Luna di Fuoco

di hanabi
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(Diversi problemini di salute - eeeh l’età! - alla mia parte sinistra mi hanno reso piuttosto ostico il lavoro di scrittura. Dover “andar piano” scompaginava i miei pensieri, i quali schizzavano in tutte le direzioni costringendomi a un lavoro estenuante di taglio e cucito. Adesso dovrei rimettermi in carreggiata: se state leggendo questo preambolo, vuol dire che sono in debito con voi per la pazienza. Accettate le mie scuse per l’attesa.) 

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Nella sua bettola preferita, Ran masticava semi tostati nel sale per farsi venire una sete piacevole, che spegneva con una brocca di ottimo vino schiumoso. Aspettava un mercante kelith che si era detto interessato alle sue perle rosse: si era messo al collo la più grossa, una sfera lievemente irregolare grande come un occhio di bufalo. 

Fu dunque abbastanza stupito quando vide sedersi davanti a lui non l’avido commerciante, ma una matura donna sayanni.

“Sei una canaglia, uomo del clan Kurya, ma i miei occhi festeggiano sempre a rimirare la tua possanza.”

Lui la fissò, sorpreso: era piuttosto appariscente, con un vezzoso collare ornato di borchiette d’oro, e una veste alquanto scollata su un petto prosperoso. Non era particolarmente graziosa e aveva una cicatrice sottile su uno zigomo, ma il sorriso era accattivante… e sulle guance si vedevano benissimo tatuaggi da guerriero.

Trasalì, riconoscendola. 

“Il comandante di Arendia…”

“Ho un nome, disertore. Mi chiamo Mailo.”

Per un attimo si fissarono, notando ognuno la mano dell’altro sotto al tavolo. Poi lei alzò entrambe le mani, con un sorrisetto.

“Non ho intenzioni ostili,” disse.

Ran tolse a sua volta la mano dal pugnale. “Potrei averle io, per cui vattene. Non mi va che mi vedano parlare con una disonorata.”

“Solo le sante Xarani sono degni di rivolgerti la parola?” replicò la donna. “In quanto a disonorati, ne hai pure nella tua squadra, e nessuno lo sa meglio di me…”

“Li compiango, come compiango te. In quanto alla Xarani, ringrazia gli déi che sia lontana da qui: o ti ucciderebbe sul posto per la tua indegnità.”

“Lei, che va dietro a un albino?” 

“Il legame che ha con Deyan-shir è casto.”

Mailo fece un sorrisetto. “Sempre il solito ingenuo e candido montanaro. Hai mai sentito del canto di Nyliuk?” 

Ran avvampò. “Una stupida leggenda…”

“Il tuo amico è un nobile kelith, proprio come quello della leggenda; e nulla gli sarà ignoto nelle arti del piacere. Prima o poi la santa guerriera se lo ricorderà, e allora… vedremo quanto saprà resistere alla tentazione.”

Ran si alzò in piedi di scatto, e tutti intorno a lui trasalirono.

“Oh,” mormorò Mailo, rimirandolo. “Qualcuno si è arrabbiato.”

Lui tornò a sedersi, lentamente, fissando la donna con freddezza sdegnosa. 

“Ascoltami, Mailo. Se non ti prendo a calci fino all’uscita di questa taverna, è solo perché non voglio far dispetto al tuo padrone rovinandogli la merce. Per cui prendi la tua insolenza e riportala nel tuo bordello, dal quale non avresti nemmeno diritto di uscire.”

Lei alzò una spalla. “Mi prendi per una banale schiavetta kelith? Sono una conquistatrice, e il bordello che doveva essere la mia prigione è diventato il mio regno!”

“Non mi interessano le tue attività impure.”

“Però sei tu che mi ci hai condannato, caro integerrimo tutto d’un pezzo.”

“Tu mi avevi condannato a morte per non aver acconsentito alle tue voglie. Sono stato misericordioso a lasciarti in vita.”

“Più che misericordioso.” Mailo prese un pugno di semi tostati, mettendosi a sbucciarli tra i denti. “In effetti, dopo i primi momenti, ho trovato piacevole la mia nuova situazione.” Sputò con grazia la buccia del seme e ridacchiò. “Ho anzi cominciato ad avere un certo entusiasmo per le esperienze che facevo, scoprendo che non è affatto vero che noi sayanni non siamo fatti per certe cose… anzi, oserei dire che ci siamo molto portati!”

Ran sapeva che era vero: quando un sayanni si disonorava, difficilmente la sua caduta era occasionale. Anche perché ormai non aveva più nulla da perdere, precipitava in un baratro di depravazione in cui sfogava una vita intera di autocontrollo; e il risultato era alquanto penoso da contemplare.

“Gli dèi ci hanno dato un corpo di qualità superiore rispetto a quello dei kelith,” mormorò. “Per questo è doppiamente pericoloso per noi degradarlo.”

“E che ci facciamo con questo corpo di qualità superiore?” Mailo guardò intenta le larghe spalle del suo interlocutore. “Lo sprechiamo in eterne esercitazioni, in privazioni marziali e in una guerra che nessuno ha veramente interesse a vincere… sì, certo: così lo nobilitiamo. Col dolore, con la fatica, con la fame… mai con il piacere.” Una smorfia. “Molte volte mi sono trovata a meditare su queste assurdità, mio bel gigante ostinato.”

“Cerchi soltanto giustificazioni per i tuoi peccati. E ti infastidisce sapere che c’è qualcuno che non vuol farti compagnia nel disonore.” Ran vuotò il suo vino e la guardò, sarcastico. “Ti senti per caso sola, comandante Mailo?”

“Sola? Io?” Lei scoppiò in una roca risata. “Non mi sono mai sentita tanto in compagnia come qua su Luna di Fuoco. Tra gente che ha tanto in comune con me… te compreso.”

“Io con te non ho proprio niente in comune.”

“Sei un predone, amante dell’avventura e sprezzante del rischio; e sei… un comandante anche tu.”

“Mi permetto di ricordarti che sei tuttora una schiava.”

“Legalmente sì, ma ho messo da parte qualcosa per ricomprarmi la libertà.”

“Allora hai derubato il tuo padrone.”

“Certo,” ammise lei sfacciatamente. “Uno dei miei clienti… uno tra l’altro che conosci molto bene e che si intende di denaro, mi ha suggerito di investire la somma a suo nome presso la Grande Casa.”

“Uno dei miei uomini?” Ran la guardò, con una ruga tra le sopracciglia. “Un disonorato…”

“Non esattamente: uno che la Membrana non l’ha mai avuta.”

