Ehh,
salve a tutte! Storiella corta (ci provo), è da un po' che non
mi cimento con un'originale... fatemi sapere cosa ne pensate. Vai col
cast: Charlie Bewley (su Nashville è niente male
davvero! ^^) per Konstantin, Jane Levy (Suburgatory) per Tris
e Tupac Shakur per Firoze. Buona lettura!
“Sei
dentro per droga?”
“Eh?”
“Ho
detto, sei dentro per droga?”
“Tu
per cosa sei dentro?”
“Per
droga.”
Sbuffo
e tiro su le gambe. I polpacci gridano una protesta sommessa. Lascio
scivolare di nuovo le caviglie in avanti. Il ragazzo mi guarda
dall’alto, dall’ultima sedia di una fila di quattro. Ha i
jeans che finiscono ben sotto le scarpe e il tessuto è
stracciato ai talloni. Una catena metallica penzola dal passante
anteriore e sono certa finisca agganciato al portafogli. Una vecchia
maglietta dei Pantera. Il solito giubbottazzo di pelle liso
sui gomiti e con le tasche sformate. Anche io andavo in giro conciata
così. Poi ho messo ‘la testa a posto’: vesto
sempre male ma ho dipinto i capelli di rosa. “Hanno sbagliato,
stavolta” sbuffo trascinando indietro il ciuffo della fronte.
La mamma mi ucciderà.
Io
non corro, è stancante e fa ballare le tette ma sto
ingrassando e il dottore mi ha prescritto un rigido regime alimentare
e tanta attività fisica. Ho una strana malattia non ben
identificata, ma per loro, finché non vomito sangue è
tutto a posto.
Le
stronze fighette del liceo mi prendono per il culo quando attraverso
i corridoi. Un anno fa, ho piazzato un serramanico senza filo sotto
il naso della più civetta. Volevo solo spaventarla,
(quell’affare non taglia neppure per i fili penzolanti dei
maglioni!) ma la stronzetta ha spifferato tutto al preside e sono
stata sospesa a pochi mesi dagli esami. Ho perso l’anno. Mia
madre non mi ha rivolto la parola per tutta l’estate.
“E
devi startene seduta sul pavimento?”
Il
ragazzo di colore ha il cranio rasato e il pizzetto. Le dita piene di
anelli. Due orecchini al lobo sinistro. Mi fa un cenno col capo e
sospirando mi alzo e traballo fino alla seduta libera accanto alla
sua. “Aspetti il tuo avvocato?”
“Più
o meno...”
Non
sono stato un buon affare nel mercato delle adozioni. Scommetto che
quei due si stanno pentendo di aver scelto la mela più
bacata del mucchio. “Triska.”
“Jon.
Senza h.”
“Ciao,
Jon senza h.”
Ci
stringiamo la mano nel momento esatto in cui il padre adottivo si
affaccia nella stanzetta in cui siamo alloggiati. Noto subito il suo
sguardo cadere sulle mani unite. Vedo altra delusione sul volto.
“Andiamo.”
Giro
il marsupio attorno alla vita e tiro su il cappuccio della felpa. Jon
si infossa ancora più nella sedia. Ci salutiamo con un altro
cenno invisibile. Cammino a testa bassa dietro mio padre, evitando di
lanciare occhiate intorno a me. Entriamo in macchina e lui chiude la
portiera con un gran tonfo. Ora parte la ramanzina.
“Non
siamo più disposti a tollerare le tue stravaganze!”
Stravaganze?!
Stavolta non centro niente! Uno stronzo ha provato a scipparmi l’Ipod
ed io mi sono difesa! “Ho solo applicato alla lettera il corso
di autodifesa che la mamma…”
“Lo
hai ferito e sfregiato.”
E
allora? Se lo merita! Dovrebbero essere fieri che la loro ‘bambina’
sia in grado di cavarsela da sola! Il bastardo ha strappato il filo
delle mie cuffiette, sono priva della paghetta da mesi, non posso
ricomprarle ed isolarmi dal mondo attraverso la musica è
l’unico modo che ho di sopravvivere. Cristo, ho quasi diciotto
anni e sono la pecora nera della scuola! Ingoio la valanga di ovvietà
e alzo il mento. “Ora ci penserà due volte, prima di
aggredire una ragazza.”
