Domenica parto per una settimana, quindi ci aggiorneremo tra un
po':(
Ad ogni buon conto sono ben lieta che due scrittrici brave come
Dicembre e Xibalba mi seguano e mi recensiscano. Grazie di tutto
cuore!
Per Xibalba: grazie mille per l'appoggio costante e ricordati
che devi dirmi a chi somiglia il mio stile quando ti viene in mente perché sono
curiosissima! Del fratello in effetti non si parlava prima, ma anche lui, da
morto, avrà il suo ruolo in seguito.
Per Dicembre: Sono contenta che ti sia piaciuta la cosa dei
peccati! In effetti non è molto originale perché anche Dante li mette in
quest'ordine ed Eugène che è un prete colto lo sa, ma il significato profondo
della cosa è proprio quello che hai detto tu. Complimenti!
Grazie infine ad Aily che mi ha aggiunto agli scrittori
preferiti (cavolicchio!) e a coloro che leggono questa storia.
Bevevo. Ma non giocavo più. Non andavo più alle feste. Non
rispondevo alle lettere di Armand, Dancourt e degli altri amici. Se anche il Re
in persona mi avesse scritto, preoccupandosi dei cadetti delle famiglie in
disgrazia ancora in vita e dimostrando così di essere un uomo migliore
dell’imperatore Leopoldo d’Asburgo, la sua lettera sarebbe finita a bruciare nel
caminetto come tutte le altre.
Nulla mi interessava più, tranne bere fino a stordirmi per non
sentire l’infelicità che prendeva possesso del mio animo. Non mi curavo del
sapore di ciò che bevevo come avevo sempre fatto, non prediligevo più il vino
rosso, dolce e di qualità: l’importante era che la bevanda fosse forte ed agisse
in fretta. Spesso mi sentivo male per questa mia condotta sregolata e
distruttiva, e vomitavo e svenivo agli angoli delle stanze del palazzo ma
nessuno dei miei parenti, anch’essi logorati dal dolore per quel lutto, si
curava di me. Ed a volte, lo confesso, al ricordo della morte di Louis-Julius si
mescolava quello dell’abbandono del principe di Montpensier.
Una mattina mi svegliai di soprassalto dopo un incubo ed in
fretta mi alzai e mi vestii, preoccupato di rivedere quelle immagini mostruose
se mi fossi addormentato di nuovo.
Mi sedetti su di una poltrona della mia camera che era rivolta
verso la finestra. Pioveva a dirotto e l'alba era grigia e malinconica. Avevo
forti dolori alla testa dovuti all'ubriacatura del giorno precedente, che mi
impedirono di ricominciare a bere subito di prima mattina.
Fui costretto a rimanere lucido e a pensare alla mia vita. La
stanchezza e l'indifferenza di tutti nei miei confronti mi avevano reso
emaciato, scontroso e tendente a pensare di essere vittima di persecuzioni.
Sono più brutto che mai, pensai. Ho le occhiaia, gli occhi rossi, le
guance scavate. Ma non ha più alcuna importanza. Nulla più la ha.
Fui risvegliato da questi pensieri dalla vista di una figura su
di un cavallo baio che sfidava la pioggia cavalcando fin dentro al nostro
cortile. La curiosità sull'identità di quella figura fu in me presto soffocata
dall'indifferenza. Chiunque essa fosse, non era affar mio. Nessuno poteva voler
cercare me, se non per darmi qualche brutta notizia, quindi non avrei mosso un
dito per accogliere il visitatore.
Mi rituffai nei miei pensieri meschini, quando qualcuno bussò
alla porta della mia camera .
"Non voglio vedere nessuno!" gridai, stizzito. La mia voce rauca
sembrava un rantolo, ma il mio interlocutore sembrò aver capito perché per
qualche istante non diede più segni di vita.
Dopodiché si sentirono nuovi colpi alla mia porta.
"No, ho detto!" ripetei, questa volta con voce ancora più
flebile.
"Eugène, t'imploro..."
Fu come una secchiata d'acqua gelida in pieno viso. Quella voce
dolce e virile allo stesso tempo non poteva che appartenere ad una sola
persona.
Dio mio, sarà bagnato fradicio, dopo aver fatto un viaggio così
lungo sotto questa pioggia! Fu la prima cosa che pensai,
ritrovando una tenerezza che pensavo fosse perduta per sempre.
"Entrate, Honoré." dissi, mentre mi avvicinavo alla porta per
aprirgli di persona.
La porta si aprì e nella mia stanza entrò una figura avvolta in
un mantello zuppo di pioggia e di fango, che subito si sfilò. Sotto di esso
apparve Honoré, con i capelli scarmigliati e bagnati ed un'espressione disperata
sul volto eburneo.