Ran impallidì, comprendendo chi era.  “Ti sei… ti sei…” gli mancò il verbo, “… con un kelith?!”

Lei lo guardò quasi con compatimento. “Nei bordelli non si va molto per il sottile, e non pochi kelith trovano interessanti le femmine della nostra razza.”

“Depravati,” mormorò Ran.

“Davvero,” annuì lei, serafica. “Depravati oltre ogni limite. D’altra parte praticano lo stupro sui sayanni che catturano, no? E anch’io…” abbassò modestamente gli occhi, “come sai, sono una vittima di questa circostanza.”

“Hai raccontato di esser stata disonorata dai kelith mentre in realtà te la facevi con un fabbro, e pure sposato.”

“Non stiamo a sottilizzare,” replicò lei. 

“Vuol dire che sei un’ottima bugiarda, oltre a una ladra e una pervertita.”

“Lo prendo come un complimento, da un criminale come te.”

“E ora che mi hai mostrato fino a che punto sei caduta in basso, sei soddisfatta?”

“No,” rispose lei. “Non è per questo che ti ho cercato.” Un sorrisetto. “So che parlare di perversioni con te è tempo perso. Voglio invece discutere di cose molto più concrete.”

Ran alzò un sopracciglio. “Cioè?”

Mailo si sporse in avanti, quasi posando lo statuario seno sul tavolo. “Devo pensare al mio futuro: non ho intenzione di fare la prostituta per il resto della mia vita. Sono pur sempre una guerriera e rimpiango l’azione…” Smise di sorridere. “E poi sono incinta.”

Ran restò per un attimo interdetto.

“Incinta?”

“Ho un’altra vita nel ventre. Per gli dèi,” soffiò lei, “sarai anche vergine, ma spero che almeno questo tu lo sappia! È così che nascono i bambini.”

“E il padre?”

“Chi se ne importa del padre?” fece lei, con un gesto distratto della mano. “Tanto sono io a tramandare la casta, e ho in pancia un futuro guerriero. È il primo che faccio, e voglio vedere cosa ne esce fuori: ho concordato col mio padrone una pausa dal mio lavoro per generarlo… a patto che gli versi l’analogo delle entrate che facevo nel bordello. Quindi devo procurarmi questo denaro in altro modo.” Schioccò le dita con fare imperioso, e il taverniere le mise davanti una tazza di acqua e vino. “E qui entri in gioco tu.”

“Io?” fece Ran, sospettosamente. 

“Sì. Uno dei capi della Squadra Sacrilega. Chi altro accetterebbe una disonorata come me?”

“Nessuno, neanche la Squadra Sacrilega.” Ran fece una smorfia. “Figuriamoci! Credi che mi dimentichi i tuoi ricatti infami? E la tua dolce voce che ordinava al boia di schiacciarmi la testa?”

“E allora? Hai vinto tu nella nostra battaglia, quella faccenda è chiusa, è acqua passata. E come ti ho spiegato, non ho alcun motivo di cercar vendetta su di te, anzi… sarebbe mio desiderio mostrarti la mia gratitudine.” Di nuovo rimirò la prestanza fisica dell’uomo di fronte a lei, e tirò un grosso sospiro. “Ma visto che il modo che ho in mente non è condiviso da te, ti propongo un’interessante alternativa, per il nostro mutuo vantaggio.”

“Spiegati.” 

“Nessuno su Sayanna sa delle mie imprese, qua su Luna di Fuoco. Sono tuttora il comandante in capo delle forze di difesa della costa, scomparsa dopo la razzia dei kelith sulla spiaggia di Zakkara. Mi credono morta gloriosamente nell’arena o per il sollazzo di qualche nobile… ma se invece tornassi indietro con una buona storia da raccontare?” Ammiccò. “Magari in compagnia dei valorosi prigionieri sayanni che, con un abile colpo di mano, sono riusciti a prendere possesso di quella nave per tornare a casa, sfuggendo al loro atroce destino come schiavi?” 

“Cosa mi stai proponendo?”

“Un affare,” sorrise lei. 











 

Naysiak aveva giurato di seguire il suo Liberatore anche all’inferno, e una città dei kelith era qualcosa che ci andava molto vicino. 

Solo nascondendo i suoi tatuaggi, il suo sesso e la sua libertà poteva compiere il suo dovere laggiù, e non trovarsi invece chiusa in gabbia o in catene, separata dai maschi. Dopo molte discussioni la sua figura androgina era stata trasformata in quella di un paj: un ragazzo catturato da piccolo, castrato e cresciuto in cattività, e per questo considerato docile. Aveva dovuto nascondere eroicamente le proprie lacrime di vergogna, accettando quella disonorevole trasformazione pur di onorare il suo giuramento. Randanai almeno aveva avuto il buon gusto di non ridere di lei, quando l’aveva vista con le guance dipinte a spirale, come una fuoricasta...

“Avresti dovuto venire con me,” le aveva detto, scuotendo la testa.

Stupido uomo delle montagne! Credi che abbia scelta?!

Ma poi lui le aveva stretto le mani, trasmettendole la paura che aveva per lei. 

“Kelitha è una terra infida e crudele. Tu non ci sei mai stata, naturalmente: sei una Xarani... ma io invece ci sono andato molte volte, e ho imparato che laggiù è meglio non illudersi che la nostra forza basti a tutto. Solo al fianco di un uomo che doveva governarla sono riuscito a portare a casa ricchezza e la mia pelle insieme. Proteggi Deyan-shir, ma lascia che sia anche lui a proteggere te. Quello è il suo mondo, non il nostro.”

Non il nostro.

Aveva tremato di disgusto, immaginandosi quel luogo che per la sua razza significava solo morte e disonore. Si era figurata un caos di altari idolatri, patiboli sanguinosi, tane promiscue rigurgitanti di peccati, dove prosperava la malattia che infestava la terra: i discendenti del demone Kel, nemico di Kamoh e Lilia nei miti della creazione...

Ma quando finalmente vi era giunta, dopo il suo primo viaggio spaventoso nel Vortice (per il quale avevano dovuto unirsi ben quattro Marjaban, perché qualcosa in lei si opponeva alla loro magia), era rimasta senza fiato. 

È questa la patria del mio Liberatore?

