LACRYMOSA
- Bene, direi che ora possiamo passare al prossimo test.
Jill alzò lo sguardo con un nervoso movimento del collo,
mentre si risistemava con due dita la manica della maglietta lungo
l’avambraccio. Anche se nascosto dalla stoffa, il livido violaceo causatole
dalla siringa del test sanguigno continuava a pulsarle dolorosamente sulla
pelle. Jill si visualizzò una serie di minuscoli microaghi che le trafiggevano
con precisione meticolosa lo stesso punto dolorante.
- Ho già fatto i miei test giornalieri, dottoressa.
La dottoressa Turner ridacchiò a bassa voce. La sua
sarebbe stata una risata gradevole se una scarica di statico non ne avesse
deformato il suono, riducendolo ad una sorta di gracchiare metallico. L’immagine
ebbe un guizzo color arcobaleno, e per un attimo il sorriso della donna si
deformò in modo quasi grottesco. Passò qualche secondo prima che l’immagine
sullo schermo al plasma si stabilizzasse nuovamente, anche se i pixel
apparivano deformati in più porzioni.
- Accidenti, - sibilò seccata la dottoressa, tirando una
ciocca dei suoi artificiali capelli neri per esprimere il suo disappunto, - Non
ne posso più di questa faccenda. Tolgono fondi alla divisione Medicina
Sperimentale per finanziare quella dell’Eugenetics, e
la tecnologia che siamo costretti ad usare è quella che quei bastardi buttano
via. Sono di manica dannatamente stretta. Ma non perdiamo tempo con queste
cose, non ci interessano. Il prossimo esame è un po’ diverso da quelli a cui ti
sottoponi di solito… Chiamalo un’extra, va bene? La stanza è la prima del
corridoio a destra. Ti aspetto là.
Con un ultimo fruscio elettrostatico, l’immagine della
dottoressa Turner si spense. Jill rimase a guardare con occhi disincantati il
paesaggio paradisiaco, - una pubblicità? - che aveva riempito lo schermo: acqua
trasparente, vegetazione ricca, un’isola. Il mare era così trasparente che si
potevano quasi contare i granelli di sabbia sul fondale, così come le foglie
delle palme erano così verdi da sembrare sintetiche.
Guardò fuori dalla stanza. Un taxi passò sferragliando
davanti alle finestre, che tremarono per la vicinanza a cui era passato. La
torre grigio ferro dell’Eugenetics si ergeva sopra
tutti gli altri edifici color rame sporco di New York. Una piramide egizia
fluttuava sopra i tetti della città, indisturbata. Era comparsa all’improvviso
qualche giorno prima e nessuno era ancora riuscito a contattarne gli abitanti.
Questo è il duemilanovantacinque, pensò Jill, toccando lo
schermo al plasma con la punta di un’unghia, chissà se mai sono esistiti posti
come questo… Ma probabilmente è tutto un’ennesima illusione ottica creata
dall’alta tecnologia.
Prese in mano il suo impermeabile ed uscì. La dottoressa
aveva detto la prima porta del corridoio a destra: quella era una sezione
dedicata unicamente alle analisi degli esseri umani, non delle cavie da
laboratorio mutanti. Perché le aveva chiesto di andare lì?
La stanza aveva le pareti bianche ed asettiche di una
camera d’ospedale, completamente priva di finestre o schermi. La dottoressa
Turner l’aveva realmente aspettata, stavolta in carne ed ossa, e sorrideva
divertita di fronte al suo stupore.
- Dove sono i macchinari? – domandò Jill, puntando lo
sguardo a casaccio, sul pavimento e sulle pareti, tentando di scovarne
qualcuno.
- Nessun macchinario, - replicò tranquilla la donna, - Te
l’ho detto che era un esame extra… Oh, ecco che arriva la nostra attrezzatura.
Paul, fammi un favore, sii delicato con quella roba… Quelli del quinto piano
hanno fatto un sacco di storie per prestarmi tutto.
- Quinto piano? – chiese Jill, fissando interessata
l’ometto calvo in camice bianco appena entrato nella stanza. L’ometto scosse la
testa ed appoggiò sul pavimento quella che sembrava una grossa scatola da
scarpe in legno, prima di asciugarsi la fronte.
- No, io sono del sottolivello uno, - corresse, come se
la domanda fosse rivolta a lui, - Sono in prestito al quinto per ragioni
burocratiche.
- Gioia, non abbiamo tempo, - tagliò corto la dottoressa
Turner con un sorriso tirato, - Fai quello che devi fare e poi vai, per l’amor
del cielo.
- Scusa Elma… Dimenticavo che
quando lavori sei intrattabile.
L’ometto si rimise al lavoro con la sua scatola, mentre
la donna prendeva Jill sotto il braccio, con fare confidenziale, e le faceva
fare un giro della stanza.
- Vedi Jill, - disse, - Ti ho già detto che tu sei la
cavia da laboratorio più straordinaria che io abbia mai visto non appena ci
siamo conosciute… Riesci a ricordare?
- Sì. Mi ha trovato alla selezione per le cavie alla Eugenetics.
- Bene, quelle strane pillole rosse che prendi non hanno
cancellato questo ricordo… Sì, sei straordinaria per via dei tuoi organi, che
hanno la stessa struttura di chi è nato tre mesi fa, e per il processo
metabolico che il tuo corpo sta attraversando. Ma anche la tua psicologia è
interessantissima, per una creatura mutante. Prendi quelle pillole che ti
procuri chissà dove per bloccare i tuoi ricordi, giusto? Ma tu non ricordi cosa
vuoi dimenticare, o non vuoi dirmelo. Per questo sarei contenta di vederti alle
prese con quella che gli umani chiamano vena artistica… “Che cos'è l'arte se
non un modo di vedere?” chiedeva uno scrittore di cui non ricordo mai il nome…
Ed io desidero vedere il mondo come lo vedi tu.
- Dottoressa, per quello può prelevarmi un campione di
cornea.
La Turner rise come ad una battuta, e le diede
bonariamente qualche buffetto sul braccio.
- Su, Jill, non ho mai chiesto a nessuno dei miei
pazienti di fare una cosa del genere… Mi serviva una persona speciale, e ho
trovato te. So che non mi deluderai.
L’ometto se n’era andato, quando smisero di girare per la
stanza. Al suo posto, faceva bella mostra di sé una strana impalcatura di legno
con sopra fissata una tela di morbida stoffa bianca.
