Autumn Leaves

di Water_wolf
(/viewuser.php?uid=283022)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Parte Seconda
 

Percy sentiva vagamente Nico disperarsi al suo fianco, la folla che vociava confusa, i nitriti dei cavalli che pascolavano vicino a lui. Guardava fisso davanti a sé, gli occhi incapaci di staccarsi dal lungo palo di legno che diversi uomini neri stavano piantando nel terreno.
Non si curava nemmeno di Luke Castellan e Ethan che dirigevano i lavori sbraitando per farsi ascoltare. Ma forse lo attraversava con lo sguardo, talmente era concentrato sul battito del suo cuore.
Tutta la sicurezza e spavalderia che aveva mostrato nei confronti dell’inglese sembrava essersi volatilizzata e dispersa come una manciata di polvere al vento. Eppure, ne era rimasta una punta, che continuava a impedirgli di sottrarsi al destino che si era scelto. Non era sicuro si trattasse d’orgoglio, non era mai riuscito a decifrare le sue emozioni molto bene.
All’improvviso, sentì la guancia sinistra bruciare. Si voltò di scatto, scontrandosi con lo sguardo furioso di Nico, il quale l’aveva appena schiaffeggiato.
«Non hai un briciolo di autoconservazione!» gridò, la voce che aveva assunto una sfumatura femminile per via dell’acuto.
Percy si massaggiò la mascella.
«Sarà già difficile ritornare a casa intero, mi farebbe piacere non dover arrivare all’esecuzione malmesso» disse, pacato.
Nico si trattenne dal tirargli un altro schiaffo, le narici dilatate nello sforzo di far entrare abbastanza aria nei polmoni.
«Potevi lasciare che lo frustasse, se sei tanto attaccato alla tua pelle» replicò, duro.
«No, io dovevo fare quello che ho fatto» lo contraddisse Percy. «Non avevo scelta.»
Il giovane si alzò dalla panca su cui si erano accomodati, incapace di rimanere seduto ulteriormente. Chiuse le mani in pugni e rilassò le dita, lasciando che ricadessero lungo il corpo.
«No, non dovevi affatto» disse, assumendo quel tono freddo e distaccato che aveva sempre fatto rabbrividire Percy, «E la tua scelta è stata quella di soffrire e far soffrire. Perciò, non prenderò parte a questo abominio per un secondo di più. Ci rivedremo alla villa, se sarai ancora vivo.»
Girò i tacchi e si allontanò. Percy sentì qualcosa di pesate depositarsi in un punto imprecisato nel mezzo del petto; sospirò, guardando per terra. Lo riscosse una mano sulla spalla. Alzò lo sguardo, incontrando quello di Annabeth Chase.
«Spogliatevi» ordinò, gli occhi grigi duri quanto la pietra. «Hanno finito di montare il palo.»
In un altro momento, Percy avrebbe collegato quella frase a tutt’altro, ma la situazione non lasciava ombra di dubbio. Scostò con delicatezza la mano della donna dalla sua spalla, guardò in alto, verso il Sole tiepido del primo pomeriggio e si liberò della giacca, si sbottonò la camicia bianca e abbandonò la parte superiore dell’abbigliamento nella polvere.
Calpestò la stoffa ricamata per avviarsi al luogo delle esecuzioni, lasciando l’impronta sporca dello stivale sul tessuto. L’aria di inizio autunno non era né pungente né fredda, ma a Percy si rizzarono comunque i peli delle braccia e lui scoprì di averne di piccolissimi dietro il collo.
Luke Castellan lo attendeva composto affianco al palo, stringeva la frusta tra le mani. Percy si inginocchiò lì davanti, mentre Ethan gli legava i polsi su un cilindro di legno che passava orizzontalmente a quello più grande, in modo da non permettere a Percy di sottrarsi alla punizione e di dargli, allo stesso tempo, qualcosa cui stringere per contrastare il dolore.
L’inglese si mise dietro di lui, rivolto alla folla che si era riunita ai campi di cotone dopo essere venuti a conoscenza del fatto, e declamò un discorso che Percy neanche si sforzò di ascoltare.
Poteva vedere solo il palo e le sua mani, in quella posizione, e aveva la gola secca. Non riuscì a mentire a sé stesso dicendo che non aveva paura. Si concentrò sul suo fiato, regolarizzò il respiro con inspirazioni ed espirazioni controllate. Sentì Luke Castellan srotolare la frusta con un sibilo, quasi fosse un serpente.
Senza che potesse impedirselo, il fiato accelerò.
Per una frazione di secondo prima che l’esecuzione iniziasse, gli sembrò che il tempo si fermasse. E ripartì con un’esplosione di dolore.
