Note
dell'Autrice: Questa
storia
riposava nei meandri del mio hard-disk da un po' troppo tempo. Non
è
una storia di particolari pretese, dico sul serio. Forse è
una
storia piena di errori storici e castronerie fuori misura di cui mi
scuso in anticipo, ma avevo iniziato a scriverla poco dopo il
terremoto in Emilia e non avevo più voglia di guardarla
prendere la
polvere. La storia che ho cercato di raccontare non è una vera
storia – nel senso che nessuno mi ha mai raccontato che
qualcosa
del genere sia davvero accaduto. È accaduto di simile,
quello sì,
ma non questo.
Un'annotazione
un pelo più tecnica: non so parlare il fiorentino, quindi mi
scuso
per il tentativo (e ringrazio Emme per l'aiuto). E tutta la storia
è... è un po'
provincialotta
per mia scelta. Volevo fare un esperimento.
(:
*
A
nessuno in particolare,
perché
le storie di paese sono per tutti,
non
per qualcuno e basta.
Né
la nebbia né la paura
Mi
chiamo Samuele e ho otto anni.
Quest'anno
è venuto il terremoto. Io non lo sapevo cos'è era
il terremoto, ma
poi il mio papà me l'ha spiegato. È una cosa che
fa la terra quando
s'arrabbia, e poi inizia a scuotere e ti butta giù tutte le
cose che
tieni in casa, e tu devi correre forte forte, sennò ti cade
tutto
addosso.
Il
mio amico Francesco ha detto che può cadere anche il tetto e
se non
sei svelto ti casca addosso e muori, ma io non ci credo mica che la
mia casa viene giù e muoio. Quando è venuto il
terremoto, e io non
sapevo cos'era perché ero ancora piccolo e andavo in seconda
elementare, il mio papà s'era messo a urlare e mi ha tirato
giù dal
letto e siamo corsi veloci veloci fuori, e c'era la mamma che urlava
più di papà e la mia sorellina, che si chiama
Ilaria ed è molto
piccolina, le piangeva in braccio. Io pensavo che voleva il ciuccio,
ma il ciuccio non c'era.
Il
terremoto faceva molto rumore, come quando passa il treno e il nonno
mi porta a vederlo alla stazione. Lui faceva il ferroviere quando non
era ancora il mio nonno, e dice che il treno è sempre bello.
A me
piace il treno, ma il terremoto non mi è piaciuto,
perché si
muoveva tutto e non c'era più la luce, e a me il buio non
piace,
anche se la mamma dice che sono grande e il buio non fa niente,
perché è solo buio.
Però
lì al buio urlavano tutti, e a me non è piaciuto,
perché ho preso
paura e mi sono messo a urlare anche io, ma non lo dico ai miei amici
perché non voglio che mi prendono in giro. C'erano le cose
che
venivano giù, e papà mi teneva stretto stretto
mentre scendevamo
dalle scale, e la mamma gli diceva che non vedeva e che se cadeva
c'era Ilaria in braccio, e lei è piccola e si fa male.
Io
mi sa che piangevo, e a un certo punto stavo cadendo, ma c'era
papà
che mi ha tenuto in piedi e siamo andati fuori, ma c'era buio anche
fuori e io sentivo la gente che urlava e Ilaria piangeva, e mi sa che
piangeva pure la mamma, ma non lo so, perché non ci vedevo
niente.
Papà
non piangeva, però mi stringeva la mano fortissimo
fortissimo.
Il
nonno è uscito con la luce dell'emergenza, quella che tiene
sempre
nel cassetto quando non c'è corrente, e c'era la nonna con
la
vestaglia che è andata subito dalla mamma. Diceva che era il
terremoto, e io non sapevo cos'era il terremoto, ma adesso so che mi
sta antipatico perché ci ha fatto piangere tutti.
Poi
il mio papà ha detto che dovevamo andare in piazza,
perché in
piazza non c'erano cose che ti cadevano addosso, ma io gliel'ho detto
che avevo paura e non ci volevo andare, e lui ha detto che era
già
finito. Allora sono andato anch'io, perché il mio
papà queste cose
le sa, solo che non era mica finito davvero. La nonna ha detto che il
terremoto ha fatto il furbo ed è venuto due volte, solo che
eravamo
già fuori e c'era la signora Angelina con noi, ma parlava in
fretta
e aveva Oscar che abbaiava.
Io
ho avuto paura lo stesso.
In
piazza c'era la luce e tanta gente, solo che poi ho visto che non
c'era più il nostro castello, e c'era tutta la piazza piena
di
polvere.
