Dal
capitolo precedente:
Improvvisamente
la bussola scottò e lei seppe che era il momento di agguantare il
secchiello, ma un rumore di frana e un urlo disumano richiamarono la
sua attenzione, e la Passaporta chiuse il suo passaggio
definitivamente, ritornando ad essere un semplice oggetto
abbandonato.
A niente servirono le settimane di maturazione,
controllo, alienazione… Ginny urlò dando aria ai polmoni per
liberare tutta la sua frustrazione. Aveva aspettato quel momento per
settimane.
Un secondo urlo, a giudicare dal timbro, maschile
raggiunse i suoi timpani e bruscamente interruppe le sue
imprecazioni.
“AIUTO… AIUTATEMI… SONO QUI”
6.
Un
caldo profumo di pan dolce si fece strada dalla cucina, e la signora
Weasley fiutò immediatamente che era il momento di mettere la torta
in tavola. L’agitazione era palpabile, Ginny, la sua bambina,
sarebbe arrivata da un momento all’altro, e visibilmente gli ospiti
non aspettavano altro.
C’era
Harry che sembrava perso in un’altra dimensione, poi accanto a lui
George che discuteva con Ron e Seamus di Quidditch ma che continuava
a lanciare occhiate al polso dell’amico per vedere l’ora; infine,
Hermione; non alzava più lo sguardo verso nessuno e mogia guardava
il suo piatto.
Doveva
essere fame, doveva.
Così mandò Ron in cucina per sfornare la torta alla melassa, e si
avviò in salotto a svegliare il marito che sonnecchiava accanto al
caminetto in attesa che arrivasse sua figlia.
Ai
piedi del signor Weasley c’era una pila di regali per Harry e
qualche vestito nuovo per Ginny con un sacchetto di dolciumi da
portare in Brasile per i suoi compagni, al ritorno. Molly aveva
pensato proprio a tutto, tranne a quello che stava per succedere,
quella calda sera del 31 luglio.
Ron
si alzò di malavoglia e Harry lo seguì in cucina, complice la scia
profumata e irresistibile che gli annebbiava la mente nonostante la
quantità allucinante di cibo che aveva già ingerito in serata.
Ginny
non aveva detto a che ora sarebbe arrivata, anzi non ne aveva parlato
affatto con lui, dato che non aveva un gufo per risponderle da casa,
perciò tutte le notizie le aveva mandate alla Tana.
Harry
si mosse familiare in cucina e aiutò l’amico a sollevare
quell’enorme torta dal forno rovente. “Manca la glassa,
aspetta” disse Ron, rubando una briciola fragrante e infilandola
fra le labbra con soddisfazione.
Si
sciolse all’istante e l’assaporò con gusto. Fece scivolare da
una ciotola una golosissima glassa rosa sull’intero dolce, senza
tenere conto di alcuna proporzione che non fosse d’accordo con la
sua ingordigia. Harry, ridendo, faceva il tifo per lui.
“Di-più!
Di-più!”
“Ecco
fatto”
“…perché
Weasley è il nostro re…”
“Non
ricominciare, o è la volta buona che ti meno, ex Capitano dei miei
parastinchi!”
E
lo minacciò col cucchiaio su cui la glassa si era già
cristallizzata a formare una golosa patina rosata.
Tutto
quel buon umore non aveva raggiunto la tavolata del salotto.
Avevano
tutti un’aria assonnata, era mezzanotte passata e la serata si
faceva un po’ troppo lunga. Il posto di Seamus era vuoto, ma
nessuno si era chiesto dove fosse andato a finire quel disgraziato.
Charlie,
il fratello più vecchio di Ron, era seduto a capotavola e
giocherellava con il proprio bicchiere; accanto a lui Bill e Fleur
chiacchieravano sottovoce; dal lato opposto sedevano, uno di fronte
all’altro, George e Hermione, uno scomposto e comodamente adagiato
su due sedie, l’altra rigidamente costretta in una posizione di
perfetta immobilità da più di un’ora.
Nessuno
dei due osava fiatare. Mancava qualcuno, a quel tavolo, e George lo
sentiva, gli stracciava il cuore quel silenzio; non ci si abitua alla
scomparsa della propria controfigura, del proprio fratello,
dell’amico più stretto, più vicino di tutti.