Adagiata tra le basse colline di un territorio arido, bianca, dorata e verde, la capitale di Shana scintillava come un gioiello nella luce combinata dei due soli. Le mura turrite racchiudevano una distesa compatta di edifici di varie forme, dominati dalla mole di un palazzo gigantesco, a sua volta chiuso da mura e confinante col deserto. Ingegnosi canali artificiali e macchine mosse dal vento portavano la preziosa acqua dal Grande Fiume, strade solide e piste sabbiose si incrociavano, e monumenti colossali celebravano antichi regnanti. Lei aveva lottato per reprimere il senso di meraviglia che provava, ma era pur sempre una Huanai, amante della bellezza e dell’arte... non poteva disconoscere quella di un nemico. 

Come ha fatto un popolo così debole a costruire tanta magnificenza?

La città aveva assaltato i suoi sensi, riempiendoli di un euforico sgomento. Non aveva mai visto tanti kelith tutti insieme: le strade erano piene di piccoli uomini industriosi, donne velate di nero, innumerevoli bambini, e il loro vociare saliva alto nel meriggio assieme alla musica di strumenti sconosciuti. C’era colore dappertutto, quasi in sfida alla monotonia cromatica del paesaggio: anche le case più povere avevano gli infissi dipinti in maniera sgargiante, e ovunque si vedevano tappeti dai disegni complicati. L’aria sapeva di spezie, sudore, fiori dolcissimi, erbe fermentate, sentori di acqua ferma, odori degli animali: cani, uccelli di tutte le forme, strani animali dai larghi piedi e dalle zanne aguzze che trainavano ingegnosi veicoli. La gente scorreva con ordine e senza intralciarsi, salutandosi cerimoniosamente: ogni cosa sembrava essere rodata come un congegno vecchio di millenni. 

Naysiak era sconcertata dalle differenze sociali che vedeva intorno a sé. Lei veniva da un mondo antico dove il rigido sistema delle caste faceva sì che diritti e doveri fossero omogenei in ogni gruppo, con ben poche variazioni. Persino una come lei (una Figlia della Cometa!) aveva vissuto come una normale guerriera, in una casa comune senza lussi particolari: era anche un modo per ricordarle che negli Xarani si venerava la potenza delle Divinità, non la loro. L’orgoglio era un peccato, per i sayanni...

Invece per i kelith era una dote di cui vantarsi. Ognuno era consapevole del proprio posto in società, e pretendeva il proprio omaggio da chi riteneva inferiore a sé: chi aveva qualcosa lo ostentava in faccia a chi non l’aveva, senza alcun pudore. Gente grassa  conviveva con miserabili affamati, e i ricchi ignoravano i poveri con assoluta disinvoltura. Si comportavano insomma come se non fossero uno stesso popolo, ma molti, ognuno indifferente ai bisogni dell’altro. E con grande stupore di Naysiak, sembravano trovare tutto questo naturale. 

L’immenso palazzo principesco, visibile da ogni parte della città, era la rappresentazione del limite superiore di quella disuguaglianza. Sembrava dichiarare a tutti che il popolo che viveva al di fuori di esso, numeroso quanto fosse, non contava nulla: ogni onore e gloria spettava solo ai membri della cosiddetta Razza Sovrana, i dominatori incontrastati di quel mondo. In una piazza grandiosa lei aveva avuto il privilegio di vederli in tutta la loro arroganza, elevati su una piattaforma splendente come esseri divini e protetti da uno stuolo di scintillanti soldati in armatura. Erano creature eteree e quasi disumane nella loro bianchezza, immerse come grasse larve o sparuti insetti in un mare di lusso oltraggioso. 

“Kamoh u Lilia hulum ne, kai shki t’shish,” aveva imprecato sottovoce, sputando per terra. 

Poi si era resa conto con un brivido che anche il suo Liberatore era uno di quei nobili; anzi, per stirpe era il più nobile di tutti, anche del principe che dominava la scena dal suo trono foderato d’oro…

Si era girata a guardarlo, vergognandosi di averlo insultato, ma lui l’aveva completamente ignorata: si era strappato il velo di garza che fino a quel momento gli aveva coperto gli occhi, alzando il volto verso quella piattaforma e fissandola con un’intensità quasi dolorosa. 

“Tasia,” aveva mormorato, con un filo di voce.

Naysiak si era sentita tremare: strane emozioni le erano echeggiate nello spirito, un desiderio mortale che le aveva fatto sentire le ginocchia molli. Chi era quella fredda donna vestita d’argento e mascherata? E cos’era quella sofferenza rabbiosa che percepiva nel suo Liberatore? Era così forte da far odiare la vita per il solo fatto di provarla…

Aveva messo mano al manico del pugnale nascosto nelle vesti: se era una fine eroica che lui voleva, lei era pronta! In fin dei conti aveva vissuto e sofferto per più di un millennio, era abbastanza. Si sarebbe unita a lui in quell’epico massacro di albini, e sarebbe stata uccisa compiendo il proprio dovere: la morte più gloriosa che un sayanni potesse immaginarsi!

Ma la ferrea disciplina interiore di Deyan aveva avuto il sopravvento. Aveva osservato la piazza col proprio addestramento militare, e aveva capito che non avrebbe mai raggiunto Gamosh, neanche con una Xarani al fianco. Sarebbe morto vanamente, dando al fratello uno spettacolo inaspettato, ma indubbiamente gradito...

Aveva deciso di dargli un altro spettacolo: si era arditamente unito agli schiavi che si esibivano nella piazza. Non era un acrobata, ma la sua pratica quotidiana dell’arte di combattimento lo rendeva abile ad arrampicarsi e volteggiare: si era messo a farlo con grazia sfacciata. Il popolo l’aveva acclamato, quasi sentisse istintivamente la sua superiorità; e anche i nobili alla fine si erano degnati di notarlo, chinando su di lui sguardi condiscendenti. 

Ma nessuno aveva esclamato o mormorato il suo nome. Nessuno si era accorto che quel giovane dall’aria spavalda era nientemeno che il perduto principe di Shana...

Cos’è, troppo uomo per sembrare una di quelle larve lassù?!

Naysiak era rimasta allibita da se stessa: il pensiero le era sorto così spontaneo! 

Ma si era resa conto che, forse per la prima volta, non aveva più visto in Deyan un etereo diavolo bianco. 