A
me piaceva il castello. Aveva l'orologio, ma poi è caduto
sotto le
pietre e adesso non ce l'abbiamo più. Siamo rimasti fuori
fino a
quando è venuto il sole, e io non ero mai stato fuori quando
arrivava il sole, e quello mi è piaciuto, perché
io non lo sapevo
che veniva su piano piano. Ci siamo seduti sul marciapiede e abbiamo
aspettato tanto ma proprio tanto, e la gente veniva, veniva e veniva,
e secondo me non ci capiva molto nessuno di tutta quelle gente che
veniva.
Io
avevo ancora paura che tornava il terremoto e la nonna ha detto che
conosceva un altro bambino che diceva di non avere paura, ma alla
fine ce l'aveva e ha stretto i denti fin quando non gli è
passata.
La
nonna dice che è meglio avere paura ogni tanto che non
averne mai,
ma io non lo conoscevo, questo bambino, così mi ha
raccontato la sua
storia.
Si
chiamava Umberto.
*
Umberto
aveva otto anni. Era nato nel '36 e sapeva far bene di conto
perché
era figlio di bottegai, quindi sulla sua età non sbagliava
mica: ne
aveva già otto, di anni, e ne avrebbe fatti nove di
lì a un paio di
mesi, il giorno di San Michele Arcangelo. Aveva le gambe secche e
lunghe come le spighe di grano e il naso aquilino di suo zio Quinto,
che era quarto di sette figli e non si capiva per quale motivo
l'avessero chiamato Quinto. Umberto si era convinto che sua nonna, a
differenza di lui, non fosse per niente brava a far di conto e avesse
sbagliato a contare i figli.
In
realtà, lo zio Quarto se l'era preso il fiume quando non
aveva
nemmeno sei anni. Era stato tirato a fondo da un mulinello mentre
sguazzava un po' troppo distante dalle sponde e non lo avevano
ripescato che a sera inoltrata. Quando Umberto andava al fiume con i
suoi fratelli più piccoli, suo padre gli raccontava di aver
visto un
bambino andare giù, un sacco di tempo prima che
venissi al mondo
te, ma non gli
aveva mai detto
che quel poverino fosse lo zio Quarto che la nonna s'era scordata di
contare.
Quel
lunedì di aprile faceva uno di quei freddi che avrebbe
piegato le
zampe di un toro, ma suo padre diceva che la gente della piazza
doveva mangiare anche col freddo, soprattutto
col freddo, e le uova dal signor Vittorio andavano prese e portate in
bottega prima delle otto.
Nonostante
il clima e la nebbia mattutina, Umberto era felice che fosse
lunedì,
così Franco avrebbe potuto accompagnarlo. Suo padre faceva
il
barbiere, e lo sapevano tutti che i barbieri al lunedì
tenevano la
serranda abbassata. Una volta aveva domandato a Franco
perché il
lunedì e non il giovedì o il sabato, e l'amico si
era limitato a
scrollare vagamente le spalle.
«Non
so mica» gli aveva risposto. «E sì che
crescono pure di lunedì,
di questo son proprio certo».
Franco
aveva la sua stessa età, ma la punta dei suoi capelli
stopposi
sfiorava appena il mento di Umberto. Era piccolo e tozzo, con le
gambe corte e rotondette e un sacco di acciacchi sparsi per il corpo.
Aveva l'asma, aveva la bronchite, aveva male alle articolazioni... a
sentir sua madre, pareva avesse avuto perfino la peste. E a forza di
sentirla, in effetti, se ne era convinto perfino lui.
La
vecchia bicicletta del padre di Umberto era talmente alta che
arrivava al pelo ai pedali. Se avesse dovuto pedalare Franco, non si
sarebbero nemmeno mossi dalla bottega: l'amico, invece, si
arrampicava sul sellino di cuoio e teneva il sedere indietro, in modo
che di tanto in tanto Umberto potesse accomodarsi sulla punta. Era
una fatica boia, e non lo avrebbe mai negato, ma pur di avere
compagnia per il tragitto Umberto sudava volentieri.
Quel
giorno, con quel freddo che avrebbe ammazzato i tori e pure i figli
di barbieri e bottegai, Franco era uscito di casa tutto avvolto nelle
lane di sue nonne da sembrare un pupazzo. Umberto aveva solo le
braghe corte con i calzettoni tirati su, perché sua madre
diceva che
cresceva troppo in fretta e non si faceva mai in tempo a comprargli
roba nuova.
«Ma
sei scemo?» aveva detto a Franco.
«C'è freddo, ma non siamo
mica a Natale».