Così
disse la prima cosa che gli venne in mente vedendo il viso pallido e
stanco di Hermione, sperando di riportare un po’ di brio e di
spazzare quel freddo siberiano che gli aveva stretto il cuore per
l’ennesima volta.
“Ron
mi ha detto per voi due. Allora, è vero che ne parlerete stasera ai
vecchi?”
bisbigliò George con aria cospiratrice. Hermione si alzò
improvvisamente, con la faccia di chi avesse ingoiato un limone. Il
piccolo cuore di metallo sobbalzava sul suo sterno in preda ai suoi
stessi battiti. Lo strinse in mano con forza.
“Torno
fra un minuto” esalò, con un’aria bizzarra.
Di
certo, George si aspettava di tutto, ma non una reazione del genere.
7.
Hermione
raccolse la borsetta di perline dalla sedia accanto alla propria e si
avviò verso il piano di sopra per entrare nella prima camera che
avesse trovato. Si ritrovò davanti al letto sfatto di Ron; sul
davanzale della finestra c’era una boccia di vetro vuota, il
vecchio Deluminatore e la sua bacchetta. I ricordi la sommersero; in
quella stanza, strategie, ansie, affetti, paure, e ancora gioie,
disappunto, e amori senza fine…
Fissò
lo sguardo davanti a sé e lo incontrò nel riflesso di uno specchio
antico che ricopriva l’anta di un trasandato armadio a muro la cui
vernice si scrostava a tratti lasciando intravedere un colorito scuro
e indefinibile. Quell’armadio e quella stanza incorniciavano un ben
triste ritratto di lei. Hermione si vide per quello che era, ed era
peggio di ciò che temeva.
Grottesca,
falsa, serpe, mangiatrice
di ricordi.
Il
suo cuore Grifondoro apparteneva a un passato sconosciuto; ora c’era
solo un’oscurità accecante che le aveva tolto il soffio vitale
dalla carne, e quel visino dagli occhi bugiardamente felici non
l’incantava più.
Non
riuscendo a trattenersi oltre, scoppiò in lacrime.
Un
nodo alla gola troppo stretto da allentare le opprimeva il respiro,
ma non portò nemmeno una mano al viso.
Voleva
vedere la vera sé, da vicino, per la prima volta in tanto tempo, e
anche per l’ultima.
Cercò
a tastoni la bacchetta nella borsa, fra i libri crollati e oggetti in
quel momento del tutto insignificanti. La bacchetta era scheggiata,
ma la sua mano tremante non se ne accorse; la puntò al proprio petto
e senza battere ciglio, si guardò per un ultimo, intenso minuto.
Poi,
sillabò l’incantesimo. Non sentì i passi di qualcuno dietro di
lei, non sentì le sue grida soffocate. Vide tutto nero, tranne il
proprio viso, una maschera dolce e nera, sfranta dal rimpianto, poi
più nulla: “Oblivion…”
Seamus
non si sentiva all’altezza della situazione, e sapeva per certo che
non avrebbe mai dovuto vedere ciò che aveva appena visto.
La
ragazza ora era accasciata fra le sue braccia, il viso rigato di
lacrime ma sereno, vuoto.
Espirò
una nebbia fine, biancastra, che serpeggiò via da lei, verso il
corridoio e le scale che portavano al piano di sotto.
La
piccola ruga di tormento che si era accomodata fra le sopracciglia
della ragazza anni prima stava lentamente scomparendo sotto ai suoi
occhi e lui non aveva idea di cosa significasse; le accarezzava la
fronte disperato, in cerca di risposte nascoste, indizi velati nella
stanza, sulle pareti, nel corridoio che poteva scorgere da lì ma da
cui l’aveva vista pronunciare l’incantesimo senza riuscire a
fermarla un attimo prima.
Hermione
aveva perso conoscenza, e lui non sapeva cosa fare.
Decise
che era meglio non parlarne con nessuno.
“Hermione,
perché?” mormorò fra sé, ancora sotto shock, mentre la stringeva
al petto.
Un
paio di minuti dopo scendeva le scale con lei in braccio, un peso
trascurabile e soffice quanto la stoffa di quell’abito scuro. Si
vide correre incontro Harry e Ron; non rispose nulla per un po’,
incapace di farlo. Ingoiò un bicchiere d’acqua e uno di liquore
prima di parlare. Si schiarì la gola.