"Siete tutto bagnato." gli dissi con voce acida. Il ricordo del
suo comportamento crudele era tornato tutto d'un colpo nella mia mente, sebbene
temperato dalla compassione che mi suscitava il suo corpo bellissimo scosso dai
tremiti di freddo. "Tenete questi panni e asciugatevi un po' i capelli. Poi
penserò a dei vestiti da darvi: mio fratello Philibert è alto pressapoco come
voi, ma è meno esile. I suoi vestiti dovrebbero andarvi."
"Grazie..." sussurrò spossato, fissandomi per qualche istante
con sguardo contrito.
"Allora, a cosa devo l'onore, signor Principe?" sibilai. Aveva
un bel coraggio a ripresentarsi da me dopo avermi fatto soffrire le pene
dell'Inferno, ma non potevo nascondere a me stesso che la sua presenza mi ridava
speranza ed una pur tenue voglia di tornare a vivere degnamente.
"Perdonatemi" disse in lacrime, dopo aver scorto al mio braccio
la fascia nera del lutto. "Voi avete subito una perdita ed io vengo a torturarvi
con le mie sciocchezze... State bene, Eugène? Il vostro aspetto è così
malandato!"
Fui felice che qualcuno finalmente s'interessasse a me e notasse
il degrado in cui versavo. Fui felice che qualcuno fosse disposto ad ascoltare
il mio dolore ed a lasciarmi esprimere il senso di inutilità che sentivo nella
mia vita.
"No, non sto bene. Mio fratello è morto e voi mi avete ingannato
vergognosamente. Non è rimasto nessuno che mi abbia a cuore e per cui la mia
vita valga qualcosa."
"Mio Dio, mio Dio, perdonatemi!" mi implorò Montpensier, mentre
due lacrime scendevano lungo le sue guance già bagnate di pioggia. Cercò di
abbracciarmi ed in un primo tempo opposi resistenza, ma poi mi abbandonai a
quella stretta, felice di avere una presenza al mio fianco dopo tanti giorni di
reclusione volontaria e commosso dall'affetto che dimostrava di avere ancora per
me.
"Io vi devo dire tutto." singhiozzò, mentre le sue lacrime calde
cadevano sempre più copiose sulle mie spalle doloranti. "Io vi ho mentito,
dicendovi che la mia era una famiglia ricca. Non volevo che pensaste che io
fossi interessato solo ai vostri soldi. Credevo che voi foste ricco e potente:
vi avevo visto giocare bellissimi gioielli a baccarat e avevate pranzato allo
stesso tavolo del Re."
"Ma io non ho un soldo!" gli dissi.
"Lo so, l'ho scoperto poco dopo la festa a Versailles. E vi
confesso che per questo motivo ho pensato che sarebbe stato meglio non rivederci
mai più. Sono stato un meschino approfittatore, lo ammetto, ma mio padre è
malato e i nostri unici possedimenti sono vittime di una carestia. Avremmo
bisogno di qualcuno che ci aiuti ed avevo scoperto che voi non avreste potuto
farlo. Ma poi ho capito che non ce la facevo ad evitarvi. Io volevo rivedervi,
non importava che foste povero come me. Io vi voglio bene, Eugène. Voi siete
stato il mio conforto."
Ormai anche io piangevo, senza neanche saperne il motivo. Credo
che quel pianto fosse una somma delle violente emozioni che si erano susseguite
nell'ultimo mese. Un pianto di dolore, di solitudine, di stanchezza, di gioia.
"Siete venuto qui per dirmi questo?" gli chiesi con voce scossa
dai singhiozzi ed un sorriso appena accennato.
"Non solo per questo, ma ormai non ha più importanza. Avete ben
altro a cui pensare ora, non avrei dovuto disturbarvi. Spero che un giorno
saprete perdonarmi, pensando che io vi voglio bene. Ma vi capirei se ciò non
accadesse, visto che anch'io ho difficoltà a perdonarmi."
Mi guardò per qualche altro istante, come se non si sapesse
decidere ad andarsene.
" Addio, Eugéne!" disse poi, riprendendo il mantello fradicio e
muovendosi verso la porta.
"No, fermatevi!" gli ingiunsi. Un sentimento dolce e magnifico
era sorto dentro di me, un sentimento che la mia istruzione religiosa mi aveva
insegnato a considerare il più nobile di tutti, ed io lo espressi con tre
semplici parole: "Io vi perdono."
Honoré si girò, incredulo e sorridente, asciugandosi le lacrime
dal viso.
"Ditemi per cosa siete venuto. Io vi voglio aiutare e vorrei che
potessimo tornasse ad essere amici. Solo amici, niente più. Due amici che si
aiutano a vicenda."
Il sorriso di Honoré si allargò ancor di più mentre con un cenno
gli indicavo di sedersi sulla poltrona accanto alla mia. Sembrava un bambino che
avesse ritrovato il giocattolo preferito che credeva di aver perduto per sempre.