Mentre
si aggrappava al cannone della bicicletta e si issava sul sellino,
Franco boccheggiò in risposta che c'aveva l'asma, la
bronchite, il
male alle articolazioni e la peste. Umberto aveva riso e aveva dato
una forte prima pedalata. Le mani paffute di Franco si erano strette
ai suoi fianchi magri, e la gigantesca bicicletta aveva iniziato a
sfrecciare lungo le vie del paese.
La
fattoria di Vittorio stava a soli quattro chilometri – e con
quella
nebbia sarebbero potuti essere perfino due, uno, cento metri...
sarebbero stati comunque troppi. Il cestello di vimini attaccato al
manubrio sobbalzava a ogni buca della strada, e quando si avviarono
verso la campagna sterrata, Umberto temette di vederselo saltar in
terra di colpo.
«Senti,
Berto...» gli disse d'un tratto Franco. «Ma te non
c'hai paura?».
«Di
che?».
«Eh,
mia mamma ha detto che hanno visto i tedeschi di là dal
fiume. Han
detto che stanno lì, adesso, e che facciamo se li
becchiamo?».
Umberto
rimase zitto. Anche i suoi genitori parlottavano spesso di questo o
quel tizio che aveva visto i tedeschi, ma era sempre gente che li
aveva solo visti, e chissà dove, poi, e si era detto che
finché li
avesse solo visti gente che
non conosceva non ci sarebbero stati problemi.
Lui
non ne aveva mai visto uno. Aveva visto i fascisti, quelli
sì, e
qualche anno prima venivano pure a prendersi da mangiare da suo
padre, ma erano sempre stati gentili e non era mai successo niente.
Suo padre si era fatto la tessera, e pure il padre di Franco. Non
avevano mica fatto come quel matto di Giovanni che faceva il postino,
che s'era rifiutato e ne aveva prese di santa ragione. L'aveva fatta
anche lui, alla fine, e Umberto aveva sentito suo padre dire a sua
madre che tanto valeva iscriversi subito al Partito. Non aveva voglia
di prendersi le botte, lui.
«A
me i fascisti non hanno mai fatto niente».
«Ma
hanno detto che i tedeschi non sono fascisti. Dicono che urlano
sempre, sai? È colpa della loro lingua».
«Non
può essere una lingua che urla» lo contraddisse
Umberto. «Se
urlano, è perché gli va di urlare, mica
perché parlano solo
urlando».
«E
come fai a saperlo, te?».
«Ne
ho visto uno» mentì d'istinto. «Un sacco
di tempo fa. Non urlava e
non faceva paura. Era come un fascista, solo... più
tedesco».
«Non
è vero che l'hai visto».
«Ti
dico di sì. E non faceva paura, quindi smettila di chiedermi
se c'ho
paura pure io, perché tanto non ce l'ho. E poi, se anche
incontriamo
i tedeschi, che ci fanno? Prendono solo gli ebrei, e noi non siamo
mica ebrei. Te sei forse ebreo? Non mi pare».
«Dario
era ebreo».
Umberto
fece una smorfia irritata. Dario faceva Asti, di cognome, e si diceva
che i cognomi di città portavano sfortuna. Non sapeva
nemmeno dove
fosse, Asti, perché in geografia aveva sempre preso dei
brutti voti,
ma gli bastava tenere a mente che portava sfortuna. A Dario aveva
portato un sacco di sfortuna. Dicevano che erano venuti a prenderli
di notte, ma lo dicevano tutti molto piano, e dopo pochi giorni della
famiglia di Dario non volle parlare più nessuno. Era
simpatico,
Dario, ed era il più bravo della loro classe. Lui
sì che sapeva
dov'era Asti.
«Mio
padre dice che prendono anche i partigiani»
continuò a lamentarsi
Franco con voce afflitta. «A me fanno paura pure
loro».
Umberto
frenò di colpo. Ci mancò poco che Franco non gli
rovinasse addosso
e non perdesse l'equilibrio. Si girò per rivolgere all'amico
un'occhiata severa e alzò l'indice a mo' di monito.
«Lo
sai che quella parola non va detta. Ce l'hanno detto tutti di non
dirla mai. La gente poi parla e pensa che conosci anche te dei
partigiani, e allora sì, vengono i fascisti a chiederti se
li
conosci davvero, e te menti finché ti pare, Franco, ma tanto
ormai
l'hai detta, la parola. Fa' come dice mio padre: te tagli i capelli e
se loro ti chiedono di tagliarglieli, glieli tagli bene e gli fai lo
sconto, così se ne vanno contenti. E se vengono da me e mi
comprano
il prosciutto, io glielo taglio sottile sottile e sto attento a farlo
bene».