“Penso
che abbia avuto un malore, ero appena uscito dal bagno ma mi sono
accorto di avervi lasciato la giacca, così ero salito di nuovo, e
l’ho trovata a terra in bagno. Aveva perso i sensi”
“Ma…
perché? Come…” Ron non si capacitava. “Aveva appena mangiato.
Dovremmo portarla al san Mungo.”
“Portarmi
dove?” mugugnò Hermione, svegliandosi.
Harry,
che si era allontanato a recuperare una spugna inumidita per bagnarle
il viso, si accasciò improvvisamente contro il lavello con un
fragore pazzesco e batté fortemente la nuca. Una nebbia fine si era
appena sospinta fino al suo viso, e lui, involontariamente, l’aveva
inalata.
Perse
anche lui i sensi e mentre un rivolo caldo gli colava nel colletto
della camicia, tutto si rabbuiò.
“Cosa
sta succedendo qui?” tuonò la signora Weasley, allarmata dal
rumore, e precipitatasi immediatamente a controllare il ragazzo a
terra. “Per Merlino, non saremo mai tranquilli in questa casa,
vero?” singhiozzò in preda all’angoscia, alla vista del sangue
di Harry, “ARTHUR!”
“Che
c’è?”
“ARTHUR…”
ripeté, minacciosa, con la voce spezzata.
Dal
salotto accorsero tutti quanti, e alla vista della scena si
attivarono per riordinare e dare una mano a trasportare Harry sul
divano. Borbottavano tutti sull’idea di chiamare un Medimago, ma
aspettavano ancora che Ginny arrivasse e nel mentre gli avevano messo
del ghiaccio sotto la nuca. Hermione era scossa ma si era ripresa;
districò le braccia che la tenevano inchiodata sulla sedia e si alzò
da sé. Prese docilmente la mano di Ron per raggiungere gli altri.
Seamus
li seguì con il cuore che gli martellava nel costato.
Cosa
era successo?
Perché
era stato coinvolto, ma soprattutto cosa era successo a Harry?
“Harry,
come ti senti?”
Il
ragazzo piagnucolò qualcosa di incomprensibile, poi strinse gli
occhi e il viso divenne una smorfia di dolore. Molly guardò
rapidamente Arthur con l’occhiata tipica di quando cerca
rassicurazione. Arthur annuì silenziosamente, poi si avvicinò al
giovane mago e gli posò una mano sul viso.
“Hai
male?”
“Terribilmente…
alla fronte.”
“Eppure
hai dato una botta di nuca… non capisco.”
“Fa
male…”
“Molly,
prepara un decotto per favore.”
“Ok,
ok, sto meglio… sto bene.” si precipitò Harry, che all’idea di
ingoiare qualche medicina aspra aveva qualche remora.
Si
sentirono tutti più sollevati, ma Hermione sembrava quella più
tranquilla. Era da un po’ di tempo che nessuno l’aveva vista così
allegra.
Il viso era morbido, le lacrime avevano formato strie leggere perché
per sua fortuna non si era truccata; il suo dolore, lancinante e
subitaneo, non l’aveva scorto quasi nessuno.
E
il sorriso di sollievo che aveva avuto, alla vista della smorfia
disgustata di Harry che non voleva bere il decotto, l’aveva
tranquillizzata.
Ron
le stringeva ancora la mano con forza, timoroso. Non si capacitava di
quella strana combinazione di sfortunati eventi, eppure non riusciva
a immaginare come potessero essere correlati. Ben presto tornarono
tutti al tavolo, stavolta con un po’ d’impazienza.
Era
passata un’ora dal compleanno di Harry, ma di Ginevra non c’era
ancora nessuna traccia, e l’orologio della cucina aveva appena
spostato su “pericolo mortale” la lancetta della cadetta dei
Weasley.
8.
Ginny
non era solo inviperita per aver perso la sua unica Passaporta per
tornare a casa quella mattina; aveva anche dovuto scalare un pendio
malagevole con il suo vestito più bello rovinandolo
irrimediabilmente, e arrivata all’insenatura da cui proveniva la
voce che aveva richiesto aiuto, trovò l’ultima persona al mondo
che avrebbe voluto rivedere.
“Gin...”