Percy spalancò gli occhi. Si aggrappò convulsamente al palo orizzontale fino a ferirsi i palmi con le schegge di legno, vi conficcò le unghie. La sorpresa stava quasi prevalendo sul dolore.
«UNO!» esclamò l’inglese alle sue spalle.
Quando calò di nuovo la frusta, Percy riuscì a distinguere ogni lembo di pelle che si lacerava. Luke Castellan rallentò il ritmo, dandogli il tempo di provare male in ogni fibra del suo essere in tutte le sfumature.
Percy strinse i denti fino a farli scricchiolare. Era deciso a tenere il conto, ma lo perse a “cinque” insieme a una visione chiara davanti ai suoi occhi. Gli parve di sprofondare in un gorgo profondo, di raggiungere la cavità più infima dell’Inferno, e il rosso che gli illuminava a sprazzi la visuale sembrava confermare la presenza delle fiamme.
Si riebbe un momento, giusto per sentire: «VENTI!»
Che cosa?,  pensò, incredulo. Gli sembrava di essere già morto, era impossibile che mancassero ancora dieci frustate.
Il solo contarle gli fece salire la bile in bocca. Avvertì nitidamente  i due seguenti colpi, che gli straziarono la schiena già martoriata. Si accorse di avere le mani viscide di sudore e sangue.
Non seppe definire esattamente quando la tortura finì, anzi, tutto ciò che glielo suggerì furono gli occhi color della Luna di Annabeth a pochi centimetri dl suo viso. Non c’era più il terreno o il palo sotto di sé. I pensieri e le domande si ridussero a piccoli lampi nella sua mente, urgenze che sarebbero state ignorate.
L’ultima cosa che sentì, fu un forte profumo di vaniglia e cannella.
 
 
Luce fioca da una finestra.
Il lieve scoppiettio di un fuoco che languiva.
Qualcosa di piccolo che colava, solleticandogli la pelle.
Un torpore diffuso per la schiena.
Percy si mosse, rigirandosi su un fianco, ma una fitta di dolore lo bloccò. Gli salirono le lacrime agli occhi e gemette. Tra le sue narici si insinuò il profumo troppo dolce della vaniglia. Si preparò a ricevere qualcosa di delicato, oppure mielato, invece…
«Siete uno stupido incosciente.»
Percy grugnì.
La persona che aveva parlato e che profumava sbuffò: «Sì, esatto, non fate altro che grugnire e sbavare nel sonno. Siete insostenibile.»
Percy mugugnò qualche sillaba sconnessa, senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto. Aveva il palato impastato e una guancia gli doleva leggermente. Riuscì a capire che la voce che lo stava insultando apparteneva a una donna, la quale stava armeggiando con qualcosa che produceva un rumore stridulo  a contatto col pavimento. Uno sgabello, realizzò.
«Se aveste seguito i miei avvertimenti, probabilmente ora non vi ritrovereste in queste condizioni» continuò, imperterrita, come se stesse apostrofando una piccola peste.
Il suo sospiro spostò i neri ciuffi di Percy.
«Dovevate proprio farvi frustare?» mormorò la voce femminile, riportandogli i capelli indietro.
Percy schiuse lentamente le palpebre, ancora stordito. Temette di trovarsi in un sogno – un bel sogno-, quando vide le linee perfette di due labbra rosee, interrotte da un filo biondo, un ciuffo ribelle. Strabuzzò gli occhi, togliendosi il sonno di dosso.
Ma, anche così, distante appena qualche centimetro dal suo volto, c’era il viso delicato di un angelo biondo. Impiegò un altro istante per realizzare che quell’angelo era una donna in carne e ossa, che aveva fallito il suo tentativo di rimproverarlo e che portava il nome di Annabeth Chase.
Gli sfuggì un gemito a quella consapevolezza. Annabeth lo interpretò come un lamento, perché si allontanò subito e si alzò, uscendo dal campo visivo di Percy.
Non te ne andare, pensò, già architettando una strategia per farla ritornare lì, ma non ce ne fu bisogno.
La donna lo aiutò a sollevarsi sui gomiti, gli appoggiò una tazza di ceramica alla bocca e fece scivolare acqua tra le sua labbra. Percy accettò, grato, scoprendosi disidratato. Sovrappose la sua mano a quella di Annabeth e beve avidamente, alcuni rivoli che gli bagnavano la gola e il torace.
Inarcò troppo il collo e una fitta gli attraversò la schiena, facendolo scivolare sulla tavola di legno su cui era adagiato con un tonfo sordo. Consapevole degli occhi di Annabeth su di lui, si morse le labbra pur di non emettere un suono.