«Ma
noi per chi dobbiamo tifare?».
«Ma
che domande stupide che fai sempre» lo liquidò
Umberto, riprendendo
a pedalare di buona lena. «A volte sei proprio stupido. Non
è mica
la finale dei Mondiali di pallone, questa».
Rimasero
in silenzio per parecchi minuti. Di tanto in tanto, Franco
tossicchiava e si lamentava per il male al sedere, ma Umberto lo
ignorava e pedalava più forte. Superarono i filari di pere
che
costeggiavano la strada che portava all'argine del fiume e presto
s'inizio a vedere il profilo della stalla di Vittorio in lontananza.
«Dai
che siamo arrivati» gli fece forza nell'ultimo tratto.
Stavano
quasi per raggiungere l'aia del cortile, quando Franco prese a
dimenarsi di colpo. Umberto strinse i freni di colpo e la ruota
posteriore scivolò sulla ghiaia. Perse il controllo della
bicicletta
e caddero entrambi a terra. Fu una caduta terribile: Umberto
riuscì
ad attutire un poco la botta allungando le mani sui sassi, ma la
gamba gli rimase incastrata in mezzo al cannone. Cacciò un
alto
strillo acuto per il male. Franco era cascato all'indietro ed era
atterrato malamente sul sedere, rimanendo a bocconi nella polvere con
il respiro mozzato.
«Accidenti
a te, Franco» sbottò rabbioso Umberto, mentre
sfilava la gamba e la
muoveva con attenzione per controllare che non si fosse fatto troppo
male. Si era sbucciato il ginocchio sinistro e aveva rovinato i
pantaloni. «Mia madre mi ammazza. Franco, ti vuoi
alzare?».
Ma
l'amico restava a terra, con il petto che si alzava e si abbassa
rapidamente e le mani appoggiate sulla pancia grassottella.
«Mi
sono fatto male...».
«Te
lo faccio vedere appena ti tiri in piedi, il male»
incalzò mentre
s'alzava. «Ti sei messo a muoverti come--».
«Sta'
giù!» lo avvisò in fretta, rigirandosi
a fatica su un fianco e
sollevando la testa verso la casa alla loro sinistra. «Ma non
hai
visto la camionetta? Proprio là, ferma davanti alla
stalla».
Umberto
seguì lo sguardo dell'amico. Parcheggiata di fianco al
Landini
verde, c'era un furgoncino scoperchiato tutto nero e lucido. Una
delle galline di Vittorio era riuscita a saltare sul sedile
anteriore. Il ragazzino aggrottò pensieroso la fronte e si
passò
una mano fra i capelli.
«Dici
che se l'è comprato lui?» domandò
incuriosito. «E che se ne fa di
una roba così?».
Franco
gli si affiancò e scrutò con le palpebre strette
la strana vettura.
Sulla sua faccia rotonda si fece largo uno spaventato lampo di
comprensione. Afferrò con durezza il braccio sudato di
Umberto e
prese a strattonarlo.
«Sono
i tedeschi! Sono i tedeschi!». Si sbrigò a
rialzare la bicicletta e
guardò l'amico, che era rimasto immobile sul ciglio della
strada.
«Umberto, andiamocene!».
Ma
Umberto arrangiò un sogghigno sarcastico e
incrociò le braccia.
«Non
fare lo scemo. Che ci fanno i tedeschi da Vittorio?».
«E
che ne so, io? Ma quella non è mica una roba da campagna!
Per
favore, Berto, torniamo in paese...».
«Devo
prendere le uova per mio padre».
«Ma
ci sono i tedeschi!».
«Non
c'è nessun...».
Dalle
porte aperte della stalla si levarono delle grida improvvise che
fecero sobbalzare entrambi i bambini. Era un vociare caotico e
distante, ma urlavano talmente forte che a Umberto quasi pareva di
essere a un passo da loro. Nel cortile comparvero due uomini con
un'uniforme scura e con un grosso fucile appeso alla schiena. E fu
lì, tutto d'un tratto, che Umberto capì d'aver
paura di loro.
«Raus!
Schnell!»
gridava il più alto
di loro. «Wo ist das Schwein?».
«B-Berto...».
Umberto
afferrò la bicicletta e la trascinò fino al bordo
del fosso,
facendo attenzione a nascondere bene il sellino fra l'erba alta. Si
stese fra le sterpaglie e allungò il collo verso il cortile
della
casa, mentre Franco affondava il volto fra le braccia e iniziava a
piagnucolare.
«Piantala,
cretino» gli disse. «Non fare rumore».