E in effetti non lo era più. Aveva sacrificato quella che secondo i kelith era la sua maggior bellezza, in nome della sua incredibile determinazione: un passo alla volta, si era trasformato in un uomo del grande nord, dall’aria stranamente più vigorosa. Si era lasciato crescere la barba per confondere i suoi lineamenti tipici delle razze centrali; aveva curato l’abbigliamento, l’accento nel parlare, i modi e le tradizioni; e aveva combinato da sé una misteriosa sostanza gelatinosa che, applicata alla zona intorno agli occhi e lasciata asciugare, prendeva l’aspetto di vecchie cicatrici da fuoco. Ran ne era rimasto impressionato, e gli aveva chiesto perché si fosse sfigurato a quel modo.

“Posso tingermi i capelli, le sopracciglia, la barba... anche la pelle, benché sia più pericoloso; ed è per questo che ho deciso di passare per uno Chandì, un’etnia dalla pelle chiara. Ma non posso cambiare il colore dei miei occhi. Devo fingermi cieco per avere il pretesto di nasconderli.”

“Quelle gocce strane che metti...”

“Sono utili, perché arrossano le sclere e dilatano le pupille. Ma posso usarle solo di notte, di giorno mi accecherebbero davvero. Userò una benda di garza nera, che non mi impedirà di vedere, ma nasconderà i miei occhi e li proteggerà dalla luce.”

“E il marchio? Quello come farai a nasconderlo?”

Deyan aveva fatto il suo solito sorrisetto kelith, e gli aveva mostrato un collare di metallo. 

Ran era allibito di fronte a tanta sfacciataggine. “Dei del profondo, non vorrai…”

 “Al mio paese c’è un detto: se sei un seme, nasconditi nel granaio.” 

Lo stratagemma aveva funzionato. Benché ci fosse il mistero di quell’albino mascherato tollerato dalle guardie, il ritratto giovanile di Deyan (la miniatura di un fine aristocratico dai capelli lunghi, senza marchio) appariva ancora tra quello dei ricercati. Ogni volto velato veniva controllato, ogni donna era esaminata da eunuchi. Ma cosa c’era da vedere negli schiavi, se non che erano schiavi? Ne arrivavano a frotte, per la fiera di Akkai...

E dunque non c’era niente di strano se l’onorevole Munanmar di Niisa (così era scritto nelle credenziali di Aydie, preparate meticolosamente dallo stesso Deyan che era pratico del linguaggio burocratico kelith) aveva fatto il suo ingresso in città con un paj oberato dai bagagli, un artista cieco e mezzo kontar in oro da investire. Il mistero semmai era che un uomo con tanto denaro fosse seguito solo da due schiavi e non da uno stuolo di servi; ma poi si notava la faccia sfregiata sotto l’ampio cappello, l’aria spavalda, il pugnale dal manico lucido e i robusti stivali; segni rivelatori di un trafficante dalla vita avventurosa, di quelli che accumulavano ricchezze incredibili infilandole nelle casse delle loro gilde, in attesa di dilapidarle quando non avrebbero più avuto la fibra per dormire all’addiaccio. 

Quello che ormai era diventato a tutti gli effetti il luogotenente di Deyan (e che lo era diventato sfidandolo quando ancora era il liberto di Ran, credendo di aver gioco facile contro un fragile albino, guadagnandosi un’altra cicatrice in faccia) si era subito offerto volontario per quella rischiosa missione. Per quanto guadagnasse, si ritrovava sempre sempre senza il becco di un quattrino, e la ricompensa che il suo capo gli aveva offerto era generosa, come anche la promessa di un’eccitante avventura per un uomo che ormai non aveva più motivo di temere la morte.

Ci serve una persona dalla lingua sciolta, gli aveva detto Deyan. Un pratico viaggiatore in grado di muoversi in un paese straniero, e mantenere le apparenze. Come ben sai, i Marjaban ci vietano di usare il Vortice per giungere direttamente nelle città, dato che là sarebbe arduo trovare luoghi adatti per un arrivo non notato. Dovremo entrare e uscire da Shana assieme alle carovane mercantili. E se io e la sayanni lo faremo come schiavi… ci occorre un padrone. 

Aydie aveva obiettato che una faccia come la sua era ben riconoscibile e c’erano bandi con la sua effigie alle porte di molte città kelith. Ma Deyan sapeva - e lo sapeva naturalmente anche lui - che quei bandi ingiallivano sulle mura di città lontane da Shana, e rappresentavano un arcigno predone scarmigliato, non un distinto avventuriero. 

Reciterò il ruolo del tuo padrone, Deyan-shir, ma solo se mi prometti che mi perdonerai per questo. Ho troppo rispetto per te: dovunque tu vai, il denaro ti rincorre. Sei il Nemaii delle leggende di Niisa…

E Aydie ricordava quel colloquio, soppesando la borsa con le monete che Gamosh aveva gettato. 

Il Fabbricatore di Ricchezza, davvero! 

Quel denaro ovviamente apparteneva al suo capo, ma Deyan si sarebbe fatto tagliare le mani piuttosto che accettare l’elemosina del fratello: l’ostentata indifferenza - quasi sprezzante - con cui aveva ignorato quell’offerta aveva rischiato di indisporre Gamosh, con conseguenze che potevano essere tremende. Solo a fatica Aydie era riuscito a convincerlo a piegare il suo orgoglio aristocratico, inchinandosi alla fine - e molti si erano accorti che il suo inchino era quello di corte, alquanto bizzarro in un giovanotto semibarbaro del nord. Dopodiché il cieco aveva lanciato una lunga, oltraggiosa occhiata nientemeno che alla Prima tra le Prime del principe, come se avesse voluto farla bagnare tra le cosce…

Dannazione, Deyan-shir!

“Va’ dal tuo signore e fingi di guidarlo via da lì,” mormorò a Naysiak. “Conducilo a quel porticato, io devo fare una cosa.”

Lei annuì e andò a raggiungere Deyan, che era rimasto immobile al centro della piazza. Aydie raggiunse un venditore ambulante di vino e gli lanciò una delle monete che Gamosh gli aveva regalato. L’uomo la guardò stupefatto; valutò il cliente, ripose la tazza ordinaria e trasse un calice di metallo, mettendosi industriosamente a strofinarlo.

“Sbrigati a riempirlo e dammelo,” ringhiò Aydie. “Non mi interessa chi ha bevuto prima di me.”

Strappò quasi di mano il calice al venditore e lo vuotò d’un fiato, poi glielo porse e se lo fece riempire di nuovo. Solo al quarto calice sembrò calmarsi: si nettò la bocca corrugata col dorso delle dita e si voltò verso il centro della piazza. 