La donna fece un gesto vago con la mano, si sedette nuovamente sullo sgabello, la tazza vuota in grembo, e disse: «Non mostrare dolore non è un segno di debolezza. Non per me, almeno.»
«Non posso farlo vedere se non lo provo» replicò Percy, la voce più flebile di quello che avrebbe voluto.
Annabeth alzò lo sguardo da lui e fece una risatina di scherno.
«Mi sto occupando io stessa della vostra schiena e posso affermare con certezza che state soffrendo come un cane.»
Percy tacque. Non avendo obiezioni da muovere, riprese le fila del discorso: «Davvero mi state curando voi?»
Le guance le si colorarono lievemente di rosso. «Tutti sanno che passo parte del mio tempo nel negozio di Lee e Yew, sono la persona più adatta, visto che i medici hanno altri malati a cui pensare, non siete poi così speciale» si schermì.
«Lo sono abbastanza per voi» la stuzzicò Percy.
Annabeth gli sorrise. «Ogni bambino lo è.»
Il moro si obbligò ad allargare gli angoli della bocca, accettando quella risposta agrodolce. Avrebbe dovuto sapere che Annabeth non era un tipo da confessioni spassionati, che non gli avrebbe mai reso le cose facili.
«Dove siamo?» chiese, dopo un po’.
«Nella cucina dei Beckendorf, la casa più vicina in cui potevamo trasportarvi, viste le vostre condizioni precarie» spiegò.
Percy strabuzzò gli occhi. «E loro hanno accettato… voglio dire… Silena…» farfugliò.
«Erano entrambi presenti alla fustigazione, hanno visto in che condizioni eravate. Se vi portavamo nella vostra villa, c’era il pericolo che non ce l’avreste fatta, con tutto il sangue che perdevate.»
«Delle donne non dovrebbero assistere a certi spettacoli» borbottò.
Annabeth lo sentì e una risata amara le uscì dalle labbra, con un timbro isterico. Rischiò di cadere dallo sgabello.
«Che assurdità» disse, le lacrime agli occhi, «anche se voi non avete imbracciato le armi, là fuori c’è la guerra. Le donne vedono certi spettacoli, le donne non ne hanno sempre paura, le donne sanno proteggersi da sole. Perché voi uomini siete così convinti del contrario? Dovremmo insegnare alle nostre figlie a sopportare tali viste, non a temerle, le renderebbero più forti.»
Percy decise che era meglio non contraddirla. Rimasero in silenzio, a riflettere ognuno sui propri pensieri.
«Domani voglio togliere il disturbo» sentenziò.
«Avete sempre avuto questa naturale inclinazione al suicidio?» domandò Annabeth.
Percy la fissò con intensità.
«Ne discuterò con Bianca, ma non credo che sarà dalla vostra parte. Si sente già abbastanza responsabile per quello che vi è accaduto» consentì la bionda.
«Lei dov’è?» chiese, mentre una punta di ansia si faceva strada in lui.
«È andata a informare suo fratello dopo avermi aiutato con voi, adesso, però, si sta riposando nella stanza degli ospiti. Mi ha rivelato ciò che vi aveva detto, comprese le parole di Talia. Nico si rifiuta di vedervi e di sapere qualunque informazione sul vostro conto, e lo posso comprendere. In generale, tutta Jackson Hill è nel panico: Luke vi ha fatto chinare il capo e nessuno si sente più al sicuro. »
Percy pensò a tutti coloro che abitavano la sua cittadina, gli anziani che avevano conosciuto suo padre, chi, come il vecchio Chirone sulla sedie a rotelle, lo aveva rassicurato da giovane. Temevano che lui non fosse in grado, che le sue spalle non fossero abbastanza robuste per reggere la presenza dell’inglese per tutti.
Sentì montare prepotentemente la rabbia.
«Bastardo, che vada all’Inferno» inveì sottovoce.
Annabeth non commentò.
«Dovreste dormire, siete ancora debole» consigliò, «le emozioni delle giornata devono avervi già spossato molto.»
Percy fece per protestare, ma si rese conto che era vero. Cercò di sistemarsi alla bell’e meglio sul tavolo, con scarsi risultati. La frescura sulla schiena si era fatta più lieve. Abbassò le palpebre, avvertendo un lieve sentore di stordimento.
Le ultime parole che udì, prima di scivolare nel sonno, furono:  “non temete, veglierò su di voi. Dopotutto, non vi voglio morto, ricordate?”