Uno
dei due ufficiali stava spintonando un uomo attraverso il portone del
fienile. Sebbene la nebbia del mattino fosse ancora bassa e il sole
non fosse sorto del tutto, Umberto riuscì a distinguere il
profilo
segaligno del signor Vittorio. Teneva le mani sulle nuca e gridava
quanto i tedeschi.
«Non
capisco quello che mi dite! Io non la so, la vostra maledetta lingua!
Non la so!».
Gli
sferrarono un calcio rabbioso con la punta di ferro degli stivali e
Vittorio crollò a faccia in giù sulla ghiaia,
gemendo di dolore.
«Du
hast was ausgelassen!».
Un
altro grido, un altro calcio, Vittorio rantolò di nuovo.
«N-non
lo so... n-non so c-cosa volete...».
«Wo
ist der verflucht Partisan!?».
Sul
volto pallido del signor Vittorio comparve una luce di comprensione.
Sollevò debole una mano e fece loro un cenno nervoso.
«P-partigiani...?»
ripeté a mo' di conferma. «P-partigiani, ho
capito. Qui non ci
sono, non ci sono... nein partigiani,
nein partigiani...».
Il
tedesco più alto lo colpì alla nuca e fece
atterrare la suola dello
scarpone sulla punta delle dita dell'uomo a terra. I due bambini
trattennero il fiato, incapaci di muoversi. I soldati si scambiarono
uno sguardo d'intesa, poi uno dei due – quello che non aveva
colpito il signor Vittorio, quello che Umberto riteneva il
più
gentile – rientrò nel fienile. Lo sentirono
gridare nella sua
lingua aspra, e pochi secondi più tardi lo videro spingere
una donna
che si dimenava terrorizzata, con i capelli scuri davanti al volto e
la voce alterata dal pianto.
«È
sua moglie» commentò Umberto. «Quella
che alla domenica canta per
la Messa».
A
Umberto la signora Maria era sempre piaciuta. Era una donnina mite e
modesta, con il capo sempre coperto e un sorriso gentile sulle labbra
sottili. Non c'era stata una sola volta in cui fosse andato a
prendere le uova senza tornarsene indietro con una raviola di
marmellata in tasca. Era proprio brava, la signora Maria, a far le
raviole. Quando arrivava il freddo ci metteva dentro pure le
castagne. Ma a lui piaceva pure il signor Vittorio, anche se lo
prendeva in giro perché era alto e secco come un fuso e
sembrava un
airone dei canali.
Umberto
si abbassò di più fra l'erba lunga del canale e
voltò il capo
verso l'amico.
«Speriamo
se ne vadano in fretta».
Franco
lo guardò spaventato attraverso uno spiraglio fra le dita
paffute.
«D-dovevamo
andar via prima...».
«Sì,
così vedevano pure noi...» lo ammonì
duramente. «Dobbiamo solo
aspettare che vanno via e poi ce ne torniamo in paes--».
Lo
sparo di fucile che spezzò il silenzio della campagna gli
mozzò il
fiato in gola. Franco cacciò uno strillo e
affondò la faccia nel
terriccio umido, ma le sue grida vennero coperte da un secondo sparo.
Umberto restò immobile, con gli occhi sgranati, i polmoni
gelidi e
il cuore impazzito. Il boato aveva sollevato uno stormo di tortore.
Non si sentiva che il loro tipico coo-croo-coo.
I
due bambini rimasero fermi.
Coo-croo-coo.
Franco
si coprì le orecchie con le mani. Umberto
conficcò
le unghie nel
terreno e serrò gli occhi.
Coo-croo-coo.
Rimasero
nel fosso per un tempo che parve a entrambi infinito. Ormai erano
scivolati talmente in basso – loro e la bicicletta
– che Umberto
riusciva a sentire l'acqua fredda del canale entrargli nelle scarpe e
gonfiargli i calzettoni di lana. Fu attraversato da un brivido di
gelo e ritrasse d'istinto le gambe. Poi udirono il roco rombare di un
motore, il suono delle ruote che grattavano la ghiaia, e la
camionetta nera uscì dal cortile e si avviò verso
il viale
sterrato, lontano dalla casa, dal fosso, dalle tortorine che facevano
ancora coo-croo-coo...
Umberto trovò il coraggio di alzare la testa solo dopo
diversi
minuti.
«Berto,
sta' qui!».
«Non
possiamo mica stare qui fino a Natale!».
«No,
no, no... io sto qui, non vengo, non ci vengo là fuori, sto
qua...».