- Quello è un cavalletto, - spiegò la dottoressa, -
Risale al secolo scorso, quindi trattamelo bene. Ah, lì ci sono le tempere,
servono per dipingere… Sai di cosa parlo per dipingere, vero?
Sì, Jill lo sapeva. Era stata in un museo che raccoglieva
opere del novecento solo qualche giorno prima, ed era rimasta affascinata per
come gli autori riuscissero ad esprimere i loro sentimenti con semplici
pennellate. Il rosso, tracciato con la furia di un graffio sulla tela? Quello
vuol dire rabbia. L’azzurro, il colore di un cielo che New York osservava solo
immerso nelle tonalità cupe e spente del fumo? Quello vuol dire che sono
sereno, che va tutto bene, ma è così triste che il cielo non sia più di quel
colore, Jill… E poi c’è il blu. Oh, è quello il tuo colore, Jill! Si usa il blu
quando si è tristi, per questo le tue lacrime sono blu…
La dottoressa Turner fece un cenno soddisfatto quando la
vide annuire.
- Molto bene, ci siamo capite. Puoi rappresentare tutto
quello che vuoi, Jill. Non hai limiti di tempo. Io esco, così puoi concentrarti
meglio…
La donna probabilmente disse qualcosa d’altro, ma Jill
non lo sentì. Il sangue prese a ronzarle prepotentemente nelle orecchie,
facendole dimenticare anche il dolore al braccio, quando prese in mano il primo
tubetto di colore. Blu.
Svitò il tappo e lo annusò. Dopo qualche secondo decise
che l’odore le piaceva, perciò spremette un poco il tubetto per lasciarsi
qualche traccia di tempera sul polpastrello. Quando provò a assaggiarlo scoprì
che no, il sapore era orribile. Peccato.
Jill premette con forza l’indice umido di colore sulla
tela, e quando lo tolse scoprì che aveva lasciato una piccola striscia grumosa
di un bel colore turchino. Si accorse del pennello e di quelle sue morbide
setole di pelo solo in seguito, quando abbassò lo sguardo sulla valigetta dei
colori per cercare un altro tubetto.
Allora, ricordandosi di un autoritratto di pittore che
aveva visto al museo, collocò una sedia davanti alla tela e ci si sedette
sopra, sforzandosi di ricordare l’esatta postura del braccio dell’artista e
delle grazia con cui lui reggeva il pennello.
Scoprì che dipingere le piaceva. Fuori da una finestra
lontana, New York ammuffiva dietro pareti d’acciaio e croste arrugginite: davanti
a lei, i colori splendevano vividi.
Cambiò tela tre volte, prima di decidersi a lavorare
seriamente. Non lo faccio per la Turner, si disse Jill, - non la considerava,
in fondo, solo una speciale e strana cavia da analizzare? – ma lo faccio per
me. Voglio vedere. Voglio veder vivere quel giardino alla televisione e
prendere tra le mani la sabbia del mare.
Eppure, mentre la sua mano si muoveva con sicurezza sulla
tela, tracciando e correggendo, abbozzando e riempiendo, scoprì che non era un
giardino ciò che stava creando.
Era un uomo. La figura non si distingueva bene, perché
una luce calda lo investiva da dietro, lasciando i lineamenti nell’ombra,
eppure uno spicchio di colore rosso della maglietta riusciva a mostrarsi agli
occhi dello spettatore. Al posto dei riflessi colorati di un locale notturno, la
fantasia di Jill lo aveva collocato in un immaginario cubo di vetro. Anche se
non c’era traccia di blu, in quel quadro, la postura stessa dell’uomo, -
sguardo verso il basso, spalle curve, - esprimeva un senso di tristezza ed
impotenza.
Jill sentì che era terribilmente sbagliato nel momento
stesso in cui diede la pennellata finale.
- No! – esclamò, allontanandosi di colpo dal suo
esperimento. Si prese la testa tra le mani, schiacciandosi con violenza le
ciocche di capelli blu fra le dita.
- No! – ripeté - Non era quell’uomo che volevo dipingere!
Come aveva fatto a non capirlo? Anche se ringiovanito,
prigioniero della solitudine che attanagliava la stessa Jill, anche se in
ombra, dove i suoi lineamenti marcati ed induriti non si vedevano… Era lui,
l’uomo del bar! Sapeva che era lui!
Ah, bastardo! Non solo l’aveva violentata, dopo essere
entrato con lei nella sua stanza, - Jill non lo ricordava, ma sapeva che era
stato così, - ma si era infiltrato di prepotenza anche nei suoi pensieri! Ah,
maledetto umano! Come l’aveva odiato!
Eppure quell’uomo sembrava così diverso, la mattina dopo,
quando Jill l’aveva sorpreso nel suo letto… Dopo quella notte non c’era più
quel bisogno selvaggio che aveva animato lui ed aveva immobilizzato lei, troppo
debole di fronte a quella forza, era rimasto solo un essere umano qualsiasi, -
ma quanti anni aveva? – quasi dispiaciuto di quello che era accaduto, come se
la cosa non fosse dipesa da lui ma da qualcosa di più grande e potente.
E lei che non ricordava niente… Solo quando l’uomo le
aveva sorriso, accennando ad un saluto con la mano, e le aveva detto “ben
svegliata, Jill”, lei aveva sentito una sorta di disagio profondo, senza ricordarne
bene il motivo. Ovviamente, quando lui le aveva fatto presente la notte appena
trascorsa, Jill aveva come prima cosa impugnato la pistola. Sarebbe stato
meglio per tutti e due che lei gli avesse sparato davvero, invece di
minacciarlo soltanto… Eppure non l’aveva fatto, si era girata ed era andata
dalla Turner per fare i suoi esami giornalieri.
Jill si accorse di stare piangendo solo quando vide le
mani striate dal blu delle sue lacrime. Scosse la testa, disgustata da se
stessa e dall’uomo che era ancora nella sua camera, - vivo! -, e scrollò le
mani in aria, come per purificarle.
Alzò gli occhi, dopo che si fu asciugata il viso con la
stoffa plastificata dell’impermeabile. Alcune gocce di blu erano finite sulla
tempera ancora fresca, chiazzandola in più parti. Una era finita sul volto
dell’uomo e stava colando giù dall’abbozzata guancia di lui, giù dai suoi solo
immaginati occhi.
Ora anche lui sembrava davvero triste.
