“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto…”
Orlando Furioso, Ludovico Ariosto
“Un brindisi all’eroe e a chi lo canta!” Urlò qualcuno
alzando il boccale di birra nella taverna affollata.
Un bardo era seduto in un angolo e aveva appena finito di
narrare le gesta di eroi che mai si erano visti in un villaggio come quello, un
luogo sperduto sulle montagne, lontano da qualunque via maestra, ma abbastanza
vicino al cielo perché ogni tanto vi arrivasse qualche curioso avventuriero.
Erano i giorni della fiera annuale, che suscitava un grande fermento fra la
gente del luogo ed era anche una delle poche occasioni per avere notizie dal
resto del mondo.
Il bardo alzò a sua volta il boccale che gli era stato
offerto e iniziò a sorseggiare la birra scura amara e decisa che conteneva.
Raccolse il suo cappellaccio e iniziò a girare per la locanda, mentre le monete
fioccavano dalle tasche degli avventori e lui, cortese come sempre, ringraziava
ognuno con un piccolo inchino.
“E cosa si narra da queste parti, brava gente?” Chiese
infine, prendendo posto al bancone, col suo liuto alla tracolla e il cappello
con le offerte davanti a lui.
“Cosa volete che si dica,” rispose l’oste. “Questo è un posto
dimenticato da Dio e dagli uomini.”
“Dagli uomini no: voi ci vivete!” Rispose il bardo con una
risata. “E se viene così tanta gente a questa fiera vuol dire che tanto
dimenticato poi non è!”
“Diciamo che questo l’unico avvenimento interessante di tutto
l’anno,” riprese l’oste. “Per tutto il resto del tempo non capita niente di
eccezionale: il solito, discreto via vai di gente, ognuno coi suoi casi belli o
brutti…”
“E tutti che li affogano nel tuo vino!” Esclamò un beone
vuotando in un sol sorso il proprio bicchiere e scatenando qualche risata.
“Ogni luogo, come ogni persona, ha la sua storia,” rispose il
bardo, accattivato dal tono rassegnato dell’oste. “A differenza della maggior
parte delle persone però, molti luoghi hanno le loro leggende. ”
“Vi posso assicurare che da qui non sono mai passati
cavalieri dall’elmo piumato o principi che si invaghissero delle grazie di una
contadina, non abbiamo draghi e non abbiamo nessun santo uomo che dispensi cure
e miracoli. Se volete, però, abbiamo alberi in abbondanza, lupi che ululano
tutte le notti a dispetto delle fasi della luna e tanto lavoro per portare a
casa un boccone.” Commentò un uomo seduto lì accanto, mentre fissava trasognato
il proprio boccale oramai vuoto. “Versa qui dentro qualcosa, Aldo!”
“E come mai continuate a vivere in un luogo così poco
interessante?” Chiese di nuovo il bardo con un sorriso, ma senza scherno nella
sua voce, mentre l’oste riempiva i boccali.
L’uomo che poco prima aveva parlato si passò una mano
screpolata fra i folti capelli brizzolati, guardando il bardo come se quello che
si stava accingendo a dire fosse la cosa più ovvia: “perché questo è il luogo in
cui siamo nati e in cui sono nati i nostri i padri e in cui sono nati anche i
nostri figli. Dove altro potremmo andare?”
“Siete felici qui, allora?”
Di nuovo l’uomo lo guardò con diffidenza, come se non
afferrasse appieno il concetto. “Voi cantate tante belle cose,” cominciò a dire,
“e per una sera ci fate dimenticare la piccolezza delle nostre vite, con grandi
gesta e sentimenti che, forse, uno come me non sa neppure che esistono. Ma
quando la fiera sarà finita, tutto tornerà come prima: mi alzerò all’alba e
andrò a lavorare nei campi, pregando il Signore per la pioggia e bestemmiando ad
ogni zappata contro una terra dura come il cemento. Mio figlio porterà le due
mucche al pascolo mentre mia moglie accudirà le galline, i conigli e la bimba
piccola. La sera ceneremo insieme, reciteremo il rosario mentre intrecceremo la
paglia, poi andremo a dormire. Non so se questa è felicità, sicuramente è il mio
dovere.” Non c’era traccia di rammarico nella sua voce né di tristezza. C’era
accettazione. Di un destino che, prima di essere suo, era stato di suo padre e
che un giorno sarebbe stato di suo figlio. Sempre se non l’avesse dovuto
seppellire prima, constatò amaramente il bardo, cullandosi nella malinconia che
quell’uomo semplice e pratico gli stava ispirando. Si chiese se anche questa non
fosse una storia degna di essere narrata, di essere portata in giro per il mondo
assieme al suo liuto.