Si
lasciò alle spalle l'acuto frignare dell'amico e si
arrampicò lungo
la sponda, artigliandosi alle erbe più lunghe e
puntellandosi nel
fango con le scarpe. Pensò che i suoi pantaloni dovevano
essere
diventati uno straccio, a quel punto. Ora sì che sua madre
lo
avrebbe accoppato. Quando riuscì a rimettersi in piedi, si
passò
una mano sulla faccia per levarsi un po' di terra dalla fronte e
scrutò in direzione del cortile.
Il
signor Vittorio e sua moglie – quella carina, quella che a
lui
piaceva tanto, quella brava con le raviole di castagne –
erano
ancora lì, stesi sulla ghiaia, fermi. Umberto si
mordicchiò il
labbro inferiore.
«F-forse...
forse hanno bisogno di aiuto».
Non
ci credeva molto, ma crederci era
già qualcosa. Si chinò sul fosso per afferrare il
braccio di Franco
e lo costrinse a seguirlo. Dovette tirare con tutte le proprie forze
per convincere l'amico ad alzarsi. L'unico punto della sua faccia
senza terriccio era la scia bianca lasciata dalle sue lacrime.
«Andiamo
a casa...».
«E
se hanno bisogno?».
Franco
scosse cocciuto la testa.
«No,
non ce l'hanno... gli hanno sparato».
Umberto
lo ignorò e si avviò verso il cortile a passi
lenti. Si avvicinò
con cautela, posando un piede dopo l'altro e guardandosi intorno alla
ricerca di altre divise nere, altre camionette, altra gente che
parlava strano e teneva i fucili sulla schiena. C'erano solo un paio
di galline che sbattevano nervose le ali.
Riconobbe
il grosso cagnone di Vittorio accucciato davanti alla porta di casa e
aspettò che gli corresse incontro come sempre. Il cane non
si mosse,
così Umberto portò due dita alla bocca e
fischiò. Il cane continuò
a non muoversi e al bambino tornò il brivido di qualche
minuto prima
lungo la schiena.
Erano
rimaste solo le tortorine e il loro coo-croo-coo
e le galline con le ali che frusciavano.
Si
accorse dei rigagnoli rossicci che scorrevano fra i sassi del cortili
solo quando fu a qualche metro dal signor Vittorio. Avevano sparato
eccome, quei due tedeschi, ed era strano realizzarlo solo in
quell'istante.
Non
aveva l'audacia di avvicinarsi oltre.
«S-signor
Vittorio?».
L'uomo
era fermo quanto lo era il suo cane. Umberto sentì il
disperato
bisogno di piangere, di scappare, di pigliare la dannata bicicletta
lasciata nel fosso e pedalare fino a casa, da sua madre, a farsi
sgridare per i pantaloni rotti e sporchi...
«B-Berto...».
Umberto
sobbalzò e si girò di colpo. Franco si tormentava
le mani e non
faceva che tirare in su con il naso.
«B-Berto,
andiamo via».
L'altro
ragazzino annuì, ma anziché voltare le spalle al
fienile continuò
a camminare. Si tenne a distanza dalla donna, perché con la
coda
dell'occhio aveva notato che le mancava mezza faccia – era
sempre
stata una faccia graziosa, quella della signora Maria, e Dio solo
sapeva come facesse Umberto a non vomitarle accanto, ora che non ce
l'aveva più.
«Berto!»
lo chiamò ancora Franco. «Ti prego!».
Qualcosa
nell'ombra del fienile si mosse all'improvviso e Umberto
saltò
indietro, spaventato, con la bocca aperta in un grido senza suono e
le mani e i piedi e tutto il resto che tremavano troppo.
«C-chi
c'è là?» domandò con forza,
abbassando la voce nella speranza di
sembrare più grande – più adulto, meno
spaventato. «Chi sei?».
«Chi
c'è dove?» pigolò
Franco, aggrappandosi al suo braccio e strattonandolo con decisione.
«B-Berto, chi c'è?».
La
risposta che si levò da dentro il fienile arrivò
loro come
ovattata, ma l'uomo che uscì dall'ombra era fin troppo vero.
Alto e
magro, aveva un faccione tondo e un occhio fasciato, e si muoveva a
stenti appoggiato alla parete di legno.
«Ma
siete dei bimbetti» disse loro in un soffio. Poi vide i due
corpi
stesi sulla ghiaia e chinò mortificato il capo. «O
se'r mondo
'ndasse come deve... porelli, pure questi».
Franco
e Umberto si guardarono in tralice. Lo sconosciuto non sembrava
armato, ma aveva una parlata strana che nessuno dei due aveva mai
sentito.