 
 
Percy ansimò forte, la bocca aperta a far entrare più aria possibile. Le tempie gli pulsavano così forte che gli impedivano di pensare, se non avesse avuto la testa tanto pesante e la mente annebbiata dal cocente dolore che gli mordeva la schiena. I suoni attorno a lui rimbombavano come colpi di pistola. Confusamente, sentì diverse voci discutere e passargli qualcosa di freddo sulla fronte.
 
 
Bianca Di Angelo incrociò le braccia sui fianchi, fissò il pavimento e rifletté. Si umettò le labbra, riportando alla memoria tutti i medicinali che aveva messo da parte nella credenza di mogano nel secondo salotto della villa. Sì, c’era una boccetta in vetro simile a quella descrittale da Annabeth. Alzò gli occhi sulla donna che le stava di fronte.
«Ne abbiamo» dichiarò.
Annabeth annuì, lanciò di sfuggita uno sguardo alla porta chiusa alle sua destra, dove si trovava la cucina.
«Ascoltami, Bianca: può sembrare una follia, ma dobbiamo portarlo alla villa.»
La mora aspettò che chiarisse le motivazioni di quella scelta. Sapeva che l’amica non faceva nulla per caso.
«La morfina è là ed è di vitale importanza. In più… ci serve qualcuno che prenda le redini della città. Se tuo fratello si ostina a non prendere il posto di Percy, o gli inglesi si nomineranno i padroni di Jackson Hill o scoppierà il caos tra di noi, e ciò porterebbe alla prima conseguenza.»
«Vuoi che lo veda in queste condizioni per sensibilizzarlo e spronarlo a fare il capo?» chiese Bianca, per confermare le sue teorie.
«Esattamente» confermò Annabeth. «Mi dispiace, ma ne abbiamo bisogno.»
Bianca si morse le labbra e pensò a Nico, barricato nella sua stanza.
«Spero funzioni…» sospirò. «Perché se questa vista potrebbe fornirgli la forza di fare la cosa giusta, potrebbe dargli abbastanza rabbia da portarlo a compiere una sciocchezza.» 
La bionda le sorrise timidamente, comprensiva. Si congedò, dirigendosi verso la cucina per preparare il ferito al viaggio. Bianca uscì dalla casa, ne percorse il profilo e arrivò davanti al portone della fucina del fabbro.
Chiamò Tyson, che arrivò spedito, e gli ordinò di sellare due cavalli e legarli al carro che usavano per trasportare la legna per il fuoco, durante l’inverno. Il ragazzone corse a eseguire le consegne. Bianca ringraziò mentalmente Silena Beauregard per aver fatto costruire un piccolo ricovero per i cavalli da suo marito, in modo che potesse continuare a coltivare la sua passione anche da sposata.
Dei passi la fecero voltare. Charles Beckendorf era un uomo alto e dalle spalle larghe, le mani callose per via del lavoro e i capelli neri come i carboni che scaldava per modellare il metallo. I suoi occhi nocciola seguirono Tyson finché poterono.
«Lo state spostando» disse.
«Già.»
Bianca si mantenne sul vago.
Beckendorf si strofinò le mani, torcendo le dita, prima di domandare, mantenendo un tono da conversazione forzato: «Non dovrebbe essere meglio lasciarlo qui?»
«Forse, per via della febbre e dell’inizio dell’infezione» rispose la mora. «Però abbiamo medicine specifiche alla villa che voi non avete e che potrebbero fare la differenza.»
«Potrei andare a cavallo fin lì e portarle qui al galoppo» si offrì subito, ma la donna scosse la testa, facendolo sentire lievemente a disagio.
Pensò stesse nascondendo qualcosa, così la incalzò con lo sguardo.
Bianca si morse le labbra. «Fidatevi, vi prego, e non fatemi altre domande. Alla fine, questa sarà la soluzione vincente.»
Beckendorf ponderò quelle parole in silenzio. «Va bene, vi credo. Immagino vi servano braccia forti per trasportare Percy sul carro, giusto?»
«Sì, grazie, né io né Annabeth ce l’avremmo fatta da sole» disse Bianca, riconoscente. «E vi sono infinitamente grata per l’ospitalità.»
«Dovere» replicò l’uomo, riavviandosi i capelli.
La giovane donna lo superò, ritornando sui suoi passi e pregò che non si vedesse come le sue guance si fossero accese.
 

A Nico faceva male il polso e gli formicolava il gomito. Era rimasto per l’intera notte seduto su una sedia a scrutare la Luna, percorrendo con lo sguardo il profilo della città e le luci delle case spegnersi una dietro l’altra, una guancia appoggiata sul pugno chiuso e il braccio sul piccolo rientro della finestra.