Per me non ha
importanza chi sia. Non mi importa di come si chiami.
Lo dimenticherò con
una pillola di John. Mi basterà inghiottire quel piccolo punto rosso o giallo e
tutto sarà nebuloso, dalla nebbia vorticante che mi occuperà la testa verrà
l’oblio. Non ricorderò nulla.
Farò così. Tornerò
a casa e vedrò il mio letto ancora occupato. Andrò in bagno e prenderò la
pistola, ne sentirò il freddo metallo sotto i polpastrelli, le mie dita
sposteranno la sicura con uno scatto automatico ed io sarò pronta.
Appoggerò la fronte
contro lo specchio, il gelo di quel contatto mi entrerà nelle ossa, e lascerò
che le mie lacrime tornino a scorrere per un’ultima volta.
Aspetterò che i
miei occhi siano asciutti e tornerò nella mia camera con le guance ancora
striate di blu.
Imbraccerò con
entrambe le mani la pistola. So usarla, e so usarla bene. Non sbaglierò il
colpo.
Lo ucciderò,
quell’uomo, un solo proiettile. Gli bacerò la fronte, gli scosterò dalle tempie
i capelli e gli appoggerò la bocca dell’arma contro la sua calda pelle umana.
Premerò il
grilletto. Il suo corpo darà un sussulto, quando il cervello macchierà il
bianco del cuscino, e se sarà fortunato morirà subito. Altrimenti girerà i suoi
occhi spaventati verso di me, le sue labbra riarse sillaberanno il mio nome,
forse anche lui spenderà qualche lacrima vedendomi così triste.
Morirà, comunque.
Vedrò il colore grigio cielo spegnersi lentamente nei suoi occhi, la vita
fuggirà via tra i denti, come dice uno di
quei vecchissimi poemi che la mia memoria ha conservato senza motivo, gli terrò
la mano e sentirò il suo palmo diventare freddo, sempre di più, con la lentezza
di una fiamma che consuma l’ultimo tratto di stoppino. E’ un’immagine così
poetica... Morire lentamente, come si spegne una stella o una candela senza più
nulla da bruciare.
Mi sbarazzerò del
cadavere senza problemi. Lo getterò dalla finestra e nessuno si accorgerà di
nulla. Molti cadaveri si trovano a bordo delle strade e nessuno se ne cura, né
mutanti né umani. La mia forza è maggiore di quella di una donna normale, non
avrò problemi a sollevare il corpo e a spingerlo fuori.
Correrò in bagno.
Piangerò molto, le mie lacrime blu bagneranno il metallo rovente della pistola
ancora fumante. Laverò le mie mani rosse del suo sangue con un getto d’acqua
gelida, vedrò quel colore cremisi sfilacciarsi nella porcellana del lavandino,
lo osserverò cambiare colore e diventare arancione, di un giallo sporco,
diverrà bianco ed infine l’acqua lo trascinerà con sé nel suo risucchio.
Appoggerò la
pistola sul bordo della basca ed aprirò l’armadietto dei medicinali con le mani
ancora umide. Le mie dita tremeranno, quando prenderò il flacone, ma la mia
presa si salderà come una morsa attorno alla plastica del flacone.
Prenderò una
pillola fra due dita: la rigirerò, osservandone il colore alla luce del neon,
premerò il palmo sulla mia bocca per costringermi ad inghiottirla.
Sentirò quel
piccolo nodo all’altezza della gola e deglutirò più forte. Lo sentirò scendere
nel mio stomaco e poi sarà tutto finito.
Finito. Come quel
quadro, quel disegno fatto di vivi colori che ora è ridotto ad una tela
lacerata. Ho preso la spatola, l’ho colpito con tutta la mia forza, e del mio
lavoro non è rimasto nulla.
Finito. Fine, black out.
Facile. Come quando
si spegne un televisore.
- Sei ancora qui,
umano?
La sua mano corse
ad una tasca dell’impermeabile ed afferrò la capsula di plastica contenente le
pillole di John. Se ne versò alcune sul palmo, - uno, due, tre pillole gialle,
- e se le infilò in bocca con un tremito.
Le inghiottì
subito.
Jill spinse
leggermente la porta della sua stanza d’albergo, sporgendo la testa verso
l’interno…
Il silenzio, il benedetto silenzio, regnava nella stanza.
Se ne sentì sollevata.
Era così sollevata che lasciò la giacca sulle lenzuola
ancora sfatte, - le butterò via più
tardi, si ripromise Jill mentalmente, - e corse ad aprire la porta del
bagno. Aveva bisogno di lavarsi il viso e di farsi un bel bagno tonificante,
poi avrebbe dormito fino all’indomani. Quando si sarebbe svegliata, la mattina
dopo, le pillole avrebbero già agito sul suo organismo e le avrebbero
cancellato quei ricordi orribili.
Gli anfibi scivolarono sul pavimento di piastrelle con
uno schiocco e la mutante fu costretta ad aggrapparsi allo stipite della porta
con entrambe le mani per non cadere.
Le mattonelle erano bagnate. Jill si abbassò cautamente
per guardare meglio. Erano impronte di piedi umani. Anche i bordi di ceramica
della vasca erano umidi, lo sentì passandoci sopra il dito.
Jill si portò le mani alla gola con un rantolo. Le
pillole. Si sentiva il palato secco.
Quando avrebbero fatto effetto? Lei si sarebbe trovata
con uno sconosciuto in camera senza avere la possibilità di ricordare del
perché lo odiasse così tanto?
Clac! La porta della stanza si
aprì di nuovo. Sentì qualcuno sbuffare ed avanzare nella stanza.
Jill spalancò l’armadietto a muro mentre un tremito le
scuoteva le braccia. La pistola era ancora lì.
- Jill, sei tu?
Qualcosa, nella sua testa, esplose. Il fatto che quel
bastardo la chiamasse per nome ruppe definitivamente ogni suo dubbio.
- Facile. Come quando si spegne un televisore, - mormorò lei,
togliendo la sicura all’arma. Le mani non le tremavano più.
- Jill?
I passi si erano fermati. L’uomo doveva trovarsi in mezzo
alla stanza, ma non riusciva a vederla. Jill aveva chiuso la porta del bagno
con un calcio, quando si era allungata per prendere la pistola. L’arma era così
fredda che le pareva scottare in mano.
- Sono qui, - esclamò lei, aprendo la porta di scatto.
Non ebbe neanche bisogno di mirare.