Notava come la gente fosse intimidita da Naysiak: aveva il viso di un ragazzo, ma era pur sempre alta quanto il kelith che conduceva, e c’era qualcosa di minaccioso nella disinvoltura con cui si muoveva. I bambini si arrestavano a guardarla con la bocca aperta, stupiti dalla sua pelle azzurra e dai suoi lineamenti strani; non dal suo costume, che sia pur pacchiano era quello di un domestico kelith. Naturalmente serviva un compagno che, sia pur schiavo, era un uomo civile: anche nella classe servile la superiorità kelith era naturale. Molti occhi guardavano il giovane barbuto, che si era di nuovo coperto gli occhi con una benda per non ostentare le sue cicatrici. Uno schiavo cieco non era una rarità: molti cantastorie e musicisti erano privi di vista, e si diceva che per questo avessero memoria migliore. Ma un bardo con quella prestanza era davvero eccezionale, e la abbinava a una carnagione rara in un paese bruciato dai due soli come Shana…

“Permetti una parola, straniero.”

Aydie si voltò di scatto. Si trovò di fronte un uomo massiccio, con un turbante sul capo e un bastone in pugno. 

“Ti ho visto tra i mercanti, e vorrei sapere qualcosa di più su questi tuoi schiavi. Non se ne vedono molti così, a Shana…”

“Gli dèi vi siano propizi, signori.” Un anziano vestito in modo assai decoroso si fece avanti, le mani infilate nelle maniche: fece un elaborato inchino verso Aydie. “Sono l’intendente della famiglia Aharir, una delle più eminenti della città.” Guardò malevolmente l’uomo che l’aveva preceduto. “Sono interessato anch’io alla merce di questo mercante.”

Lo sguardo attonito di Aydie passò dall’uno all’altro.

“Volete... comprare i miei schiavi?!”

Si guardarono, imbarazzati. “Sarebbe più opportuno attendere il giorno di mercato, ma se possiamo anticipare la trattativa…”

“E poi al mercato non c’è riservatezza,” fece l’intendente a denti stretti. 

Aydie si tolse il cappello, scompigliandosi i capelli con un gesto di imbarazzo. “Ah, gentili signori… sono davvero onorato del vostro interesse, ma non posso accontentarvi. Purtroppo arrivate tardi: sono già in parola con un... cliente importante...”

“Oh,” esclamarono entrambi, con tanto d’occhi. 

Ma non guardavano più Aydie: fissavano due soldati in armatura, che si avvicinavano con passo marziale e tintinnante. 

Pretoriani!

Aydie impallidì e mise mano al manico del pugnale, ma non lo estrasse: vide che Naysiak era stranamente tranquilla, solo curiosa. Non percepiva pericolo? O era indifferente ad esso, come i guerrieri della sua razza? 

In effetti i soldati non avevano l’aria di volerli arrestare. Si fermarono semplicemente davanti a lui, e uno di essi proclamò: 

“Sua eccellenza il Sesto Custode delle Chiavi del Palazzo vuole parlarti, straniero.”

I due acquirenti restarono a bocca aperta. Era quello il cliente importante a cui avevano pensato di soffiare la merce?!

“Chiediamo perdono per averti importunato!” esclamarono quasi in coro, e si allontanarono come se avessero avuto un branco di lupi alle calcagna.

“Per le cosce della Bianca Dea,” mormorò Aydie, asciugandosi il sudore dalla fronte.

“Andiamo, straniero,” gli dissero i pretoriani. “Non sta bene lasciar attendere il servo del principe. I tuoi schiavi possono seguirti.”

“Vengo subito,” rispose lui. Si voltò un istante verso Deyan. Non poteva vedergli gli occhi, ma sapeva che di sottecchi lo stava guardando. Usò i gesti del codice dei ladri per chiedergli cosa doveva fare.

Le dita di Deyan risposero con il gesto che imitava un serpente sotto una roccia. 

Aydie emise un breve respiro e pregò. 

Un esercito di servi lavorava per riporre le ricche stoffe e i magnifici oggetti d’arredamento usati dai nobili, affinché vento e polvere non li rovinassero. Una figura corpulenta dirigeva lo smantellamento del baldacchino della Prima delle Prime: quando vide avvicinarsi coloro che aveva invitato, smise di dare ordini e si alzò dalla sua seggiola, sgranchendosi con un gemito quasi femmineo. 

“Sua eccellenza il Sesto Custode delle Chiavi del Palazzo,” lo presentò uno dei pretoriani, e Aydie si inchinò immediatamente nel modo più solenne, perché aveva di fronte uno dei potentissimi eunuchi della casa regnante. 

Naysiak fissò ad occhi spalancati quella sconcertante creatura. La faccia era truccata con uno spesso strato di cipria gessosa, che la faceva sembrare una maschera; le labbra erano dipinte di cremisi, le palpebre d’azzurro, e pesanti orecchini d’oro stiravano i lobi fin quasi alle spalle. Il suo odore era così forte ai suoi sensi da farla quasi boccheggiare: profumi dolci, sentori ammoniacali, e una nota di pericolosa eccitazione nel sudore…

Lui si accorse della sua attenzione, e non gli piacque. 

“Quella bestia azzurra mi fissa,” sibilò con una smorfia. “Vuole attaccarmi?”

“Cosa?” Aydie si scosse e guardò Naysiak. “Oh no, eccellenza, assolutamente no! Il mio paj è assolutamente inoffensivo. È solo che è ancora un cucciolo curioso, e non ha mai visto una persona importante come te...” Le mise una mano sulla spalla. “Giù!”

Lei gli rivolse uno sguardo incerto. Giù? 

“Avanti, obbedisci. E digli che implori il suo perdono, maleducato!”

Lei scrollò le spalle. “Come padrone vuole.” Si sedette per terra e ripeté con voce squillante: “E digli che implori il suo perdono, maleducato.”

Seguì un istante di silenzio.Tutti erano rimasti perplessi, tranne Deyan: voltò brevemente la testa, con l’ombra di un sorriso... 

“Stupido!” Aydie le assestò una manata sulla testa, mentre i soldati ridacchiavano. “Lo vedi, eccellenza?” disse, paonazzo in faccia. “È buono e obbediente, anche se ovviamente la sua intelligenza è limitata. ”

“Tienilo d’occhio,” disse l’eunuco, per nulla convinto. “I sayanni mi fanno paura.” Rivolse lo sguardo a Deyan. “Anche quello schiavo barbuto è tuo, vero?”

“L’indegno nome sul suo collare è il mio, sì.”