“Ha
sporto denuncia, dovrai comparire di fronte al giudice”
mormora, funereo.
Arriviamo
a casa e ancora non mi sono ripresa dalla shock. Se il figlio di
puttana avesse cercato di stuprarmi e gli avessi staccato le palle a
morsi, mi avrebbe accusata di lesioni personali?
“Niente
tv per un mese.”
“Non
la guardo, la tv…” borbotto scendendo dalla macchina. La
mamma sta facendo finta di mettere in ordine la sua agenda. La saluto
a mezza bocca. Non mi risponde. Stringo le labbra e salgo le scale
fino alla mia cameretta, due gradini alla volta. Sento uscire dalla
bocca dell’uomo che ha pagato la mia adozione ‘quei
capelli devono sparire’ e penso ‘che si fotta!’ Sto
già cercando la mia sacca sotto il letto, quando la porta si
spalanca e mio padre mi sorprende in ginocchio e con il braccio
ficcato sotto la reversina della coperta.
“Triska,
hai quasi diciotto anni. Sei un’adulta e la prossima volta che
finirai in galera, verrai processata come un’adulta.”
Li
vedo anche io, quei telefilm. “Beh, meglio per voi, no? Un
pensiero in meno al mattino” soffio crudele afferrando la sacca
e tirandola fuori. Il ceffone che mi arriva non fa più male
del pugno allo stomaco del rapinatore. Solo che questo brucia di più.
***
Ha
detto bene il vecchio. Se l’appello del giudice non viene
fissato prima di due mesi, sarò processata come un’adulta.
Porca puttana. Sfoglio il calendario guardando il cerchio colorato
attorno alla data del mio compleanno. Scommetto che non riceverò
regali, quest’anno. Ho accantonato il solito desiderio ‘mollo
tutto e me ne vado' e rificcato la sacca sotto il letto. Aspetto che
tutti siano andati a dormire ed esco di soppiatto, mollando lo
skateboard a terra solo quando solo molto lontana da casa. Lo so che
tutti mi ridono dietro, quando lo uso, ma i vecchi non ci pensano
proprio a procurarmi un mezzo di locomozione adeguato. So guidare…
più o meno. In teoria so farlo, mi manca la pratica e il
foglio rosa. Arrivo al Old Wild Jack a mezzanotte passata. C’è
un nuovo gruppo metal che suona, stasera. Ci sono i motociclisti con
le pupe da sballo sul sedile posteriore delle moto. C’è
il buttafuori amico che mi lascia passare perché condividiamo
la triste storia dell’orfanotrofio e poi, davanti a me, c’è
il ragazzo più bello che abbia mai visto in vita mia. Dio, ti
prego fa che sia di queste parti e non un fomentato che segue i
gruppi musicali ovunque vadano! Giro attorno ad una colonna pelosa
con il giubbotto di pelle e la scritta Harley
Davidson sulle spalle, saluto le ragazze del bar con una
smorfia e mi avvicino di soppiatto al ragazzo che sta appoggiato al
bancone. Muove la testa su e giù seguendo il ritmo sincopato
imposto dalla band. Quando si accorge di avere il bicchiere vuoto, fa
un cenno a Melanie. Lei mi guarda e alza le sopracciglia e gli angoli
della bocca. Pensa la stessa cosa che penso io: carino da morire!
“Sono
bravi, eh?”
Lui
mi lancia un’occhiata distratta e annuisce, allontanandosi e
portando via il bicchiere. Melanie mi guarda. Alzo le spalle ma il
rifiuto un po’ mi ferisce. A nessuno piace la stramboide grassa
con i capelli rosa.
“Dai,
non sei grassa...”
“No,
eh?”
“Sei…
in via di definizione!”
Melanie
è una bionda naturale con il faccino a cuore. Potrebbe avere
chiunque, ma sta con Derek da sei anni e sembra proprio felice. Dice
che le cose migliorano, crescendo. Lei ha venticinque anni e il
fisico di un’acciuga sotto sale. Scommetto che i suoi non le
hanno mai detto che è ‘un’enorme delusione’.