***
Si premette con forza una mano sulle labbra. Aveva ancora
il gusto acidulo della bile a sfregarle contro il palato ed il suo stomaco
continuava ad essere attraversato da conati violenti.
Aprì la bocca sul lavandino, ma quello che uscì fu solo
una bava di saliva amara. Non c’era più niente che lei potesse rigettare. Girò
la manopola del rubinetto e bevve avidamente l’acqua fredda, per poi pulirsi le
labbra umide sulla manica.
La pistola era ancora sul pavimento, dove l’aveva
lasciata cadere quando l’arma aveva smesso di saltarle in mano. Gli anfibi avevano
tracciato una serie di orme insanguinate sulle piastrelle bianche.
Anche la manica dell’impermeabile, chissà come, si era
macchiata. Quando si era pulita, il sangue le aveva lasciato una striscia rossa
e vischiosa lungo la guancia.
Jill si passò la mano ancora umida d’acqua sul viso per
lavarsi. La striscia scarlatta le rimase impressa sulla pelle come un sigillo.
La mutante si passò ancora il dorso sulla faccia, sfregandolo più volte sulla
guancia, eppure il sangue non veniva via.
- Merda, merda, merda! – gridò Jill quasi istericamente,
cercando di resistere alla tentazione di affondare le unghie nella carne per
strapparsi la pelle dal cranio. Dio, non voleva avere quella cosa in faccia!
Non quel sangue, no!
Il flacone di plastica si ruppe per la violenza con cui
lei lo afferrò. Senza nemmeno contarle, Jill si infilò in bocca le pillole che
si trovò in mano.
Per un attimo sentì nella testa il ronzio insistente di
una televisione senza volume.
Prima di raggiungere il pavimento era già svenuta.
***
- Buona serata, signorina, - gracchia il buttafuori
quando la vede uscire dal ripostiglio.
Jill non risponde. Affonda le mani nella tasca
dell’impermeabile e tocca il flacone di pillole che le ha dato John, giusto per
sicurezza.
E’ ancora lì, per fortuna. Jill sospira di sollievo.
John le ha appena detto a che cosa servono quelle
pillole. Hanno la funzione di bloccare i ricordi del passato sopiti nella sua
mente e di cancellare il presente, se serve. Jill sente ancora la mano
inguantata del suo mentore infilare una pillola rossa fra le labbra, e sente
ancora la sua voce nelle orecchie.
Vuole bene a John. Lo conosce da quando ha memoria… Cioè,
dalla memoria che ha conservato.
Si fida di lui, perché John la considera come sua figlia
e lei lo considera suo padre e guida. Questo anche se i mutanti non hanno
genitori, solo creatori.
Ma non è il momento di pensare a John: sa che se continua
a pensare a lui vorrà rivederlo subito, ma lui le ha detto che passeranno
giorni prima del loro prossimo incontro.
Perciò porta
pazienza, Jill, e trova qualcosa da fare per distrarti. Per esempio, puoi
continuare a fare da cavia a quella strana dottoressa che sembra essersi
affezionata a te…
Così le ha detto John. E lei lo ascolterà, come sempre.
Le luci del bar pulsano come la musica che esce dalle
casse. Sulla pista ci sono mutanti ed umani, anche se sono questi ultimi i più
presi dal ritmo ed i più scatenati.
Jill sorride, anche se stavolta non è per merito di John.
Le piace osservare gli umani, ma non li invidia.
Se le chiedessero quale sia la più grande paura, Jill
risponderebbe che è quella di diventare come loro. Sono troppo deboli ed
emotivi.
Però le piace ballare con gli esseri umani. Hanno dei
buoni odori. Perciò lascia cadere l’impermeabile su una sedia vicina al
bancone, - il flacone di pillole riposa nella tasca dei jeans, - e scivola tra
i corpi caldi dei ballerini, cercando uno spazio per sé nella folla danzante.
Chiude gli occhi. Le luci che lampeggiano le feriscono
gli occhi, non vuole che la distraggano. Ascolta il ritmo ed il suo corpo balla
da solo. La mente è altrove.
Qualche giovane umano la trova avvenente, la trova brava,
perciò le si avvicina esitante. Gli altri mutanti non osano: sanno quando una
loro simile è pericolosa, lo sentono a pelle.
Jill si porta le mani alle tempie, seguendo la musica, e
sorride al ragazzo che la osserva estasiato. La guarda a pezzi: capelli, occhi,
labbra, una donna tutta blu che al suo sguardo deve assomigliare più ad una dea
che ad una mutante.
Lei smette presto di ballare. Lascia la pista veloce come
quando è arrivata, e la sua uscita è seguita da una serie di occhiate maliziose
o dispiaciute.
Quando si rimette l’impermeabile nero, i ballerini sulla
pista l’hanno già dimenticata. E’ tornata ad essere un’anonima mutante, nell’aria
fumosa ed acida di birra del locale.
Ordina un cocktail ed il barista si mette a mescere con
precisione i liquori del drink. Lei si siede ed aspetta che il rituale della
bevanda sia finito.
- Balli proprio bene, sai? Ed è raro vedere una persona
danzare quando è completamente sobria… A meno che non sia pazza.
Jill si gira verso il proprietario della mano che le si è
posata, possessiva, sulla sua spalla. Si aspettava di vedere il giovane della
pista, invece ad avvicinarla è stato un uomo, un adulto e non un ragazzino
imberbe.
Le luci colorate del locale le impediscono di vedere bene
il suo viso. Comunque sembra un bel volto, anche se segnato da qualche ruga
sulla fronte. Gli occhi sono azzurri grigi, il sorriso cordiale.
- Me lo dicono in tanti, - ribatte Jill, rivolgendo la
sua attenzione al cocktail appena arrivatole. La conversazione è già finita,
per lei, ma pare che per lui non sia la stessa cosa.
- Non dovresti bere quella roba. E’ molto alcolica.
- Il liquore non ha effetto su di me, umano.
- Non lo sapevo. In questo caso, ti chiedo scusa per
essermi impicciato.
- Visto che ci sei, potresti chiedermi scusa anche per
avermi infastidito ed andartene.
Lui ridacchia. Forse si sta chiedendo se
quell’aggressività è genuina oppure se è una tattica seduttiva…
Non che la cosa le importi, sia chiaro.
- Sei qui da sola?
- So difendermi, quindi risparmiati la battuta “le
ragazze non dovrebbero venire in un locale come questo da sole”
- Tu sei una mutante, non una ragazza.