L’eunuco lo studiò in silenzio, accarezzandosi la pappagorgia. Deyan mosse appena la testa, come per cercare di capire dove fosse; poi accennò a inchinarsi verso di lui.

“No.” L’eunuco si mordicchiò il gonfio labbro inferiore. “Rimani dritto.” Si rivolse ad Aydie, ma senza staccare lo sguardo da lui. “Avevo visto femmine con i capelli d’oro, ma mai un maschio. E con la pelle così bianca!”

“Ho fatto di tutto per preservarla dal contatto con i due soli,” fece il predone con un inchino. “Coprendola bene e viaggiando di notte, sapendo che sarebbe stata sempre più apprezzata man mano che mi muovevo verso sud.”

“Allora non l’hai schiarito tu? È così di natura?”

“Sì, eccellenza. È uno Chandì delle Isole del Ghiaccio. Mi sono recato nel Grande Nord quando ho saputo che il principe Rükkrah aveva deciso di sbarazzarsi dei clan che si erano dati alla pirateria: la sua flotta ha distrutto molti villaggi, portando alla capitale parecchi prigionieri. Lui è uno di quelli.”

“E come mai ha gli occhi bendati?”

“Era il figlio di uno dei capi ribelli; doveva essere messo a morte, ma io ho offerto al principe un prezioso rubino affinché lo risparmiasse e me lo vendesse come schiavo. Il principe ha accettato a patto che me lo portassi via per sempre da Chanda; ma prima di consegnarmelo l’ha fatto accecare.”

“Quindi è una sorta di nobile tra i criminali!” Gli occhi dell’eunuco si dilatarono. “Interessante. Posso toccarlo?”

Deyan smise di colpo di sorridere, e Naysiak ebbe un brivido. 

“Toccarlo?” mormorò Aydie.

“Me n’è venuta voglia… e dato che è tuo, devo chiederti il permesso.”

Il predone esitò, imbarazzato. Era una richiesta del tutto lecita: uno schiavo dopotutto non era che un oggetto senza dignità, e non c’era nulla di strano a trattarlo da tale. Che scusa poteva inventarsi per negare quel permesso a un potente cortigiano, col rischio di inimicarselo?

“Eccellenza,” balbettò, sudando freddo. “Veramente, io…”

“Mi rifiuteresti questa piccola cortesia?” domandò l’eunuco, in tono pericoloso.

“Non è questo!” Aydie guardò nervosamente Deyan, come per chiedergli cosa fare. “Non mi permetterei mai di rifiutarti qualcosa… ma vedi... ehm... il mio schiavo non è pulito!” Fece un grosso sospiro imbarazzato. “La fatica che ha appena fatto l’ha reso... impresentabile. Perdonami, ma mi vergognerei che mani pure come le tue toccassero...” 

L’eunuco lo interruppe alzando una mano. 

“Che sciocco che sono,” sorrise amabilmente. “È naturale che tergiversi: sei un mercante! Giustamente ti aspetti un corrispettivo per l’utilizzo delle tue cose.” Si posò pensosamente un’unghia dorata sulle labbra. “Il tuo permesso, ora; e avrai... dieci min in argento. Che ne dici?”

I presenti mormorarono, e Aydie si sentì in trappola: dieci min solo per toccare uno schiavo?! Era l’acconto per comprarlo! Una somma talmente sproporzionata da essere impossibile da rifiutare, senza generare sospetti.

“Oh, eccellenza,” mormorò, confuso. “Signore, io…”

“Sì, lo so,” annuì l’eunuco, con una scrollata delle gracili spalle. “Sono troppo generoso, ma se non posso spendere il poco che possiedo per queste piccole soddisfazioni… a che servirebbe essere ricchi?”

Si avvicinò a Deyan, con un sorrisetto compiaciuto. Non era armato e non c’era minaccia in lui, ma a Naysiak non piaceva il suo improvviso cambio di odore. Fece automaticamente per rialzarsi, ma la mano di Aydie le strinse la spalla con decisione. 

“No,” le sussurrò appena. 

E chinò la testa, come per non guardare. 

L’eunuco si fermò davanti al giovane bendato. “Sei troppo alto per me, schiavo. Inginocchiati.”

Deyan esitò visibilmente. 

“Ho detto inginocchiati. Forse sei sordo, oltre che cieco?”

Naysiak vide un respiro forzato sollevare il suo petto. Non aveva scelta: obbedì all’ordine dell’eunuco. Lei non poté fare a meno di provare un istante di amara soddisfazione a vederlo in ginocchio.

Ti ricordi di quando mi hai fatto mettere il tuo collare, Liberatore?...

L’eunuco lo studiò da vicino, poi la sua mano grassoccia gli slacciò il mantello e si posò sulla spalla che la keima lasciava scoperta, percorrendo con ammirazione la perfetta muscolatura. Deyan sussultò appena a quel contatto indiscreto in pubblico, ma si dominò: non era che uno schiavo, non aveva diritto di sentirsi oltraggiato… chinò la testa, pallido come il marmo.

“Dunque saresti lo sfortunato figlio di un uomo senza onore, ucciso dalle sue colpe… che storia interessante.”

L’eunuco gli accarezzò la barba, come se fosse stato il pelo di un animale; poi scese sul collo e sul torace. 

“Chissà di quali delitti si è macchiata la tua famiglia, per far adirare così gli dèi.” Si chinò quasi a parlargli nell’orecchio. “Forse i tuoi fratelli non sono altro che dei volgari... ladri.” 

Deyan strinse i pugni ai fianchi, ma non si mosse.

“E forse, dentro questo petto così ben fatto...” La mano destra dell’eunuco si infilò maliziosamente sotto la keima, a contatto diretto con la pelle, “si nasconde il cuore…” 

Un movimento ad artiglio delle dita sotto la stoffa, e Deyan trasalì dolorosamente…

“… di un assassino!”

Seguì un istante di bizzarro silenzio. In cui si udì una sorta di basso ruggito, un antico suono di minaccia.

L’eunuco si voltò a fissare Naysiak con una smorfia; lei non si era mossa, ma gli aveva piantato addosso gli occhi con espressione selvaggia.

Ti sei divertito abbastanza, mezzo uomo. Ora togli quelle mani perverse dal mio Liberatore, o ti strappo la trachea e te la metto in bocca. 

“Toh, il cucciolo è geloso,” soffiò l’eunuco, allontanandosi dall’impietrito Deyan; e scoppiò in una risatina nervosa, a cui educatamente si unirono anche quelle dei suoi servi. 