Gli bruciavano gli occhi, ma non riusciva a dormire. Dei colpi al piano di sotto lo fecero sobbalzare. Preso alla sprovvista, si sbilanciò e cadde all’indietro, seguendo la sedia.
Imprecò tra i denti e si alzò, massaggiandosi il capo. Indossava gli stessi abiti del giorno precedente, la camicia bianca stropicciata e il colletto allargato. Non si curò del suo aspetto trasandato, scese le scale di malavoglia e si preparò il discorso con cui scacciare sua sorella.
Che gli importava di come stava Percy? Era lui che aveva deciso di farsi ammazzare, ne avrebbe pagato le conseguenze. La sicurezza del rancore gli fece aprire il portone della villa di slancio, senza nemmeno scomodarsi ad alzare le palpebre.
Disse: «Se sei qui per parlarmi ancora di lui, allora puoi anche andartene.»
«Non essere scorbutico, Nico» ammonì Bianca, dura. «Non sono sola.»
Il moro aprì gli occhi, sbatté le palpebre un paio di volte e vide che dietro sua sorella c’erano altre due figure: una più robusta e ben piazzata, quella di Charles Beckendorf, e quella femminile di Annabeth Chase. Dietro il fabbro, scorse anche Tyson.
Fece una smorfia.
«Che ci fanno qui?» ringhiò piano, in modo che solo Bianca potesse sentirlo.
La giovane si girò, rivolse un sorriso rassicurante agli accompagnatori e si infilò in casa, chiudendosi la porta alle spalle.
Nico la guardò, gli occhi che mandavano scintille. Si aspettava delle spiegazioni per quel capannello di persone, oh sì se le aspettava.
«Allora?» incalzò, impaziente.
«Dovresti cambiarti e lavarti, puzzi come se ti fossi scolato un’intera bottiglia di Vodka.»
«Non tergiversare» la bloccò Nico con rabbia.
«Va bene» sbottò Bianca. «Dobbiamo entrare per prelevare delle medicine per Percy. Avevamo preso delle precauzioni, ma un’infezione si è comunque presentata. Possiamo fermarla in tempo e salvarlo.»
Nico di allontanò da Bianca, fece un ampio gesto con il braccio a indicare il corridoio che portava in soggiorno.
«È tutto là, serviti pure. Saresti potuta venire da sola.»
La sorella esitò, mordendosi l’interno della guancia. «Non capisci» mormorò. «Dobbiamo entrare perché c’è anche lui.»
Il giovane dai capelli scuri si pietrificò, il braccio ancora teso a indicare la via. Il suo cuore riprese lentamente a battere, sciogliendo il ghiaccio che gli bloccava i movimenti. Sentì la faccia andare a fuoco per la rabbia che montava prepotentemente dentro di lui.
Con due falcate furiose, raggiunse la porta, la spalancò e cacciò fuori la testa.
«Lui non entrerà in questa casa finché vivrò!» gridò, prima che Bianca lo riacciuffasse per il colletto e lo sbattesse dentro, incollandolo con la schiena al legno del portone.
Stupita della propria forza, lasciò andare immediatamente la presa sui suoi vestiti e si strinse le mani in grembo, osservandole come se fossero estranee. Nico ansimò per la sorpresa, incapace di elaborare quello che era appena successo.
Sua sorella, colei che si era sempre presa cura di lui e non gli avrebbe mai fatto del male, né avrebbe permesso che gliene accadesse, l’aveva trattato come se non lo conoscesse, come se non fosse un uomo adulto, un uomo che non poteva essere toccato in quel modo da una qualsiasi donna.
Non riuscì a provare rabbia, solo un immenso vuoto. Che cosa stava accadendo in quella città?
«Io… io…» balbettò Bianca. «… mi dispiace.»
Nico ebbe unicamente la forza di spostarsi dalla porta e muovere qualche passo nella hall. Fissò l’attenzione sui suoi piedi, mentre la sorella faceva entrare Annabeth, seguita Beckendorf, il quale trasportava una rudimentale barella.
Non alzò lo sguardo quando gli sfilarono accanto né quando Percy si lamentò. Bianca gli mise una mano sulla spalla, la fece scivolare lungo l’addome, prima di seguire il ferito, che veniva trasportato su per le scale, dove si trovavano le stanze. Nico rimase immobile finché non sentì le ginocchia dolergli per l’inattività, così salì al piano superiore e andò diretto alla sua camera.
Era una persona ordinata, gli piaceva che sulla scrivania regnasse una rigorosa disposizione di carta, inchiostro e penne d’oca. Il letto era intatto, le coperte bianche intonse e una piccola lampada a olio sul comodino accanto ad esse. Si fermò nel centro dell’ambiente, gli stivali alti che affondavano lievemente nei soffici ricami del tappeto persiano.