- Appunto. Guardati in giro, umano. Non vedi in giro
qualche “ragazza” che possa accettare di buon grado le tue avance?
- Ne vedo, ma non sono graziose come te.
Jill sente di averne abbastanza. Trangugia il suo
cocktail con un sorso e scende dallo sgabello. L’uomo rimane a fissarla divorandosela
con gli occhi.
- Hai bisogno di qualcuno che ti accompagni a casa?
Lei sta per rispondergli per le rime quando qualcosa,
nella sua voce di lui, la costringe ad alzare lo sguardo.
Il sorriso che gli piega le labbra ha una piccola ruga in
più, all’angolo della bocca, che lo rende assolutamente agghiacciante… E, come
scopre Jill incredula, non privo di un certo fascino. Anche la voce ha assunto
una tonalità quasi metallica, come se due persone stesse parlando
sovrapponendosi l’un l’altro.
- Hai bisogno di qualcuno che ti accompagni a casa? –
ripete lui. Voce metallica e ruga ad angolo della bocca.
Stupefatta di se stessa, Jill sente la sua testa abbassarsi da sola in un cenno d’assenso.
***
…Finito. Come quel
quadro, quel disegno fatto di vivi colori che ora è ridotto ad una tela
lacerata. Ho preso la spatola, l’ho colpito con tutta la mia forza, e del mio
lavoro non è rimasto nulla.
…Vorrei dire così.
Invece no, l’ho lasciato dov’era, intatto. La dottoressa sarà contenta di
vedere cosa ho fatto… O forse no. Comincerà a chiedermi chi è quest’uomo, dove
l’ho visto o perché mi ha colpito così tanto.
Ma per me, ormai,
la faccenda è finita.
Finita. Fine, black out.
Facile. Come quando
si spegne un televisore.
- Sei ancora qui,
umano?
La sua mano corse ad
una tasca dell’impermeabile ed afferrò la capsula di plastica contenente le
pillole di John. Se ne versò alcune sul palmo, - uno, due, tre pillole gialle,
- e se le infilò in bocca con un tremito.
Le inghiottì
subito.
Jill spinse
leggermente la porta della sua stanza d’albergo, sporgendo la testa verso
l’interno…
Una leggera musica, un programma tenuto a basso volume, si
spandeva dolcemente per la stanza, come del miele lasciato scivolare lungo una
superficie liscia.
Un uomo cantava. La voce registrata risultava stranamente
calda, anche se si sentiva che il suono era molto datato. Doveva essere una di
quei video del secolo scorso… Programmi che risultavano abusivi, secondo il
governo.
Comunque, quella musica era bella. A Jill faceva venire
in mente della pastella morbida che un dito allargava lentamente, tastandola e
spostandola con delicatezza, come per fare una torta. Oh, una rugosa mano di
donna che preparava la pasta… Un ricordo molto umano. Si chiese da dove le
fosse venuto quel pensiero.
Sexual healing is something that's
good for me , whenever blue tear
drops are falling, and my emotional stability
is leaving me, there is something
I can do… - intonava il cantante, con la sua voce calda e dolce da blues.
Però qualcosa disturbava la musica: un ticchettio
costante, quasi fastidioso. Non era un orologio.
Jill spalancò la porta e la richiuse. L’uomo del bar
c’era ancora. Si era seduto al tavolo sotto la finestra – chi gli aveva dato il
permesso di farlo? – e batteva con energia sopra una macchina simile alla
scatola nera di un aereo. Un foglio di carta bianca si spostava veloce da una
parte all’altra, sotto l’attento sguardo grigioazzurro
dell’uomo. Quando il foglio si spostava troppo sulla destra, con un trillo
scattava a sinistra per poi tornare a spostarsi, a scatti, nella direzione
opposta.
Quando la vide entrare, l’uomo smise di battere sulla
tastiera e le sorrise.
- Bentornata, Jill.
- Tu non hai un altro posto dove andare, umano? – chiese
Jill, infastidita. Qualcosa in lui la feriva profondamente, eppure non riusciva
a ricordare nulla del motivo. Sapeva solo che “conosceva” quell’uomo dalla sera
prima, dove lui aveva cominciato a parlarle in un bar, e che dopo le aveva fatto qualcosa di molto spiacevole… I suoi
pensieri si incappavano quando si sforzava di ricordare il “cosa”. Comunque
doveva avere una casa, un posto dove recarsi che non fosse camera sua… No?
- No, mi spiace, - rispose lui, alzandosi. Sembrava
giovane, malgrado le rughe scure che gli solcavano pensierose la fronte; gli
occhi color cielo di New York sembravano vivi più che mai, a dispetto di un
corpo che sembrava stanco. Si chiese quanti anni avesse, quell’uomo.
- Ti spiace?
- Di non avere un altro posto dove andare.
Jill ebbe la sensazione che qualcosa non quadrava. Doveva
prendere la pistola e sparargli subito, prima di…
Già, prima di fare che cosa? Non aveva già fatto qualcosa
di simile?
- Fammi un favore, imbocca la porta e vattene, - disse
Jill, quando l’uomo le accarezzò la guancia con la mano ruvida, ignaro della
confusione che imperversava in lei.
- Non posso.
- Perché?
Lui rise. Quella risata le fece male, per quanto era
profonda. Le ricordava un po’ John.
- Jill, Jill, - continuò a ridere l’uomo, sfiorandole la
tempia con le dita, - Perché ti tormenti con le domande quando è più facile non
sapere o ricordare?
Per la mutante fu troppo. In preda ad un panico
indescrivibile ed ingiustificato corse in bagno e si chiuse l’uscio alle
spalle. Il cuore pareva battere senza più controllo, e pulsava talmente forte
da farle male.
No, no.
Dei passi, dietro la porta. Lenti, misurati. Li sentiva,
mio dio.
- Jill.
Si tappò le orecchie, premendosi i palmi più forte che
poteva. Non voleva sentirlo. Eppure le parole venivano scandite allo stesso
ritmo del suo cuore impazzito.
- Jill, ti prego.
Crollò sul pavimento, in ginocchio. Persino oltre la
stoffa plasticata dell’abito, sentiva il freddo delle piastrelle. Se le sentiva
aderire sulla pelle delle gambe, e bruciavano.
La maniglia si girò, si aprì. Due braccia le circondarono
le spalle.