“Eccellenza,” mormorò Aydie. “Hai forse finito…”

“Oh, sì. Ho soddisfatto la mia curiosità.” Si rivolse ai suoi servi e indicò Aydie, con un gesto stanco. “Pagate quest’uomo e mandatelo per la sua strada, non ho più bisogno dei suoi servigi. Che si porti pure via i suoi animali!”

E senza dir altro andò a issarsi sulla sua lettiga, alle cui stanghe otto robusti portatori erano già pronti.

I servi e le guardie lo seguirono mentre tornava a palazzo, e coloro che avevano assistito alla scena scrollarono le spalle: le bizzarrie dei castrati non erano una novità, come non era una novità la casualità con cui spendevano la loro immensa ricchezza. Invidiarono Aydie per tutti i soldi che si era guadagnato facilmente quella sera.

Deyan restò in ginocchio per un lungo istante, con aria indifferente, come se fosse abituato a quel genere di umiliazioni. Ma quando le sue mani raccolsero il suo mantello, Naysiak notò che tremavano.











Un canto ondeggiante, accompagnato da uno strumento a corde che sembrava imitarne la voce, si levava dal bordello sulla strada, nella zona dei mercati. Un bambino magro come un ragno era andato ad accendere le lucerne intorno al portone aperto sulla strada ormai deserta. Soltanto tre grossi cani da guardia presidiavano il cortile polveroso.

Seduta con le spalle appoggiate al muro di mattoni crudi di una povera baracca, Naysiak strofinava tra le mani piene di sabbia alcuni semi duri, che avrebbe usato per fare una cavigliera. La schiava Cinque avrebbe cercato in tutti i modi di nasconderla a Ibal (che non voleva che oggetti barbari contaminassero la shanda), per indossarla quando Deyan l’avesse chiamata. Le ragazze si erano accorte che gli piaceva vederle con quei gingilli addosso: era più gentile con loro. Era una magia? Lei aveva sorriso, scuotendo la testa di fronte alla loro ignoranza: i talismani magici erano ben altra cosa… ma se credevano che quei semplici adornamenti portassero fortuna, che male c’era a renderle felici? 

Alzò la testa, guardandosi intorno. La locanda era dignitosa, adatta ai mercanti stranieri di passaggio. Aveva stanze graziose, un bagno pubblico per le abluzioni, una cucina e un recinto chiuso per gli schiavi. Era lì che lei e Deyan avrebbero dovuto stare, ma Aydie aveva escluso di mettere la sua merce pregiata in quel buco infestato da parassiti, occupato da tristi portatori. Dopo molte discussioni e trattative, il locandiere aveva capitolato e aveva offerto in alternativa quella piccola baracca in cortile, normalmente usata per riporvi secchi, ramazze e altri oggetti. Però aveva fatto notare che non c’era la serratura alla porta.

E allora? aveva sbraitato Aydie. I miei sono schiavi per bene, non scappano. C’è il mio nome sul collare, non me li possono rubare. E poi guardali, un cieco e un barbaro… quanto lontano credi che arriverebbero, senza farsi pizzicare dalle guardie?

Il locandiere aveva scrollato le spalle. Ognuno aveva il diritto di fare con la propria roba ciò che voleva, bastava che se ne prendesse anche la responsabilità. 

Il predone si stava avvicinando dal cortile. Era quasi irriconoscibile, molto compiaciuto negli abiti fini che indossava: un uomo pronto a festeggiare in case onorate. Portava una fascia di tessuto alla fronte, da cui cadeva un elegante velo a coprirgli la metà del viso rovinata; il velo poi era avvolto intorno alla gola, fermato sulla spalla da una spilla d’argento. Canticchiava le parole della canzone che si udiva: una ballata piena di argomenti proibiti per i sayanni come amore e desiderio. Per quanto i kelith fossero segretissimi in molte faccende e le loro donne non si vedessero quasi mai, uno scandaloso erotismo permeava tutta la loro arte. Naysiak se ne sentiva assediata: rimpiangeva l’atmosfera casta e serena in cui era vissuta prima di essere rinchiusa nel Feretro, le sale del Tempio dove uomini e donne potevano convivere senza nemmeno pensare a certe sconcezze. 

E le Divinità hanno punito il mio orgoglio facendomi riemergere in un mondo pieno di peccato, sfidandomi a mantenere la mia purezza anche in una shanda. Naysiak sospirò pesantemente e ripose i semi in un sacchetto. D’altra parte è facile chiudere occhi e orecchie a queste sollecitazioni: basta sentire quanto tormento provano i kelith quando descrivono l’amore. Noi sayanni siamo più saggi e conserviamo le nostre energie per scopi più nobili che… “spirare nel profumo di un soffice seno”. Si aprì appena lo scollo della casacca per sentire che odore aveva il suo: quello del corpetto di pelle che lo comprimeva perché non la intralciasse. E scrollò le spalle. Che stupidaggine!

Aydie la raggiunse: lei si alzò rispettosamente, come ci si sarebbe aspettati da un domestico. Si era naturalmente accorta che il locandiere era alla finestra, a spiare cosa facesse lo straniero che aveva tanto a cuore i suoi schiavi. 

“Vorrà vedere se a furia di viaggiare con un ragazzo sayanni ho finito per mutare i miei gusti.” 

“Prego?” domandò lei.

“Oh, non sarebbe una novità tra gli schiavisti. Quella canaglia deve aver pure scommesso con qualcuno, ma io lo deluderò: passerò la notte tra le braccia di qualche adorabile, grassa Shanì… ammesso che se ne trovino ancora, con tutte le tasse che si pagano da queste parti.”

Naysiak voltò la testa con una smorfia. “Cose perverse.”

“Lo spero proprio,” annuì Aydie, e sospirò. “Avete avuto da mangiare?”

Lei annuì. 

“Servo portato cose avanzate da cucina. Dice noi schiavi di straniero, molto fortunati; ma io non credo. Cibo forte e brucia gola: e poi io visto grande pentola per altri schiavi, mette dentro animale con coda senza pelo. Io dice: buona carne! Noi niente? Servo dice io non civile e va via.”

Il predone ridacchiò. 

Non invidiare chi si disputerà una zuppa acquosa arricchita da un roditore catturato nelle fogne…” Abbassò la voce. “Sempre meglio comunque di quel che date voi sayanni ai vostri schiavi: dicono che li nutrite con la carne dei loro compagni morti.”

