia rosea lei,
era nata
durante la guerra e cresciuta tra privazioni di anno in anno sempre
più acerbe.
La lasciai con un sorriso di
incoraggiamento e mi diressi verso il salone, davanti alla porta chiusa
del
quale, accovacciate e con l’orecchio attento oltre
l’uscio, scorsi altre tre
delle mie sorelle: Alama, tredici anni, Jolanda, nove, e Sophia, sette.
Rowanda
mancava solamente perché, a tre anni, non nutriva ancora
sufficiente cognizione
da comprendere cosa stesse accadendo.
Gettai a tutte quante
occhiatacce di disapprovazione e le allontanai a suon di smorfie,
sistemai il
vestito, raddrizzai le spalle e attraversai la soglia incontro al mio
destino.
- Helaida, avvicinati.
Mio padre indossava il
migliore dei suoi vestiti che, tuttavia, non era scevro di rattoppi sui
gomiti
e lungo gli orli; mia madre invece, meno incline a scorazzare per i
campi, vantava
un aspetto più curato e meno sdrucito.
- Il Granduca ha accettato la
nostra richiesta – proseguì, cercando di
mantenersi calmo quando invece nel suo
sguardo scorgevo tanta eccitazione quanta disperazione –
Abbiamo patteggiato
meno tasse, più cibo, più libertà. Lo
scambio è vantaggioso e risolleverà le
sorti della nostra gente.
Annuii, sforzandomi di
sorridere. Quello che mio padre stava dicendo era che ce
l’avevamo fatta. E che
io ero perduta.
- Questo è il signor Tristan
Arsediel – aggiunse mia madre, portando finalmente la mia
attenzione all’uomo
in piedi di fronte a loro – È stato inviato dal
Granduca a riferirci la notizia
e ti scorterà fino a lui.
Chinai il capo verso l’uomo
in segno di rispettoso saluto, ma lui non ricambiò. Mi
gettò un’unica occhiata
indifferente, sporcata di un’arroganza che mi
indispettì.
Era alto e asciutto, la
pelle scurita dal sole; i capelli folti e scompigliati, neri come la
notte, gli
incorniciavano selvaggiamente il volto. Aveva occhi torbidi: non neri,
mi
accorsi, ma piuttosto fumosi come un falò di legna bagnata.
Non era una persona in grado
di far sentire gli altri a proprio agio, si presentiva in lui un
temperamento
nervoso, quasi violento. La mascella contratta, i muscoli tesi pronti a
scattare,
lo rendevano minaccioso nonostante l’apparente
immobilità.
Non doveva avere più di
trent’anni, probabilmente meno, e tuttavia c’era
qualcosa in lui che lo faceva
sembrare molto più vecchio della sua età. Non
nell’aspetto fisico, no...
Piuttosto nello spirito. Uno spirito invecchiato
all’improvviso.
- Helaida?
La voce di mia madre mi
riscosse da quell’analisi. Avevo fissato
quell’estraneo troppo a lungo e troppo
apertamente, dando modo di apparirgli maleducata. Ma lui sembrava non
aver
neppure notato il mio sguardo.
- Vi ringrazio di essere
venuto – dissi, incerta su come comportarmi in quel frangente
– Quanto tempo mi
date per prepararmi?
Il suo sguardo mi raggiunse
ancora per un solo, brevissimo istante. Sembrava che i suoi occhi non
riuscissero a restare sullo stesso soggetto per più di
qualche secondo.
-
Una mezzora vi sarà
sufficiente – rispose. Il suo tono non ammetteva
possibilità di repliche e così
non replicai. Chinai il capo in cenno d’assenso e uscii.
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