Io mi guardo allo specchio e vedo una triste ragazzina. Di bello ho
solo gli occhi, una via di mezzo fra il blu e il viola. Guardo le
mani di Melanie, perfette, lunghe, le unghie smaltate di nero. Guardo
le mie: un disastro di pellicine strappate e croste insanguinate.
Stringo i pugni e poggio i gomiti sul bancone, dondolando un po’
avanti. Poi, con un giravolta forzatamente disinvolta, mi rimetto a
guardare lo show. Scrocco una birra gratis e ascolto la musica dal
mio angoletto, il piede che muove lo skateboard piano piano. Quando
finisce la scaletta, la band si fionda al bar per una gran bevuta. Mi
sento di troppo, ingombrante e completamente fuori posto. Raccolgo il
mio futuristico mezzo di locomozione e cerco di farmi spazio fra la
folla senza farmi notare dal boss. Se mi becca con la birra in mano…
“A-ah!”
Merda!
Mi arresto appena sento la felpa tirare sulla schiena. “Ciao,
capo…”
“Non
ti avevo detto di squagliarti, ragazzina?”
L’Old
Wild Jack è di proprietà di Jack Tredenti. Non che
abbia davvero tre denti, ma gli piace farsi chiamare così.
Saltello indietro fino ad arrivare faccia a faccia con lui. L’ultima
volta, il fiato puzzava di tabacco. Noto che è insopportabile
anche stavolta. Quell’uomo non deve tenere particolarmente
all’igiene personale. Mi strappa la birra di mano e mi lascia
andare. Jack Tredenti è alto poco più di un metro e
sessantotto centimetri ma si crede un gigante. Gloria e onore ad un
uomo così sicuro di se.
“Fila,
topetta.”
C’è
andato gentile, stavolta. Melanie dice che posso tornare quando
voglio, che Jack ha piacere di vedermi perché quando sono al
locale, ha la certezza che mi sto tenendo lontano dai guai. Peccato
che nell’ultimo anno, mi abbiano raggiunto ovunque andassi.
***
La
mattina dopo mi guardo alla specchio e mi scopro stufa della
capigliatura rosa. Esco di casa dicendo di andare a scuola, invece
rubo un flacone di tinta scura al supermercato e mi rinchiudo a casa
di Fin. La madre fa la parrucchiera, perciò è pratica
di quella roba. Finnicella mi batte di tre lunghezze: i suoi capelli
sono un arcobaleno di viola, blu e rosso sapientemente armonizzati.
Ha la pretesa di studiare stregoneria, perciò sta sempre su
Internet a cercare incantesimi magici. Tutto quel che riesce a fare,
è sprecare una gran quantità di candele.
“Mi
piacevi di più a colori” decreta dopo avermi lavato la
tinta dalla testa. Mentre lo faceva, guardavo i rivoli scuri che
colavano nella vasca da bagno, raggiungendo lo scarico e perdendosi
nel buco nero. E se quella roba arriva il mare e avvelena tutti i
pesci? Quanto torno a casa, la mamma mi ferma a guardarmi sul
pianerottolo. Sì, mi hanno anche sequestrato le chiavi di
casa. E’ arrabbiata perché è stata avvertita
dalla scuola che ho marinato. Ma tanto, ormai…
“Avresti
potuto dirmelo” mormora lasciandomi passare. “Ti avrei
fissato un appuntamento nel salone di Sabine.”
“Mi
detesta. Dice che spavento le clienti” borbotto lasciando
scivolare dalla spalla lo zaino con i libri. “Lo dirai a papà?”
“Non
glielo dirò ma voglio che getti quei jeans.”
Mai!
Sono gli unici che mi entrino e che mi facciano sentire un minimo
carina. Il mio silenzio si protrae.
“Facciamo
un patto. Io non ti dico come comportarti e come vestire… e tu
righi dritto due mesi, fai la tua scenetta di fronte al giudice e
concludi l’anno senza complicazioni.”
Più
facile a dirsi che a farsi. Annuisco, un po’ colpevole. La
mamma mi porge la mano, come fanno gli adulti nei telefilm. Esito,
poi gliela stringo.