La pistola, pensò confusa Jill, devo prendere la pistola…
Ma dove aveva messo la pistola? Non se lo ricordava.
- Shhh, calma, - le sussurrò
l’uomo accarezzandole l’orecchio, una corta ciocca di capelli blu, - Calma,
Jill…
Lei sussultava, spasimi che la scuotevano perché non
voleva scoppiare in lacrime. Non davanti a lui. Voleva odiarlo, ma quello
sguardo gentile glielo impediva. Eppure sapeva che doveva odiarlo… Anche senza
rammentare il motivo.
- Sei stanca. Ti porto a dormire.
La sollevò dal pavimento come se si fosse trattato di
prendere in braccio una bambola fatta di fragile vetro. Jill si sentiva stanca,
stanchissima: gli lasciò fare quello che voleva e gli appoggiò la testa sulla
spalla.
Forse andava bene anche così… Perdonare ciò che non si
ricorda è ben più facile che odiare per ciò che hai cancellato dalla memoria.
- Vedo che la pittura ti sta cominciando a piacere, Jill,
- commentò la dottoressa Turner.
Jill annuì, prendendo a sfogliare con la mano libera dal
pennello un libro sulle opere di Van Gogh che la donna le aveva portato. Si
soffermò pensierosa su un mazzo di girasoli: ne contò quindici nel vaso, poi
cominciò a riprodurre freneticamente il dipinto sulla tela davanti a sé.
- Straordinario, - mormorò ancora la Turner. La mutante
non capì se era riferito al dipinto che stava prendendo vita sotto il pennello
oppure ai tre quadri che riposavano ad asciugare sul pavimento.
I girasoli di Van Gogh era la quinta opera di quella
mattina: la quarta era fra le mani della dottoressa, che la studiava divertita.
- E’ un uomo oppure è un ragazzo? – le chiese, girando il
quadro verso di lei. Jill non lo guardò neppure.
- Un uomo.
- Nelle prime versioni era un ragazzo dalla maglia rossa…
- Siamo cresciuti tutti e due.
La Turner non le domandò altro, anche se era chiaro che
era stupita. Forse pensava che quella creatura umana che popolava i quadri di
Jill fosse solo un parto della fantasia della mutante… O forse cominciava a
sospettare che esistesse un “lui” reale. Jill dipingeva lo stesso personaggio
nella stessa situazione almeno una volta al giorno, anche se quel ritratto
finiva con lo stonare in compagnia alle nature morte o dei paesaggi al tramonto…
Ma era solo una piccola ed innocente fissazione.
Jill pensava a lui, naturalmente, anche quando cominciava
a tratteggiare opere che non lo ritraevano. Era una settimana, o quasi, che
dormivano assieme, e per tutti quei giorni Jill non aveva preso le pillole di
John.
Non ne aveva sentito il bisogno.
Non sapeva come lui si chiamasse, - “umano” andava
benissimo, - e non sapeva il motivo per cui continuasse a prendersi cura di
lei, ma in fondo non aveva importanza.
Non avevano parlato molto, in quei giorni. Lui le aveva
raccontato di aver passato trent’anni in ibernazione per reati politici e di
aver perso la gamba quando la capsula che lo rinchiudeva si era rotta e lui si
era scongelato. Aveva battuto scherzosamente le nocche sulla gamba di ferro, mentre
parlava.
Lei gli aveva parlato del suo lavoro di cavia da
laboratorio e della dottoressa Turner.
Il loro rapporto era strano, molto strano, se si
considerava quanto poco si conoscessero effettivamente, ma andava bene così. Jill
non aveva mai avuto l’impressione di essere trattata come un oggetto. Se si
fosse sentita così, l’avrebbe sicuramente ucciso… Per poi pentirsene subito
dopo.
- Finito, - esclamò soddisfatta, dando l’ultima
pennellata al quadro. I girasoli riposavano nel loro vaso di ceramica, le
corolle tendenti verso il basso ed i petali sporchi e flosci. Era perfetto, era
uguale all’originale.
La dottoressa Turner si lasciò sfuggire un fischio.
- Il miglior Van Gogh che abbia mai visto. Un bel pezzo
da museo, direi.
- Devo andare a casa, ora, - fece Jill, posando
attrezzatura e pennelli nella valigetta che le avevano prestato. Prese
l’impermeabile e se lo gettò distrattamente sulla spalla, pensando già all’uomo che la aspettava davanti alla
macchina da scrivere, nella loro stanza condivisa.
- Mi fa piacere che siamo riuscite a scoprire la tua vena
artistica assieme, Jill, - disse la Turner, posandole la mano sulla spalla, - Di
certo non mi aspettavo che tu avessi un così grande talento naturale nella
pittura… Penso che dovrei ringraziare il
tuo amico John per avermi consigliato questo esperimento.
Jill sbatté gli occhi un paio di volte, per assicurarsi
di aver capito bene. Come faceva la dottoressa a conoscere John? Lei gli aveva
raccontato che era lui a darle le pillole, ma nient’altro…
- E’ venuto qui al laboratorio, - le spiegò la donna con
un sorriso sornione, - E mi ha detto di provare a darti in mano un pennello e
dei colori… Mi ha detto che era l’unica cosa umana che voleva che ricordassi.
La mutante aprì la bocca, poi la richiuse. Non aveva
parole.
Forse era stata donna anche lei, un tempo? Prima di
diventare mutante aveva avuto una pelle calda come quella del suo umano, aveva
provato le stesse emozioni?
Si infilò l’impermeabile ed uscì. La dottoressa Turner la
richiamò indietro.
Jill continuò a camminare.
- Cancellami, Jill.
Lei lo guardò negli occhi, per capire se scherzasse. Ma Nikopol era serio, terribilmente serio, tanto serio che il
cuore sembrava volersi spezzare a metà per il dolore.
- Perché?
Nikopol rimase in silenzio,
incapace di rispondere. Horus, dentro di lui, sbuffò
spazientito.
Andiamo, Nikopol. E’ fatta, ora dobbiamo solo eliminarci dalla sua
testa…
Ma non era così facile come credeva l’entità divina che,
da dentro il suo stesso corpo, lo comandava a bacchetta. Lui amava quella
ragazza, si era innamorato di lei fin dal primo momento in cui il dio l’aveva
spinto ad abbordarla al bar per i suoi divini scopi.