Lei lo guardò, stupita. Che c’era di male? La carne era carne. E quella dei prigionieri kelith valeva quella di qualsiasi altro animale: era immonda solo per la sua origine, ma se doveva finire nello stomaco di esseri già immondi per conto loro, dov’era il problema?

Ma forse per i kelith mangiare è più sacro di quelle faccende che invece trattano con indecente leggerezza. 

Doveva essere per quello che il Liberatore l’aveva cacciata dalla baracca, scandalizzatissimo. E tutto perché lei gli aveva portato la ciotola con gli avanzi, e l’aveva messa tra sé e lui; poi aveva fatto per affondarci una delle croste di pane che le avevano dato. 

Deyan aveva usato la sua canna da cieco per colpirla sul braccio: una secca vergata che l’aveva fatta trasalire più di sorpresa che di dolore. 

“Come ti permetti, barbara presuntuosa? Credi di potermi insultare anche tu?”

Lei l’aveva guardato, sconcertata.

“Io non insultato, Seriema. Tuo cibo, uguale a mio cibo…”

“Ma tu non sei la mia uguale!” 

Su questo siamo d’accordo, stupido kelith.

Non c’era stato nulla da fare: Deyan non avrebbe toccato cibo finché lei non se ne fosse andata. L’aveva accontentato, portandosi via la sua parte e mettendosi a mangiare da sola in cortile; ma tanto si era sentita privata del piacere sayanni della condivisione, che aveva chiamato i cani a farle compagnia…

“Seriema arrabbiato,” mormorò. 

“Lo immagino. Quel maledetto castrato…”

“Fatto volere di Divinità.”

“Cosa?…”

Lei lo guardò quasi con compatimento. Come potevano i kelith essere così ciechi davanti all’operato degli dèi? Era talmente evidente ciò che era successo…

“Kamoh e Lilia ricorda che Seriema fatto schiava povera Naysiak, e trattato male, davanti a tutti. Lui tolto me tutto, lascia me nuda, senza armi, con cattive parole, picchiata, a fare serva!…” Inspirò profondamente per dominare lo sdegno. “Divinità fatto sentire a Seriema solo piccola ombra… piccola, perché lui non forte come valorosa sayanni… di grande dolore fatto da lui a loro figlia.”

Aydie scosse la testa. 

“Se è il dolore di Deyan-shir che vuoi, ragazza azzurra, non hai bisogno di affidarti ai tuoi dèi: guarda semplicemente nel suo passato. Ce n’è abbastanza per ritenerti vendicata di tutto quel che ti ha fatto.” 

“Vendicata?…”

Le indicò la cupola del palazzo principesco, in lontananza: era illuminata da centinaia di lampade colorate e sembrava una visione da sogno. 

“Quella laggiù era la sua vera casa… e immagina cosa sta provando a guardarla da una baracca da schiavi, con un collare addosso.”

“Noi non schiavi veramente.” Lei si toccò il collare. “Questo, finto!”

Aydie le rivolse quel suo inquietante mezzo sorriso. 

“Per te, sì. Ma non per Deyan-shir. Non ha importanza quel che Ran ha fatto su Luna di Fuoco: per le leggi di questa terra lui è e rimane uno schiavo, e nessuno può liberarlo: in mancanza di un padrone legale, la sua proprietà torna alla Corona.” 

Naysiak ammutolì. 

“E se credi che sia ormai un dettaglio senza importanza… ricorda che lui è un aristocratico. Chiunque di noi kelith se ne può infischiare delle usanze, rinnegare i propri costumi: lui no! E quindi sa che non potrà mai essere veramente un uomo libero… neanche su Luna di Fuoco.” Un sospiro. “Avanti, perché pensi che lui, un principe, renda così tanto onore a uno come Ran, un brav’uomo, sì, ma quello che per lui non può essere altro che un barbaro?”

Lei trasalì. “Perché amico!”

Aydie scosse lentamente la testa. 

“Lo onora perché dentro di sé lo considera ancora il suo padrone. Ecco perché tratta Ran con i privilegi che normalmente concederebbe solo ad altri nobili. Ecco perché mangia solo in sua compagnia e gli apre le porte della propria casa come se fosse sua, e gli concede persino di toccarlo! Dietro a questa sua incredibile lealtà c’è la consapevolezza della sua vergogna: ogni giorno l’affronta. Ogni giorno ne sente il morso. E ogni giorno ci viene a patti, ma solo perché Ran non abusa mai del suo potere. È lui che è così generoso da considerare Deyan-shir un amico.” 

Naysiak chinò la testa.

Oh, Randanai…

“Ma si illude di essere ricambiato: un nobile non può essere amico di nessuno. Tantomeno dell’uomo che, sia pure per poco tempo, l’ha tenuto al guinzaglio: l’orgoglio ferito di Deyan-shir brucerà per sempre come una piaga aperta. Benché oggi il nostro capo abbia avuto una piccola dimostrazione di quella che avrebbe potuto essere la sua vita, con un altro padrone. Con qualsiasi altro padrone. Che gli avrebbe inflitto ben altre piaghe…”

Un profondo suono di campana arrivò dal palazzo principesco: una vibrazione che si espanse nell’aria asciutta. Gli fecero eco le campane più piccole dei templi. 

“È l’ora,” mormorò Aydie. “Va’ a vedere se è pronto.”

Lei annuì, in silenzio. 

Prese la lucerna e aprì la porta della baracca, facendo luce al suo interno. 

Il suo Liberatore era rimasto al buio, come ci si sarebbe aspettato da un cieco; ma questo non gli aveva impedito di prepararsi: finiva di chiudere la propria bisaccia. Poi si alzò e se la caricò sulle spalle assieme a una cetra dalle chiavi allentate, sfiorando con la testa il basso soffitto della baracca. Naysiak notò che si era di nuovo tolto la benda, e i suoi occhi sembravano pozzi senza fondo: l’espressione era lontana. 

“Quando Aydie si fermerà nella casa che ha scelto, tu lo aspetterai fuori. Io proseguirò da solo.”

“No. Io venuta qui per proteggere.”

“Lo sai cosa ti farebbero, se ti catturassero in mia compagnia?”

“Perché catturare? Nessuno sa Seriema qui.”

Deyan sospirò e si portò una mano al petto; quindi scostò di qualche pollice la keima. Naysiak vide un segno rosso sul muscolo pettorale… una piccola ferita superficiale. 

“Forse,” mormorò lui, toccandosela.

La ferita era un graffio lasciato da un’unghia. 

A forma di mezzaluna.







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