All’improvviso, gli sembrò impossibile che un corpo esile di un ragazzo poco più che maturo potesse contenere tanta rabbia e non rischiare di andare in pezzi. Se si soffermava a pensarci, però, aveva anche creduto che non potesse provare dei sentimenti così potenti.
Quelle frasi da romanzo che recitavano “per amore si può fare di tutto, soprattutto pazzie” gli erano sempre sembrate estreme, qualcosa che non potesse minimamente sfiorarlo. Ma si sbagliava, in tutto.
Le sue dita si chiusero sulla lampada a olio, la sollevarono e la strinsero, serrandovisi attorno come una morsa. Rivide, nella trasparenza della finestra, il sorriso di Percy, udì la sua voce perdere il solito tono irritante di scherno e assumerne uno rassicurante che diceva “andrà tutto bene”.
E poi il suo lamento lo stordì, quasi fosse acuto come il fischio d un treno. Scagliò la lampada contro il vetro con un grido, infrangendo il sorriso di Percy. I cocci rotti produssero un rumore stridulo, mentre il lume era un tonfo di sottofondo.
Sì, pensò, era impossibile che riuscisse a contenere tutta quella rabbia senza soffocare.
Afferrò lo schienale della sedia e ne ruppe due zampe contro il muro, la scaraventò a terra, dove rimase. Scagliò le due boccette d’inchiostro nel varco creato dalla lampada, rovesciò la scrivania, evitando per un soffio di farla cadere sui suoi  piedi. Una pergamena volò in alto, prima di ricadere e graffiargli il polso. Si girò, furioso, verso il letto e tirò un calcio alla testata in legno.
Si fece più male lui che il mobile, ma non ci badò, strappando con la smania assassina di una bestia le lenzuola. Rovesciò il comodino, si aggrovigliò le gambe nelle coperte, ma non smise di mettere a soqquadro la stanza finché non ci fu più niente da distruggere.
Allora, si lasciò ricadere sul tappeto, esausto come mai prima d’ora. Si presa la testa tra le mani, conficcando le unghie nelle tempie.
Se c’era un’unica consapevolezza ancora integra, era quella che non avrebbe pianto. Mai. Se l’avesse fatto, sarebbe stato come ammettere di essere debole e distrutto da ciò che stava accadendo a Jackson Hill, perciò era meglio far finta di niente e mentire a sé stesso.
Allentò la presa sulla sua testa, una mano gli ricadde in grembo aperta. Il foglio di carta gli aveva procurato un taglietto di sbieco a qualche centimetro dal polso, dove una cicatrice più vecchia era in netto contrasto con la sua carnagione.
Era appena accennata, una lieve ruga biancastra, posta orizzontalmente rispetto alle vene. Nico sentì che si stava aprendo un varco oscuro davanti a lui.
Si ricordava come si era procurato quella cicatrice. Era piccolo, uno dei primi anni che passava alla villa, e non aveva voglia di uscire a giocare in giardino come Percy. Aveva deciso di perfezionare la sua scrittura, così aveva preso la carta e l’inchiostro scuro e si era posizionato in cucina.
Aveva fatto un po’ di fatica a trovare una posizione che gli permettesse di scrivere comodamente, visto che la sedia era troppo bassa e il bordo del tavolo troppo alto. Si era messo di buona lena a trovare uno stile che lo compiacesse del tutto, uno in cui le “a” non fossero troppo arzigogolate e le “g” non si confondessero con le “effe”.
Gli era bastato spostarsi di qualche millimetro per urtare col gomito la boccetta d’inchiostro e, nella foga di non sporcare, fare un pasticcio ancora più grande. Aveva fatto cadere il vetro e, per afferrarlo in tempo, si era sporto troppo a destra ed era caduto. Un coccio gli aveva procurato quel taglio sul polso, che aveva subito iniziato a sanguinare.
Non sapendo cosa fa, era rimasto in quella posizione impalato. Farsi rimproverare non era nei suoi piani. E aveva creduto che questi fossero andati in fumo, quando Percy era comparso sulla soglia della cucina e aveva strabuzzato gli occhi verde oceano.
Era stato sul punto di dirgli di andarsene via, di lasciarlo in pace – magari con l’aggiunta di qualche insulto, giusto per essere convincente –, quando il ragazzino si era impossessato di una pezza e l’aveva porta lui.