Certo, ad Horus era interessata
solo la procreazione: aveva avuto a disposizione sette giorni per trovare una
donna mortale capace di dargli un figlio, ed aveva trovato in Jill la sua
prescelta. Era l’unico modo per mantenere la sua immortalità quasi perduta, gli
aveva spiegato il dio la prima volta, doveva abitare per un po’ di tempo in un
corpo umano per fecondare la donna adatta ad essere portatrice di un nuovo
semidio.
Ma per lui, Nikopol, Jill non
era stata solo un involucro dove lasciare il seme divino: per lui era diventata
una donna, un amore da proteggere ed accudire, da preservare da ogni male del
mondo.
Horus aveva accettato con
divina tolleranza gli atteggiamenti “così umanamente stupidi” dell’uomo che
l’ospitava, e si era detto disposto ad assecondarli finché il suo obbiettivo
non fosse stato raggiunto.
Ed ala fine aveva vinto lui.
Horus di Heracropolis,
condannato alla mortalità, si era riguadagnato il posto nella piramide sospesa
sopra i cieli di New York, fra gli dèi suoi simili. La ragazza era stata fecondata
e lui era di nuovo immortale.
Ma cosa rimaneva a Nikopol e a
Jill, due pedine usate per un bieco scopo divino?
Solo un ordine: cancellami, Jill.
Condannare lei all’oblio e lui alla memoria eterna: era
questa la ricompensa, per loro?
Basta
sentimentalismi, Nikopol. Se ti sentirai così
disperato, potrai prendere una pillola e dimenticare Jill come lei dimenticherà
te… - commentò Horus nella sua testa, con
diabolica premeditazione.
Già, le pillole. Una volta aveva visto Jill tenere
pensierosa il flacone in mano, dopo averlo tirato fuori dall’impermeabile, e le
aveva chiesto spiegazioni.
- Cancellano ciò che si vuole dimenticare, - aveva
risposto lei, con un sorriso triste.
Sarebbero morti, lui ed Horus,
se non fosse stato per le pillole di John. Ce n’erano due tipi, gialle e rosse:
queste ultime cancellavano totalmente dalla memoria i ricordi, se prese in
grandi quantità, mentre le pillole gialle, oltre alla rimozione temporanea
della memoria, provocavano forti fenomeni allucinatori. Quando aveva visto Jill
mentre si infilava tre pasticche in bocca, appena fuori dalla porta della
camera d’albergo, ovviamente non sapeva nulla di tutto questo. Era rimasto
nascosto nel corridoio un altro po’, prima che l’umano dentro di lui trovasse
il coraggio di entrare in camera e guardarla negli occhi.
Quando l’aveva sentito entrare nella stanza lei aveva
aperto la porta del bagno con la pistola in mano. Invece di sparargli era
rimasta a guardare il vuoto per lunghissimi minuti, senza mai premere il
grilletto, prima di lasciar cadere l’arma a terra e correre verso il lavandino.
Lui ed Horus, che sghignazzava divertito
da dentro la sua testa, erano rimasti ad ascoltare i violenti conati di lei
fino a quando non li avevano sentiti smettere. Nikopol
aveva aperto con delicatezza la porta ed aveva visto Jill sfregarsi con isteria
la guancia pallida, come se volesse pulirsi a tutti i costi da qualcosa che la
sporcava.
Poi erano venute le pillole: erano rosse. Jill era
svenuta, lui l’aveva presa affinché non battesse contro il pavimento e si
facesse male.
Potremmo girare la
situazione a nostro vantaggio, aveva gracchiato Horus
dopo aver analizzato le pillole ed aver scoperto, per mezzo dei suoi poteri, la
loro efficacia.
Nikopol aveva obbedito. La
povera Jill, grazie all’effetto di poche pillole rosse, aveva dimenticato parte
di ciò che era accaduto: avevano ricominciato tutto daccapo ed Horus aveva avuto campo libero finché non era stato sicuro
che Jill sarebbe stata la madre di suo figlio.
Ed ora… Era tardi per tutti e due.
Nikopol guardò le cinque
pillole rosse, le ultime del flacone di John, che riposavano nel suo palmo.
- Soffriresti troppo, amore mio, se ricordassi, -
mormorò. Jill piangeva, lacrime blu le solcavano il bellissimo viso diafano.
- Non so nemmeno come ti chiami, - singhiozzò lei. Lui le
passò la mano libera fra i capelli, prima di prendere fra due dita la prima
delle pillole.
- Nikopol, - mormorò, prima di
infilarla nella bocca di Jill. Lei accettò con rassegnazione quel gesto ed
inghiottì.
- Nikopol, - ripeté la mutante,
come se volesse imprimerlo nella sua mente, - Nikopol,
quanti anni hai?
- Trentadue, - rispose lui, premendole sulle labbra la
seconda pillola.
- Nikopol, trentadue anni. Nikopol, dove sei nato?
- In Polonia… Sono di Varsavia…
Terza pillola. Ne mancavano solo due.
- Nikopol, trentadue anni, nato
a Varsavia… - sussurrò Jill, con gli occhi appannati. Incominciava a perdere
conoscenza ma si aggrappava con disperazione alle sue parole.
- Nikopol… Dimmi cosa hai scritto su quella vecchia macchina
da scrivere…
- La mia autobiografia… Ci sei anche tu, tesoro, rimarrai
in quelle pagine… Sarai sempre lì, quando gli leggeranno di me…
Quarta pillola. Ormai lei era praticamente semicosciente,
ma trovò la forza di ripetere con voce flebile: - Nikopol,
trentadue anni, nato a Varsavia, nella sua autobiografia io ci sarò… Nikopol, sto morendo…
- No, Jill, no, non morirai… Dimenticherai, un ultimo
sforzo e non soffrirai più… Ecco, l’ultima pillola e poi passerà tutto…
- Ho freddo… Nikopol, io non
ricordo più come ti ho conosciuto…
- Non è importante, tesoro… Credimi, non è importante…
- Nikopol… Non dimenticarmi, ti
prego…
La quinta pillola venne deglutita con sforzo. Gli occhi
di Jill, ancora pieni di lacrime, si chiusero con un ultimo sospiro di lei. Nikopol la sentì abbandonarsi fra le sue braccia di colpo,
come una bambina.
Le rimboccò il lenzuolo sotto il collo e guardò la stanza
d’albergo. La macchina da scrivere era sparita così come gli ultimi segni del
suo passaggio.
Jill si sarebbe svegliata e non avrebbe ricordato nulla
di lui.