Con un'aria sollevata sul volto si sedette morbidamente, mentre delle sue
lacrime non rimanevano che i solchi lungo le guance.
"Ditemelo. Potervi aiutare sarà la mia ragione di vita, dato che
non ne ho altre." gli ripetei lentamente e a bassa voce, felice di quella
conversazione così intima ed illecita proprio all'interno del mio palazzo, come
se fossi finalmente riuscito a scavarmi una nicchia di calore e gioia
all'interno delle sue mura fredde.
"Io non so quanto sia il caso..." disse rosso in volto, anche lui quasi
sussurrando.
"Ve ne prego. Avete detto che sono stato il vostro sostegno:
vorrei esserlo ancora, e non vi chiedo nulla in cambio se non che non mi
evitiate più."
"Se voi riuscirete ad aiutarmi dimostrerete che io non valgo un
vostro mignolo. Io vi sarò obbligato per tutta la vita, Eugène. Sarei il servo
più felice della terra."
Passai una mano intorno alle sue spalle, ed Honoré appoggiò la
sua testa sul mio petto, bagnandomi con i suoi riccioli neri. Mi sembrò davvero
un bambino, una creatura più fragile e bisognosa di me, ed io me ne sarei preso
cura.
"Ero a Versailles l'altro ieri, e si teneva una festicciola per
i membri della Corte, come se ne tengono due o tre volte alla settimana. La
Principessa Palatina propose di giocare al gioco dei pegni ed io mi ritrovai
coinvolto mio malgrado." mi rivelò d'un fiato. "Sapete come funziona, no? Ogni
partecipante dà in pegno qualcosa e lo può riprendere solo se risponde ad un
indovinello fattogli da un altro partecipante. Ve la faccio breve, Eugène. Ho
dovuto dare in pegno questa collana di smeraldi che appartiene a mia
madre."
Honoré tirò fuori da un involto una collana splendida ed antica,
bella come neanche nessuna delle collane di mia madre era.
"Ma è qualcosa di incredibile..." mi stupii.
"Mia madre è una Farnese, italiana come voi. Questa collana fu
donata ad una sua antenata da papa Borgia."
"Ma se l'avete ancora voi vuol dire che avete risolto
l'indovinello!" obiettai.
"Magari fosse così... Semplicemente alla festa non c'è stato il
tempo di finire il gioco, ma oggi si terrà un'altra festa e la Principessa
Palatina mi farà il suo indovinello, ed io non lo indovinerò mai. Non avrei mai
dovuto dare in pegno questa collana, ma a Corte non sempre si può fare quello
che si vuole. Bisogna dimostrare di poter spendere ed elargire anche quando in
realtà non si può." rispose, affondando tristemente il suo viso nel mio
petto.
Mi abbracciò anche lui e la sua mano si sistemò sul mio collo,
ormai riscaldatasi al fuoco del mio caminetto. La collana con i suoi scintillii
d'un verde intenso stava a metà tra le sue gambe e le mie, ed i suoi bagliori si
riflettevano sui nostri visi a seconda di come le fiamme del caminetto
guizzassero, cullandoci.
"Io sono bravo con gli indovinelli." lo confortai, anticipando
la sua richiesta di soccorso. "Se la Principessa lo permetterà, giocherò al
posto vostro."
"Grazie..." sussurrò, stringendomi ancora di più a sé, ma con
dolcezza. "Il duca d'Orléans dice che siete molto intelligente e che non vi ha
mai visto perdere al gioco dei pegni. Ma ancora non mi capacito del fatto che mi
aiuterete. Vostro fratello è appena morto e voi pensate a me..."
"Io soffro molto per la perdita subita." ammisi. "Ed è per
questo che non voglio che voi ne subiate una, Honoré. E se poi dovessi farcela e
voi foste davvero per sempre legato a me, allora questo mi basterà per vivere
felice."
Quella mattina uscii dal palazzo per la prima volta dalla morte
di mio fratello. Io ed Honoré salimmo insieme sulla mia carrozza, dopo che io
gli ebbi dato nuovi vestiti asciutti. Insieme. Insieme... era l'unica cosa che
contava. Non ero solo, e non lo era lui, né più lo sarebbe stato.
Mi prenderò io cura della mia bambolina,
pensai con un affetto quasi paterno nei suoi confronti, mentre lo guardavo sulla
carrozza ricambiare il mio sguardo con dedizione, come se in quei giorni di
lutto non fossi diventato più brutto ma anzi più avvenente.
Ed ogni tanto, mentre mi guardava, dalle sue labbra cremisi
usciva meccanicamente come una filastrocca infantile una parola sussurrata:
"Grazie... grazie... grazie..."
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