Lei
lo squadrò per un istante. L’aria ribelle che lo
contraddistingueva da sempre non se n’era andata; era sicuramente
diventata sua una parte indissolubile, insediata fra quelle
sopracciglia ad ali di falco e quegli occhi di caramello liquido che
la scrutavano con aria critica e leggermente sorpresa.
I
capelli corti sulle tempie e più lunghi sul capo gli conferivano
un’aria selvaggia e incivile, per non parlare degli abiti logori e
insanguinati.
No,
Michael Corner non era decisamente in buone mani con Ginny Weasley,
visti i precedenti… eppure non smise di sfidare il suo sguardo,
finché lei non si decise a chiudere la bocca spalancata e deglutire
rumorosamente.
“Si
può sapere, per le mutande sporche di Merlino, cosa ci fai tu in un
posto così e in questo stato? Fra tutti i posti di questo mondo,
tutti, dovevi proprio essere qui? Devo aver fatto qualcosa di
veramente brutto nella mia vita passata…”
“Con
calma, fai pure, non ho due gambe spezzate in questo momento che mi
bloccano il respiro da un’ora e che mi fanno rischiare il collasso
da un momento all’altro.”
“Sei
ferito?” Ginny accorse per tastargli il polso e la fronte, poi con
un leggero strappo spezzò su entrambe le gambe gli squarci aperti da
chissà che volo a faccia in giù fra le rocce avesse fatto quel
deficiente.
Respirava
aritmicamente, col fiato mozzo e il viso sporco, quel ragazzo
arrabbiato col mondo. Il cuore di Ginny fece una capriola; doveva
agire, e in fretta.
“Mannaggia
a te, cosa ti è venuto in mente di cacciarti nei guai? In Amazzonia,
per giunta, proprio dietro l’angolo se hai bisogno di un rapido
soccorso.”
“Io
lavoro qui, Weasley.”
Lei
gli lanciò un’occhiata fiammeggiante, poi riprese ad osservare le
ferite.
“Mi
ci vorrebbe la mia attrezzatura, ma non ho portato niente.”
“Lo
vedo.” ingiunse il ragazzo, osservando con curiosità malcelata
l’agghindata ragazza mentre si slacciava la chioma. Un ventaglio di
capelli rossi gli si aprì addosso e il profumo di agrumi che
trattenevano da legati esplose nell’aria.
Michael
si ritrovò ad assaporarlo suo malgrado, con un moto di affetto.
Ginny spostò un masso appiattito su un lato e glielo mise dietro la
schiena, poi lo aiutò ad appoggiarvisi; senza concedergli il tempo
di dare un ritmo normale al proprio respiro, morse il suo lungo
nastro verde e ne ottenne due, poi li usò a mo’ di laccio
emostatico. Un urlo rabbioso del ragazzo echeggiò nell’antro e in
tutto il burrone, facendo sollevare un intero stormo di uccelli dalla
foresta del versante a loro visibile.
Lei
gli tappò la bocca, poi estrasse la bacchetta dalla scollatura
dell’abito scatenando l’ilarità del ragazzo che tossicchiò
dolorosamente, e la puntò in aria.
“Accio
Folium Musae Acuminatae!”
“Hai
appena appellato qualcosa per uccidermi?”
“Quanto
sei idiota.”
“Seriamente,
Weasley. Cosa stai cercando di fare?”
Si
zittì quando quattro gigantesche foglie di banano gli piombarono
violentemente addosso in una insolita folata di vento.
“Senti
un po’, so come aggiustare le ossa con la bacchetta, ma primo non
l’ho mai fatto…”
“…allora
evitiamo e togli il disturbo, che ne pensi?”
“…e
secondo, avrò usato così tanta energia da non riuscire nemmeno a
fare un Levicorpus per portarti al mio accampamento.”
“Dove
io non ho assolutamente intenzione di andare, sia chiaro.”
“Siamo
d’accordo? Sì? Bene. Ora zitto e lasciami concentrare.”
“Cerchiamo
di capirci… tu non avrai mica intenzione di…”
“Zitto
ho detto! Sono in apprendistato per diventare Medimago, abbi un po’
di fiducia, per tutti i Gargoyle! Com’era? Sì, giusto… Femur
emendo.”