“Ora
fa i compiti. Si cena fra un’ora.”
***
Due
mesi dopo, sono agghindata di tutto punto, ho il musetto della brava
ragazza accusata ingiustamente e, miracolo dei miracoli, la sfiga non
si è accanita su di me. Niente incidenti fuori e dentro
scuola, niente aggressioni in palestra, neppure una parola scortese
nei miei confronti. Sembra che tutta la città sia coalizzata
per darmi una mano. Però ci credo poco nei lunghi periodi di
serenità. Ho imparato che la tranvata arriva tutta insieme e
quando meno te l’aspetti. Tre giorni dopo, festeggio il mio
diciottesimo compleanno. La mamma prepara la torta (dietetica, sono
dimagrita quasi quattro chili), Fin porta i palloncini e il mio
skateboard viene rimpiazzato da una coupè usata. Papà
mi mette seduta e sciorina il discorsetto sulla responsabilità,
ma io vedo solo il mostro rosso parcheggiato nel vialetto e sento
prudere le mani. Parla di lezioni di guida e foglio rosa ed io non ho
il coraggio di dirgli che già so guidare grazie a Melanie.
Farebbe troppe domande, perciò mi limito ad annuire e a
promettere che seguirò diligentemente le lezioni. La sera in
cui succede il patatrac, i miei sono fuori per il lutto improvviso di
una parente lontana. Finnicella mi chiama sul cellulare (ho anche il
cellulare, ora!) e legge il flyer che ha trovato in bacheca a scuola.
Il party è in un locale della città confinante.
Possiamo andarci in macchina e dividere la benzina. Che ne pensi? Eh,
Tris?
“E’
una cattiva idea” rispondo a mezza bocca, coprendo un po’
il microfono. “Ok… ti passo a prendere alle sette…”
“Ok!”
urla e riaggancia e un brutto brivido mi corre giù per la
schiena. Hanno detto che finché non vomito sangue va tutto
bene. Ma che devo fare per la vista annebbiata e il resto? Misuro la
febbre, ho una lieve alterazione. Forse è il ciclo. I ritardi
sono diventati anticipi sconcertanti e sono così abbondanti da
togliermi le forze e persino il colorito. Sta a vedere che mi
trasformo in una non-morta a un momento all’altro…
***
“No,
sei fresca.”
Eppure
ho il batticuore, le mani sudate e tremo dalla testa ai piedi. Sta
peggiorando, non avrei mai dovuto uscire di casa. Il guaio è
che Fin non sa guidare e se mi fermano in queste condizioni, mi
ritirano a vita la patente che ancora non ho preso. Il party si è
rivelato un mezzo disastro. Persino la birra era scadente.
“Ce
la fai?”
“Più
o meno...”
Tremo
come una pazza, neppure fossi rinchiusa in una cella frigorifera.
Urto un tipo che sta defilandosi dal locale come noi ma non ho la
forza di scusarmi. Continuo a guardare il terreno, perché le
persone si muovono troppo in fretta per i miei sensi alterati. Fin mi
prende per le spalle. Brava, stavo per finire lunga distesa…
“Che
la tua amica? E’ drogata?”
Le
canne non sono davvero droga. Alzo la testa e mi accorgo che non è
Fin a sostenermi ma un ragazzo che non conosco. Carino. Al di fuori
della mia portata. Sento Finnicella risponde al posto mio.
“Tu
hai visto droghe girare a questa festa?”
Il
ragazzo mugola un ‘magari’. Mi concentro a fissare la sua
maglietta. “Ho una malattia del sangue…”
“AIDS?”
“No…
è genetica…”
Sento
il mento sollevarsi – troppo in fretta, mi viene la nausea! –
e intravedo due occhioni azzurri che mi scrutano incerti. Ti conosco,
ti ho visto… ti ho visto, sì…
L’ondata
sale di colpo e faccio appena in tempo a scansarlo. Mi piego e vomito
pure l’anima. Non ho bevuto un goccio, ne mangiato alcunché,
ma il colore non lascia dubbi. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e
balbetto un ‘merda’ con le labbra sporche di sangue.