Nico l’aveva guardato come si guarda un folle, così Percy gli si era inginocchiato accanto e aveva premuto il panno sul taglio, per fermare il sangue. Non aveva detto una parola ma, il giorno dopo, Nico era andato a giocare in giardino con lui.
Ora, vide il baratro avanzare verso di lui inesorabile. Chiuse gli occhi, strinse le palpebre e urlò. Un unico, lungo, ululato di dolore che scosse l’intera villa.
 
 
Bianca strinse le dita sulla gonna per impedire alle mani di tremare. Immaginava che suo fratello si sarebbe comportato in quel modo, ma sentire tutto quel trambusto, le sue grida, la stava lacerando dall’interno, perché sapeva che lei aveva contribuito a causargli quel dolore.
Avvertì un tocco lieve e, allo stesso tempo, sicuro alla base della schiena. Pensò si trattasse di Annabeth, così si portò una mano indietro e strinse l’altra. Si tese come una corda di violino, quando sentì sotto i suoi polpastrelli la pelle ruvida e i calli sulle nocche di Beckendorf.
Lasciò andare la mano, fece un passò avanti e si voltò, cercando di non arrossire. Il fabbro le sorrise timidamente.
«Mi era sembrato che vi servisse un po’ di conforto» esordì.
«Non ce n’è bisogno» mentì. «Mi sto solo preoccupando per la finestra… non sarà facile… sapete… ripararla.»
Beckendorf si avvicinò, mantenendo sempre quell’aria gentile e mite.
«Mia moglie dice che, per raccontare una bugia credibile, si devono fornire molti dettagli  e, molto importante, non interrompersi mentre la si sta pronunciando.»
La donna si mordicchiò il labbro inferiore, indecisa se continuare quella farsa oppure abbandonarsi alla dolcezza rassicurante del fabbro. Stava per negare che stesse mentendo, quando l’urlo di Nico attraversò la villa. Si sarebbe portata le mani alle orecchie, se lo stupore misto a un velo di terrore non le avesse bloccato i movimenti.
Che cosa sta facendo là sopra?, si domandò.
Sentì le braccia calde e forti di Beckendorf accoglierla in un rifugio sicuro che sapeva di sale e sudore. Si aggrappò al suo petto come un gattino bisognoso d’affetto, incassò la testa nella curva tra spalla e collo, e lasciò che il primo singhiozzo la scuotesse da capo a piedi come un albero sotto i colpi di un’accetta.
 
 
Annabeth udì il tintinnare del campanello della porta principale che annunciava l’entrata di qualcuno.
«Avanti» accolse, alzando la voce per farsi sentire.
Era sul retro del negozio di Lee e Yew, i quali, dopo aver passato una nottata in bianco a visitare donne anziane che avevano rischiato un attacco di cuore per la notizia che Percy sarebbe stato frustato  e altrettante persone che erano svenute quando questo era accaduto, erano ritornati a casa dalle loro famiglie.
Anche lei si sentiva stanca e spossata, ma aveva deciso ugualmente di sistemare gli articoli della farmacia, visto che già doveva recarvisi per recuperare lo scialle che aveva dimenticato. Ripose con cura una scatola contenente delle garze, prima di andare incontro al cliente.
«Avete bisogno di qual-»
Le parole le morirono in bocca quando riconobbe chi si trovava davanti.
Capelli biondi, occhi chiari e una cicatrice diagonale sulla guancia, oltre all’uniforme rossa impossibile da distinguere. Sulla mascella sinistra c’era l’inizio di un livido violaceo, che si irradiava da un taglio poco profondo vicino al labbro.
Annabeth recuperò il sangue freddo e ripeté la frase: «Avete bisogno di qualcosa?»
Luke Castellan mosse qualche passo nella farmacia, avvicinandosi al bancone dove anche lei si stava dirigendo.
«È sempre così difficile trovare un negozio aperto a quest’ora del mattino?» domandò, appoggiando i gomiti sul legno.
Annabeth non rispose. Prima di fare qualunque mossa, avrebbe analizzato il terreno di gioco e l’avrebbe sfruttato a suo vantaggio.
L’inglese sbuffò. «Mi serve solo dell’alcol per sciacquare la ferita, procurata da una pietra che è stata lanciata involontariamente nella mia direzione e che, sempre involontariamente, mi ha colpito.»
«Certamente» disse la donna, sorridendogli.
Scomparve nel retro, facendo finta di cercare ciò che le aveva chiesto il soldato. Appoggiò la schiena a uno scaffale e respirò profondamente.
Era davvero sicura di voler fare quello che aveva in mente? Scoprire i segreti di Luke Castellan con la maschera di una donna premurosa?