“Eppure qualcuno sarà stato il primo ad abitare questo luogo
e quindi lo ha scelto… perché era bello? O perché lontano da tutto il resto? O
perché vi aveva seppellito qualcuno da cui non poteva allontanarsi?”
L’uomo sorrise. “Ho capito che genere di storie vi
interessano. Seguitemi,” gli disse, vuotando in un sol gesto il suo boccale e
avviandosi verso l’uscita dell’osteria.
Era l’ora del crepuscolo e l’aria, ancora fresca per essere
l’inizio dell’estate, fece rabbrividire per un attimo il bardo che seguiva
l’uomo prima nella via principale dove i mercanti stavano riponendo le proprie
mercanzie, poi attraverso viottoli dai quali proveniva una dissonanza di odori –
il pane del forno, il liquame delle stalle, il fritto da alcune cucine, il
pollaio di fianco – che, in un primo momento, gli fecero arricciare il naso.
Cercò di rilassarsi, di smettere di trovare fastidioso ciò che questa gente
riteneva comune. Era la loro storia che voleva e per riviverla doveva pensare
come uno di loro, calarsi nel ruolo, commuoversi e spaventarsi per le stesse
cose. Poi avrebbe potuto tornare se stesso e capire. Osservò di nuovo l’uomo che
lo precedeva con passo elastico e sicuro. Quanti anni avrebbe potuto avere?
Quaranta? Sì, possibile. E quanti gliene sarebbero restati? Chissà… gli alberi
possono resistere per secoli alle intemperie, ma gli uomini?
Fu distolto da questi pensieri dal vociare di bambini che si
rincorrevano in un’aia, mentre alcune donne chiacchieravano su un paio di
panchine di legno.
“Zia,” chiamò l’uomo rivolto a una vecchina dal viso rugoso,
i capelli bianche tirati all’indietro e la bocca sdentata.. “Abbiamo qui uno
straniero che ama quelle storie che voi raccontate tanto bene.”
Tutti i presenti abbandonarono immediatamente le loro
chiacchiere per portare l’attenzione verso i nuovi arrivati.
“Ma è uno dei cantori della fiera!” Esclamò una delle donne
più giovani. “Perché non ci raccontate voi qualcosa?”
Il bardò eseguì un cordiale inchino: “Mi sono già esibito in
piazza e nell’osteria, gentile signora, e la mia gola ha bisogno di un po’ di
riposo. E poi,” continuò con un sorriso, “la mia professione non è solo di
raccontare storie, ma anche di ascoltarle.” E prese posto sotto un albero,
vicino alla vecchia che doveva essere la narratrice, osservando con sguardo
distratto prima i presenti poi il cielo indaco sopra di sé.
“Cosa volete sentire?” Chiese la vecchia con voce chioccia,
quasi risentita per l’imbarazzo di parlare di fronte a un pubblico che non
conosceva, di fronte a qualcuno che non la rispettava solo per la sua veneranda
età.
Il bardo tornò a posare il suo sguardo assorto sulla vecchia,
sorridendo. “Una storia. Una bella storia che racconti qualcosa di questo
villaggio e dei suoi abitanti.”
“La storia della streghe che ballavano col Diavolo!” Chiese
un bambino dall’aria sveglia e dagli occhi neri.
“Quella dei due innamorati?” Chiese invece una bambina, gli
occhi sognanti persi nei piccoli pensieri del grande amore che avrebbe potuto
attraversare la sua vita.
“La storia della scommessa e del cimitero?” Chiese un
ragazzino più grande, evidentemente preso dai racconti che davano un brivido di
terrore.
La vecchia chetò tutti con un gesto della mano. “No, nessuna
di questa. Vi racconterò quella da cui tutte le altre sono nate.”
I bambini si sedettero attorno alla narratrice in un silenzio
da messa, mentre anche gli altri presenti si trovavano una posizione consona
all’ascolto. L’uomo che lo aveva accompagnato prese posto accanto a una donna,
probabilmente la moglie, sedendosi su un ceppo.