«Io
lo so cosa sei, te» proruppe con improvviso impeto Umberto,
incrociando le braccia al petto con una smorfia stizzita. «Te
sei un
partigiano. Gli hanno sparato per colpa tua».
L'uomo
si lasciò scivolare su una cassetta di legno abbandonata
fuori dal
fienile con un gemito di dolore, intrecciò fra loro le dita
e gli
rivolse un'occhiata mesta.
«Eh,
già. Mi chiamo Ferruccio. Vengo da un paesello che si chiama
Fucecchio, vicin'a Firenze. E te che mi pari sape' tutto, lo sai
in dove ll'è Firenze?».
Umberto
dovette scuotere la testa, perché in geografia era sempre
stato un
gran asino – e non sapeva né dove fosse Firenze,
né Fucecchio né
Asti né che fine avessero fatto Dario Asti e tutti i suoi
parenti.
Ma sapeva dov'erano in quel momento, nel cortile di Vittorio e della
Maria morti, con
Franco che gli tremava a fianco e quel tizio che parlava strano
davanti. Non gli piaceva nemmeno un po', stare lì.
«Sta
un po' più di giù di qua» gli
spiegò Ferruccio da Fucecchio, ma
l'unica cosa alla quale Umberto riuscì a pensare fu quanto
stupido
fosse quel nome.
«E
perché sei venuto qui?».
«Perché
è qui che ci stanno tutti i mi 'ompagni. Di là
dal fiume».
«Ma
sei qui, non dall'altra parte».
«M'hanno 'olpito la
scorsa settimana e m'hanno portato da
loro».
Indicò brevemente i due corpi a terra e scrollò
la spalla. «Non l'avevo mai visti. Ma Cecco diceva che erano
de' nostri, che non
era la prima volta ch' aiutavano uno di noi...».
Calciò un sacco
con un moto rabbioso. «O che bastardi,
i tedeschi».
Si
sollevò in piedi, un po' storto e traballante, tenendo una
mano
premuta su un fianco. Franco si nascose dietro le spalle dell'amico.
Ferruccio lo guardò e arrangiò un sorriso
gentile.
«O
bischero, 'un
ti sparo mica».
Poi
rise. Era una risata strampalata quanto il suo modo di parlare e la
sua faccia tonda e il suo nome, bassa e roca, cupa. Strideva nel
silenzio come il suono dei vetri che si rompono, e a Umberto parve
tutto fuorché una risata serena.
«Vittorio
mi aveva detto che c'era un ponticello per anda' di
là» continuò
Ferruccio. «Mi sapete di' a quanti chilometri? Devo anda' via
in
fretta».
Umberto
arricciò il naso.
«No,
non te lo dico. Questi sono morti perché c'eri tu. Non
è giusto».
Sul
volto pallido dello straniero calò un'ombra cattiva.
«Sono
stati i nazisti, bambino. È questo che non è
giusto».
Il
ragazzino non era intenzionato a demordere.
«Mio
padre ha detto che chi aiuta i partigiani finisce male».
Ferruccio
schioccò la lingua.
«E
allora il tu babbo sopravviverà
alla guerra. Te non lo so. Te mi pari uno che c'ha voglia di ficcare
il naso nella roba degli altri».
«Ero
qui per le uova. Dovevo portarle in bottega».
«Piglia
'ste uova e va' a casa in fretta, te e l'amico tuo. E non dire che
m'hai visto, non dite quello che avete visto, sennò finite
nei
guai».
Franco
emise un gemito strozzato, ma Umberto rimase impassibile.
«Dove
vai?» domandò nel vedere l'uomo avviarsi verso la
strada sterrata.
Venne
ignorato. Ferruccio zoppicò fino al corpo della signora
Maria e si
chinò su di lei con aria dolente. Le voltò il
capo insanguinato,
sospirò affranto e le chiuse l'unico occhio rimasto. I suoi
polpastrelli si macchiarono di rosso.
«Era
una brava donnina... brava gente, tutt'e due. Mi spiace
tanto».
«Ti
ho chiesto dove vai».
«A
cerca' il mio ponticello» replicò con una punta
di ironia
Ferruccio. «Te 'un tu me lo vo' di'...
vedi che me lo
trovo, a forza di camminare».
Franco
e Umberto rimasero a guardarlo raggiungere a passi minuscoli lo
sterrato. Una folata di vento primaverile soffiò fra i rami
degli
alberi e scompigliò loro i capelli.
«Quello
non arriva nemmeno fino all'argine. Guarda come va tutto
storto...»
commentò Umberto.
«È
un partigiano» mormorò titubante Franco.
«Lascialo andare, così
noi torniamo a casa...».