Stavolta fu il turno dell’uomo di deglutire per cercare
di dissipare il nodo che gli stringeva la gola. Quando si sentì mancare le
forze seppe che Horus era uscito dal suo corpo, per l’ultima
volta. Nikopol si girò e vide la testa di falco ed il
corpo possente e seminudo del dio egizio torreggiarlo in tutta la sua divina
altezza.
- Grazie, Nikopol, - disse Horus, guardandolo dall’alto dei suoi occhi rapaci, - Mi
sei stato di grande aiuto. Ma adesso devi dirle addio.
L’uomo si girò. Jill dormiva rannicchiata come lo stesso
feto che, involontaria, portava ora nel suo corpo.
Povera, povera Jill.
- Addio, - disse semplicemente.
Non aveva altro da dirle.
Dall’alto della Torre Eiffel il paesaggio al tramonto era
splendido.
Jill guardò oltre la tela per imprimersi meglio nelle
retine il panorama. Le occhiate curiose dei visitatori, mutanti e non, che la
fissavano intenta nel suo lavoro non la infastidivano.
La dottoressa Turner era andata a trovarla solo due
giorni fa. Voleva sapere se Parigi era di suo gradimento.
- Certo, - aveva risposto lei. Come non si poteva adorare
quella città? Era ottima perfino per leggere ad alta voce le poesie di
Baudelaire.
Il quadro era quasi finito, ma Jill volle aspettare a
dargli gli ultimi ritocchi perché la luce che le piaceva stava già svanendo.
Tempo quaranta minuti ed avrebbe potuto dipingere la Parigi dei boulevard illuminati
a giorno e gli edifici scintillanti. Era così diversa dalla sua New York, fusa
tutt’uno con le fabbriche!
Jericho gorgheggiò, indicando
che il suo piccolo stomaco brontolava. Jill appoggiò i pennelli nella tavolozza
ed allungò le mani verso la culla per prendere in braccio il suo bambino. Il
piccolo rise, sentendosi sollevato dalla madre, e provò a prenderle una ciocca
di capelli che le cadeva sulla fronte.
- Buono, piccolo, shh…
Ma Jericho sembrava non pensare
già più alla fame. Uno stormo di colombe bianche sorpassò i due, sfrecciando
verso l’altra parte della torre. Il piccolo si imbronciò quando si rese conto
che gli uccelli erano troppo lontani per poterli raggiungere e cominciò a
brontolare ed a tendere le mani verso il cielo.
Jill lo appoggiò con delicatezza nella culla. Quando il
bimbo faceva così, era questione di attimi prima che si trasformasse e
cominciasse a svolazzare di qua e di là senza controllo. Jill aveva imparato
che era meglio non irritarlo, se non voleva trovarsi le braccia segnate dalle
sue unghie.
Un falchetto sostituì dopo qualche attimo il piccolo
nella culla, azzurro come lo erano i capelli del bimbo. Benché la Torre fosse
quasi deserta, qualcuno era rimasto sulla terrazza a guardare il paesaggio
sottostante. Era un uomo sui trentacinque, dai capelli brizzolati ed occhi
azzurro grigi.
Jericho volò da lui in forma di
falco, trovandolo più interessante delle colombe di poco prima. Evidentemente
doveva averlo preso in simpatia. L’uomo parve sorpreso da quell’uccello che gli
si era appoggiato sul braccio, ma quando tentò di accarezzargli
confidenzialmente la testa Jericho volò di nuovo via,
lasciandogli due graffi profondi sulla manica del pastrano.
- Mi dispiace così tanto, - si scusò Jill, lasciando la
sua postazione di pittrice e facendo qualche passo in direzione dell’uomo, - ma
è sempre così sfacciato… Le ha fatto male?
- No, - mormorò l’uomo, fissando i graffi. Quando la
vide, i suoi occhi parvero illuminarsi di colpo, senza motivo.
- Mi dispiace ancora. Sul serio sta bene?
- Sul serio. Non potrei stare meglio.
Jill allungò la mano per presentarsi. Quell’uomo le stava
simpatico a pelle, anche se non lo aveva mai visto prima.
- Mi chiamo Jill.
L’uomo sorrise con dolcezza, come se il solo sentire quel
nome avesse scatenato in lui un’ondata irrefrenabile di ricordi. Allungò la
mano a sua volta e strinse quella di lei.
- Io mi chiamo Nikopol.
NOTE FINALI:
Questa storia è stata scritta per la terza Disfida dei Criticoni, Braimstorming. E’ la prima storia che scrivo per un
concorso… E devo ammettere che non so bene cosa pensare. Personalmente ho
trovato un po’ difficile inserire ogni prompt che mi è
stato affidato, così non sono riuscita, ahimè, ad inserirli tutti. Per la
storia che avevo in mente all’inizio la canzone dei My
Chemical Romance era perfetta, ma poi ho cambiato sia
soggetti sia serie… E questo è il risultato finale.
Qui sono presenti i prompt
utilizzati per la storia:
Sexual Healing - Marvin Gaye: è la canzone che
Jill sente alla televisione quando entra per la seconda volta nella sua camera.
Sembra praticamente scritta per questa situazione, visto che Jill e Nikopol tentano di curare se stessi attraverso il contatto
fisico… Mi è parsa particolarmente adatta per una scena “di tenerezza” fra i
due.
Immagine 079: è
il primo quadro di Jill. Ho pensato che una figura umana triste e sola (spero
di non essere stata l’unica a pensare che il ragazzo sembra triste e solo…) potesse
ricordare alla protagonista il suo Nikopol più per il
fattore psicologico che fisico. Successivamente anche questo quadro subirà una
trasformazione ed assomiglierà fisicamente sempre di più al protagonista
maschile.
Che cos'è l'arte se non un modo di
vedere? (Thomas Berger): citazione
iniziale della dottoressa Turner, quando cerca di spiegare a Jill i motivi dell’esperimento
pittorico.
Almost nobody dances sober, unless
they happen to be insane. (Howard Phillips
Lovecraft): questa frase è citata da Nikopol quando lui incontra Jill nel bar-discoteca.
E questo è
tutto. Avrei voluto mettere più prompt nella storia,
ma purtroppo l’ispirazione non mi è venuta in aiuto. Spero comunque che il
risultato sia almeno apprezzabile.
Il mio ringraziamento finale va a tutti
coloro che hanno letto questa storia e sono arrivati fin qui.
Grazie, ed alla prossima!