Assunse un cipiglio deciso, prese una bottiglietta di vetro bombata e una benda pulita, dopodiché ritornò da lui. Appoggiò prima la boccetta e poi la garza sul bancone, lasciando che l’inglese le osservasse per bene.
Luke alzò un sopracciglio, confuso.
«A tutti i cristiani gli stessi trattamenti. Un oceano non dovrebbe dividere così uomini e donne di Dio» spiegò Annabeth, assumendo un’aria piuttosto convincente.
L’inglese sembrò colpito, ma accettò di sistemare due sgabelli di fronte al bancone e di sedersi per farsi medicare.
La bionda svitò il tappo della boccetta, lo ripose sul tavolo e bagnò la benda, ripiegata più volte su se stessa, con l’alcol. Si accomodò sullo sgabello alto, si sporse verso Luke Castellan e poggiò con tutta la delicatezza di cui fu capace la pezza imbevuta sul suo taglio.
L’inglese sussultò lievemente, mistificando il dolore grazie al suo rigido contegno.
«Scusate» disse piano, ritirando indietro la mano. «Dovrei ricordarmi che non siete invulnerabile.» Liquidò le domande dell’uomo con un gesto vago che equivaleva a “bizzarri racconti popolari su voi inglesi”.
Annabeth riprese a pulire dal sangue la ferita con ancora più dolcezza, apparentemente senza badare alle occhiate che le lanciava il soldato. La sua mente, intanto, lavorava per trovare una strategia che le permettesse di scoprire qualcosa sul suo conto.
«Siete la prima persona che non mi tratta come un usurpatore» esordì Luke Castellan, assumendo un tono che Annabeth non gli aveva mai sentito.
Era più morbido rispetto all’asprezza del suo accento e alla ruvidezza dei suoi ordini.
Le tremò impercettibilmente la mano, che fece troppa pressione sul taglio. L’inglese storse la bocca in una smorfia, corrugò involontariamente la fronte, formando un solco tra le due sopracciglia bionde. Annabeth lo trovò tenero, ma subito dopo si obbligò a non pensare a simili sciocchezze.
«Forse perché non lo siete» replicò, imbevendo nuovamente la pezza nell’alcol. «Nonostante non creda a ciò che avete declamato al vostro arrivo» continuò, senza dare il tempo al soldato di intervenire. «Non si pensa ai negri quando si è in guerra, o sbaglio?»
L’uomo la guardò negli occhi.
«Quanta perspicacia» commentò, e non c’era traccia di scherno nella sua voce, solo sincera ammirazione.
«Mio padre è un bravo giocatore di scacchi, mi ha insegnato immedesimarmi nell’avversario per riuscire a prevedere le sue mosse» si schermì.
«Allora» considerò Luke Castellan, «dobbiamo la vostra istruzione e intelligenza a vostro padre, mentre la vostra grazia a vostra madre.»
Il suo cuore stava accelerando i battiti. Non credeva possibile che l’inglese fosse capace di tali parole. Ma non poteva tirarsi indietro proprio ora che era vicina a una confessione.
Finì di disinfettare la ferita dell’inglese, mentre chiedeva: «La Corona vi ha spedito qui per spiare noi americani dall’interno o per innamorarsi delle donne?»
Sentì che la sua domanda suonava molto come una sfida.
Fece per ritirare la mano, abbandonando il panno sul bancone, ma l’inglese la fermò.
«Entrambe» mormorò Luke Castellan, mentre accompagnava il mento e le labbra di Annabeth sulle proprie.
 

Angolino dell'autrice
Ok, ammetto di essermi gasata parecchio per quest'ultima scena. Il che è strano, dato che in genere non sono per le Lukabeth. Amen ^u^
Luke frusta Percy ma va'? e Jackson Hill va nel panico. E' Annabeth a trovare una possibile soluzione a questo casino, perché, se lei non fosse di proprietà di zio Rick, per me sarebbe una stratega militare di grande successo.
E se Nico non fosse di zio Rick, sarebbe un panda da stritolare e portarsi a letto uwu
Se Bianca non fosse morta, così come Beckendorf e Silena, lui tradirebbe la fidanzata per andarsene con Bianca. Perché l'anon spacca la monotomia del canon.
Comunque, la morfina è stata ufficialmente inventata nel 1804, ma era già presente al tempo di Costantinopoli, dopodiché era diffusa anche tra la Compagnia delle Indie. Anche senza quel nome, c'era, e a me serviva. Sì, Water ha fatto i compiti xD
Anyway, ringrazio la mia compare nico_green che ha recensito, insieme a Sapientona e EmmaStarr.
Buon Natale!

Water_wolf

 




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2352245