Quando la vecchia cominciò a parlare il bardo cambiò
improvvisamente espressione: dal divertimento nell’osservare i bambini che
facevano le loro richieste e dei preparativi degli astanti, improvvisamente si
rese conto di partecipare a qualcosa di molto importante, di avere il permesso
di condividere con quelle persone una parte delle loro vite private, della loro
memoria. La parola “storia” assunse i contorni sfumati del passato e della
fantasia, dei volti e della voce di coloro che prima di quella donna avevano
narrato la stessa vicenda e l’avevano arricchita – o impoverita, ma comunque
resa viva perché anche lui potesse goderne e farla rivivere a sua volta…
l’ammirazione si fece posto nel suo cuore, assieme alla dolcezza… la stessa
lingua che l’anziana donna parlava, il dialetto, la lingua popolare per
eccellenza, aveva assunto i toni aulici dei grandi poeti senza giungere alla
stessa eleganza, alla stessa squisita forma, ma mantenendo quella rara capacità
di arrivare dritto al cuore.
Il crepuscolo si stava lentamente lasciando sopraffare dalla
notte, indugiando ancora a occidente con qualche sfumatura violacea, mentre le
numerose stelle facevano la loro apparizione nel cielo terso. Della luna neppure
l’ombra.
“Quando ero bambina, ogni calar delle tenebre, si vedevano
molte luci nei prati e nei boschi, lontano dalle case e perfino vicino. Erano
luci grandi quanto un pugno, fiammelle azzurrine fioche quanto una candela, che
camminavano nelle notti, compagne dei viandanti diceva qualcuno, mandate dal
Diavolo in persona, dicevano i più.” A questo punto la vecchia si interruppe,
per farsi il segno della croce, subito imitata dai presenti.
“Fuochi fatui,” mormorò il bardo, distrattamente.
“Così li chiamano gli sciocchi, perché quelle luci di fatuo
non avevano proprio niente.” Rispose la vecchia con voce dura e tagliente,
mentre il bardo era percorso da un brivido, sentendosi puntare addosso quegli
occhi scuri e vispi.
“E voi li avete mai visti, nonna?”
La vecchia di nuovo sghignazzò. “Certo, piccoletto. Certo che
li ho visti anche io. E potevano fare molta paura sai… erano permalosi e
terribilmente vendicativi… mai sfidarli! Perché avrebbero raccolto la sfida e
mostrato la loro furia. E inevitabilmente vinto.”
Paura, pensò il bardo. Difficile vincere quando il tuo nemico
è la paura stessa. Conosceva molte storie sui fuochi fatui e sui loro presunti
poteri…c’era anche chi diceva che fossero anime, chi il sospiro di una terra
gravida di cadaveri… un fuoco freddo, ghiacciato. “…che di fatuo non aveva
proprio niente,” commentò fra sé, mentre un brivido – paura? Eccitazione?
Entrambi? Come distinguerli? – gli correva lungo la schiena.
“Ma la nostra storia non è la storia di luci che danzano
nella notte. Forse sarebbe meglio dire che è la storia di come sono svanite.
Perdute.
Si narra che in tempi passati molti fossero gli spiriti che
camminavano su questa terra, spiriti buoni e spiriti cattivi. Si diceva che
alcuni di loro venissero da un altro mondo e che nulla avessero di umano… se non
le sembianze semmai decidessero di assumerle. Altri invece… bè, altri erano gli
spiriti dei morti, quelli che non trovano la strada per raggiungere l’aldilà. E
in essi si mescolava la potenza ultraterrena dei primi con la materialità degli
umani… erano rinnegati da entrambe le razze perché non avevano più il diritto di
appartenere a questo mondo, ma un desiderio frustrato o un dovere incompiuto
impediva loro di sciogliere i legami, di partire per la dimenticanza. E poi
c’erano i terzi, i più sfortunati: nati dall’unione tra gli spiriti veri e gli
umani, venivano trattati alla stregua degli spiriti morti.”
“E questi come venivano chiamati?” Chiese un ragazzino.
“Per loro non si coniò mai nessun nome che fosse diverso da
bastardi.
Ed è proprio la storia di uno di loro che vi racconterò
perché indissolubilmente legata a quelle luci, a questo villaggio e alle notti
senza luna come questa.”
Quasi a voler sottolineare la tragicità di quella storia, il
lontano ululato di un lupo fece rabbrividire tutti i presenti e ridere
sommessamente la vecchia narratrice.