L'altro
ragazzino tornò a guardare la signora Maria e
ripensò con tristezza
alle sue deliziose raviole. Realizzare all'improvviso che era morta
–
lei e Vittorio e pure il grosso cane – fece nascere nella sua
testa
una decina di nuovi pensieri e nuove idee e nuove constatazioni da
tenere a mente. Non aveva mai visto nessuno morire. Aveva visto uno
che era morto, una volta, uno zio di sua madre che era già
vecchio
quando lui era ancora piccolo, ma non c'era sangue, non c'era nessuno
senza più la faccia. La morte era davvero una cosa tanto
cattiva?
Era qualcosa alla quale non aveva mai pensato davvero. Brava
gente, tutt'e due,
aveva detto
Ferruccio. Solo che erano morti, alla fine, e Umberto era certo che
fosse proprio un brutto modo di morire per due persone così
brave.
Guardò ancora in direzione dell'uomo che incespicava
seguendo il
corso del canale.
Lui,
quella guerra, continuava a non capirla. Sapeva solo che doveva
mettersi sotto al tavolo quando sentiva passare gli aerei e che la
gente di piazza, che fosse brava o meno, doveva comunque mangiare e
le uova andavano prese e portate in bottega. Non sapeva dove fosse
Firenze, non sapeva un sacco di cose.
«Ehi!»
gridò a Ferruccio. Non sapeva nemmeno per quale motivo lo
stesse
facendo, ma lo fece lo stesso. «C'è la mia
bicicletta nel fosso lì
vicino. Prendila te, sennò non ci arrivi mica al ponticello.
E
quando sei sceso nella golena del fiume, va' sempre a
sinistra».
L'uomo
si voltò con aria sorpresa. Umberto lo osservò
cercare la
bicicletta con lo sguardo, ma quando fu il momento di tirarla fuori,
si piegò in due e rimase chinato con un braccio stretto al
ventre.
«Eh,
ma che scemo... quello dura poco pure con la mia bici» si
lamentò
Umberto.
Decise
di colpo di correre verso di lui, con Franco alle costole come
un'ombra tremolante, e insieme aiutarono Ferruccio a raddrizzare la
bicicletta e a salirci sopra. L'uomo sembrava faticare parecchio ed
era sempre più cereo.
«Come
ti chiami?».
«Umberto».
L'uomo
storse il naso.
«Come
il re? Bella sfortuna».
«Meglio
Umberto di Ferruccio da Finocchietto
di Firenze».
Ferruccio
gettò indietro il capo e scoppiò in una grassa
risata. Allungò una
mano per scompigliargli i capelli, ma Umberto si ritrasse con aria
indignata.
«Va'
via, prima che mi pento e mi riprendo la bici».
Lo
guardarono ondeggiare per il primo tratto, procedendo talmente male
da far credere a entrambi che sarebbe caduto subito. Ma Ferruccio non
cadde, continuò a pedalare nella foschia fino a quando non
ne fu
completamente avvolto, e di lui si sentì solo un quieto
trillare di
campanello in lontananza.
«Perché
gli hai dato la tua bici?».
«Non
lo so».
«Ma
ora ci tocca andare a piedi».
Umberto
scrollò le spalle.
«Te
c'hai l'asma, l'artrite, la peste...» ribatté.
«Ma stai comunque
bene. Sai chi è che sta male? Quei due
là».
Franco
rabbrividì.
Camminarono
fianco a fianco con le mani affondate nelle tasche e il viso basso.
Nessuno dei due disse più nulla lungo tutta la via del
ritorno. Di
tanto in tanto, Franco mormorava qualcosa nel bavero della
giacchetta, ma Umberto lo ignorava e affrettava il passo.
Voleva
solo tornare a casa.
Trovarono
una bicicletta, tempo dopo.
Molto
tempo dopo, quando si seppe che la guerra era finita e che i
partigiani erano arrivati fino al nord; quando sentirono dire dalla
radio che avevano preso il Duce e che l'Italia era fuori dalla
guerra, che gli aerei non sarebbero più passati e nessuno
sarebbe
più morto. Umberto aveva quasi undici anni ed era rimasto
senza
bicicletta da quel giorno di aprile in cui si sentì tanto
matto da
dare la propria a un tizio con un nome assurdo di cui non voleva
saper niente.
Ma
nell'estate del '45, una mattina afosa come tante altre, Umberto
trovò davvero
una bicicletta appoggiata davanti alla saracinesca della bottega di
suo padre. Riconobbe la vernice scrostata, il campanello trillante,
il cestino di vimini che non stava mai al suo posto... e aveva perfino
le gomme gonfiate da poco.
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