Credevo scherzassero. Credevo fosse un modo di dire! “Fin…”
“Ti
prendo dell’acqua… occazzo, Tris!!”
“Cellulare…
tasto tre… Chiama il dottore…”
*^*^*
La
prima volta che l'aveva visto, aveva avuto sedici anni.
Era
successo al centro commerciale, mentre ciondolava fra le scansie poco
illuminate del reparto vinile di un negozio di musica. Triska
ricordava di averlo notato nel reparto gothic metal. Era
carino e il suo sguardo aveva vagato un po' troppo sui capelli
castani chiari fino alla barbetta folta sul mento. Il ragazzo le
aveva strizzato l'occhio, fatto la linguaccia ed era svanito in un
battito di ciglia.
L'anno
dopo si stava rifornendo – non proprio legalmente – di
braccialetti e orecchini, quando l'aveva visto, fermo sul marciapiede
al di là della vetrina del negozietto. Due fossette si erano
formate sulle guance quando aveva sorriso, disarmandola. Non era uno
di quei sorrisi che ti fa innamorare, no. Era simpatico,
accattivante. Sexy. Triska non era riuscita a fermarlo neppure quella
volta.
A
diciotto anni e un giorno, Tris l'aveva sognato: il ragazzo
l'attendeva seduto sui gradini della villetta. Aveva fatto amicizia
con Pato, il cane scemo della mamma. Triska si era bloccata in mezzo
al vialetto, l'ospite si era alzato, strofinando una mano sul
fondoschiena per ripulire i jeans dall'eventuale sporcizia. Cosa rara
e del tutto improbabile. Sua madre tirava la casa così a
lucido che si poteva quasi mangiare sui pavimenti!
“Ti
ricordi di me?”
La
sua voce era gentile, chiara. Tris aveva sentito un nodo sciogliersi
ed era finalmente riuscita a sorridergli.
“Mi
aiuterai?”
A
fare che?
“Solo
una volta.”
Il
ragazzo l’aveva baciata, ma come succede sempre nei sogni, Tris
non aveva provato niente. Solo una nostalgia infinita al risveglio.
*^*^*
“Come
ti senti?”
Schifosamente.
Mi fa male il braccio dove è conficcato l’ago della
flebo, gli occhi - sebbene mi abbiano assicurato che le luci sono
ridotte al minimo - e la gola sta bruciando. Tutto il mio corpo
sembra andare a fuoco. Tranne i piedi. Quelli sono freddissimi. “Sto
morendo?”
“Ti
abbiamo fatto una trasfusione di sangue e ti stiamo reidratando.”
“Sto
morendo, sì o no?”
“Sei
stabile.”
“Non
è una risposta…”
“Non
ho la risposta, Tris.”
Allora
dirlo, diamine.
“Abbiamo
avvertito i tuoi genitori, stanno tornando a casa. Puoi vedere i tuoi
amici, ma solo per cinque minuti”
Amici?
Il
dottore lascia la porta aperta e appena Finnicella mette dentro la
testa, sento gli occhi riempirsi di lacrime. L’imbarazzo cresce
quando noto il ragazzo dagli occhi azzurri fermo sulla soglia. E’
serio. Forse non gli piacciono gli ospedali.
“Konstantin
ci ha portate all’ospedale.”
“Grazie…”
mormoro con la voce che gratta la gola. “Mi prendi un po’
di acqua?”
Il
ragazzo si scansa da un lato quando Fin vola in corridoio in cerca di
una brocca di acqua. Infila le mani in tasca e avanza cauto verso il
letto. “E’ sempre così?”
“E’
la prima volta” sussurro cercando di immaginare il mio aspetto.
Non sono una gran bellezza, ma ora devo essere proprio orribile.
Sento le guance appiccicose di lacrime, di conseguenza anche il
mascara deve essere andato. Il ragazzo sorride all’improvviso e
due fossette gli scavano le guance. “Sei bellissima, non
angustiarti.”
Ma
come parla? E come fa a sapere a cosa stavo pensando? “Sei
straniero?”
“Di
origini slave, ma vivo in questo paese da molti anni.”
Quanti
ne avrà? Neppure venticinque, penso analizzando ogni
centimetro di pelle.