Il
ragazzo gridò con tutte le sue forze. Gli occhi lacrimanti rivolsero
una sorda implorazione alla strega, che si apprestava a riprendere in
mano la bacchetta. Le era caduta, ma a giudicare dal rumore secco che
aveva prodotto il suo incantesimo nella coscia macilenta del ragazzo,
era andato tutto come previsto. Gli scostò i capelli che rimasero
all’indietro, fradici di sudore e carichi di polvere e sporcizia.
I
suoi grandi occhi marroni si agitavano in tutte le direzioni, alla
ricerca di un appiglio, di sicurezza. Non aveva idea di che lavoro
facesse, ma di sicuro non era qualcosa di facile o sicuro. bene le
manie di Michael sull’esplorare il mondo e fare “esperienza”.
In
quel momento però lui piangeva come un bambino, e lei mise da parte
il rammarico, il dolore e il suo cuore spezzato.
“Sh,
è quasi finito. Su, stai calmo.”
“No…
basta… non voglio… no…”
“Solo
l’altra gamba. Solo un attimo… scusami. Femur
emendo.”
e puntò la bacchetta all’altra coscia, producendo un secondo <
crac > di ossa rotte, e un grido che si terminò in un lamento da
far venire i brividi. Altri stormi si levarono dalle cime degli
alberi, questa volta un primo raggio di sole li illuminava.
Rimase
seduta con la bacchetta in mano qualche minuto, a riprendere fiato,
anche lei turbata dal dolore del giovane mago. Eppure era abituata
alla sofferenza, alla povertà, alla vicinanza con le persone malate.
Perché quelle grida la laceravano dentro? Ginevra si osservò le
braccia: erano piene di lividi e sporche come al solito; il vestito
era sgualcito, ma non aveva ricambi. Non sapeva come avvisare i suoi
genitori che non sarebbe venuta quella “sera” da loro, e pregava
che nessuno si preoccupasse troppo per lei.
Un’ora
dopo Michael ansimava ancora, e il dolore l’aveva reso delirante.
Ginny
gli tastò la fronte e scoprì che era bollente. Non c’era niente
da fare, doveva passare la giornata con lui e aspettare di ritrovare
un po’ di forze per tirarlo fuori da quella situazione.
Nel
frattempo, bendò le cosce del ragazzo con le foglie di banano dopo
averle tagliate in più bande.
Lo
liberò della sua casacca di cuoio puzzolente, di li a poco si
sarebbe alzato una calura indecente e lei lo sapeva bene; quel petto
sudato dalla pelle di bronzo non voleva smettere di salire e scendere
a una velocità impressionante; una volta finito il lavoro, ancora
inquieta si accovacciò contro la parete rocciosa, ed esausta si
addormentò.
Si
svegliò di soprassalto e dovevano essere passati solo pochi istanti,
perché il ragazzo in pieno delirio da febbre la chiamava sottovoce.
Tastava il suolo con le mani, come accecato dal dolore.
Rivoli
di sudore gli rigavano la fronte e la gola, perfino il torace.
Era
fra gli effetti secondari del suo incantesimo?
Ginny
non lo sapeva; lo guardò preoccupata con mille formule di
incantesimi del tutto inutili che le frullavano in mente.
“Ginny…
stammi vicino…”
“Come
dici?” replicò lei.
“Ho
paura… stammi vicino.”
“Sono
qui.”
“Dove
sei?”
Si
avvicinò e gli prese la mano, a disagio ma con sicurezza.
“GINNY,
DOVE SEI? NON MI LASCIARE DA SOLO… NON MI… LASCIARE… SOLO…”
Michael
si addormentò all’improvviso, completamente incosciente.
La
ragazza sentiva il cuore pulsare, la gola stringersi. Non poté fare
a meno di ricordare ogni singolo dettaglio del loro ultimo scontro;
lui voleva un orizzonte più largo, lei desiderava stargli accanto;
lui l’aveva allontanata e se n’era andato, soffocato da un
bisogno smisurato di libertà, lasciandola in balia delle sue paure e
del suo dolore, lui…
Basta.
Harry, c’era Harry con lei e niente contava al mondo più di lui.
Si rasserenò improvvisamente, e il balsamo che le addolciva il cuore
tornò a fare effetto. Harry l’avrebbe sempre protetta, anche dai
suoi stessi ricordi.
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