“Stai
sudando.”
“Sono
i piedi freddi ad uccidermi…”
Konstantin
siede ai piedi del letto ed infila le mani sotto la coperta. Sgrano
gli occhi. Ma che fa?! Sto per protestare quando le sue mani bollenti
strusciando i dorsi del piedi in modo alternato e accurato. E’
la cosa più assurda e imbarazzante che mi sia mai capitata!
Vuoi vedere che è un feticista… ma Fin quando torna?!
“Ehm… non c’è bisogno…”
“Ti
infastidisce?”
Sì,
cazzo! Mi imbarazza e mi fa sentire…
Konstantin
mi guarda, bloccando il movimento. Le sue mani sulle caviglie fanno
pulsare le vene fino… oh, merda! Arrossisco, nervosa.
“Mi
aiuterai, Tris?”
Mi
aiuterai?
Una
valanga di immagini mi sommerge: C’è sempre stato un
uomo biondo accanto a me. Fin da quando ho memoria, ricordo il suo
sorriso, lo sguardo chiaro, le fossette…
Chiudo
gli occhi quando le sue labbra toccano le mie. Esalo un gemito
sorpreso e le sue mani si infilano fra i miei capelli, bloccandomi la
testa. Resto immobile, completamente annientata dal gesto e dalla
sorpresa. Al primo bacio se ne aggiunge un altro, più lento e
morbido. Il primo è stato di prova. Ha captato la mia
disponibilità ed ora sta esplorando il territorio. Il suo
odore è fantastico e porta alla mente altri ricordi. Quando la
punta della lingua tocca la mia, la scarica arriva ovunque. Ho già
baciato un ragazzo – a quindici anni, al campeggio, per
penitenza – ma non era stato così. Me lo godo per un
po’, cerco di ricambiarlo ma non sono certa di farlo bene, le
sue labbra abbandonano le mie, si spostano piano piano sul collo e
poi risalgono il mento. “Solo una volta…” sussurra
vicino al mio orecchio.
Ok,
è decisamente troppo. Non riesco a respirare e neppure a
muovermi. Reagisco solo quando mi tocca il seno. Gli blocco il polso
e guardo la sua mano, stretta attorno al seno sinistro. Fammela
imprimere nella testa perché non succederà mai più.
“Smettila” gorgoglio con la gola chiusa e un bel po’
impaurita. Ma dove sta prendendo l’acqua, Fin? In Siberia?! “Tu
non puoi pretendere… io non ho… non sono…”
Konstantin
gira il polso, intrappola il mio e lo spinge sul cuscino. Sorride.
Cazzo… mi trema tutto, persino lo scheletro.
“Non
c’è fretta” sussurra a pochi centimetri dalle mie
labbra.
“Tris?”
Trasalgo
e mi aggrappo al materasso. Fin?!
“Ti
eri imbambolata.”
Mi
guardo attorno, stordita. “Dov’è andato?!”
“Chi?”
“Konstantin”
sussurro e i ricordi mi piombano di nuovo addosso. “Il ragazzo
che ci ha portato qui…”
“L’ambulanza
ti ha portato qui. Lui si è limitato a chiamarla dal tuo
cellulare.”
Cosa?!
La guardo, sempre più spaventata. Non posso essermi sognata
tutto, non è possibile! Sento ancora il suo odore nel naso e
le mani che massaggiano i piedi!
“Hai
freddo? Prendo un’altra coperta?”
Non
ho freddo. Sto andando a fuoco. “Dov’è il mio
cellulare?”
Fin
si guarda attorno come una spia cospiratrice e me lo passa di
soppiatto. “Non vorrai far saltare qualche peacemaker, vero?”
No
no, penso scorrendo le ultime chiamate. Il 911. La mamma subito dopo.
Apro la rubrica pigiando la K. Eccolo lì. Konstantin. L’uomo
biondo che ha disincastrato la palla dai rami del sicomoro quando
avevo sei anni. Che mi ha insegnato ad andare dritta in bicicletta a
sette. Che portava il pane per le trote dello stagno, a otto. Sono
cambiati i vestiti, il taglio di capelli… lui è sempre
rimasto lo stesso. Non è possibile!
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