È notte quando atterriamo sul prato del Villaggio
dei Vincitori. Metà delle case, compresa la mia e
quella di Haymitch, hanno delle luci alle finestre. Quella di
Peeta no. Qualcuno ha acceso un fuoco nella mia cucina. Mi
siedo sulla sedia a dondolo lì davanti, stringendo
la lettera di mia madre.
— Be’, ci vediamo domani — dice Haymitch.
Mentre il tintinnio della sua borsa piena di bottiglie
di liquore si smorza in lontananza, bisbiglio: — Ne
dubito—
Sono incapace di spostarmi dalla sedia. Il resto della casa sembra
freddo e vuoto e buio. Mi copro il corpo con un vecchio scialle e
guardo le fiamme. Immagino di aver dormito, perché, ancor
prima di rendermene conto, è mattina, e Sae la Zozza sta
sbatacchiando qualcosa davanti alla stufa. Mi prepara delle uova e del
pane tostato e si siede lì finché non li ho
finiti. Non parliamo granché.
Dopo colazione, Sae la Zozza
lava i piatti e se ne va, ma torna all’ora di cena per farmi
mangiare ancora. Non so se agisca solo da buona vicina o se sia sul
libro paga del governo, ma continua a presentarsi due volte al giorno.
Lei cucina, io mangio.
Cerco di immaginare la mia prossima mossa. Non c’è
più niente che mi impedisca di togliermi la vita, ormai. Ma
è come se aspettassi qualcosa. Di tanto in tanto, il
telefono squilla, e continua a squillare per un bel po’, ma
io non rispondo. Haymitch non passa mai a trovarmi. Forse ha cambiato
idea e se ne è andato, anche se sospetto che sia
semplicemente ubriaco. Non viene nessuno, a parte Sae la Zozza.
— Si sente la primavera nell’aria, oggi. Dovresti
uscire — dice Sae — Andare a caccia.
Non ho mai messo piede fuori di casa. E nemmeno fuori dalla cucina,
tranne che per raggiungere il piccolo bagno a qualche passo
di distanza. Porto gli stessi vestiti che avevo quando lasciai Capitol
City. Me ne sto semplicemente seduta accanto al fuoco. A fissare le
lettere ancora chiuse che si accumulano sulla mensola del caminetto.
— Non ho un arco. — Cerca nell’ingresso
— ribatte. Una volta uscita Sae la Zozza, valuto la
possibilità di un viaggio sino all’ingresso. E la
escludo. Ma parecchie ore dopo, ci vado lo stesso, aggirandomi
silenziosa e senza scarpe per non risvegliare i fantasmi. Entro nello
studio dove presi il tè con il presidente Snow e trovo uno
scatolone che contiene la giacca da caccia di mio padre, il nostro
libro delle piante, la foto del matrimonio dei miei genitori, la
spillatrice che mi inviò Haymitch e il medaglione che Peeta
mi regalò nell’arena dell’orologio. I
due archi e la faretra di frecce che Gale salvò la notte
delle bombe incendiarie giacciono sulla scrivania. Indosso la giacca da
caccia senza toccare il resto.
Mi addormento sul divano
dell’elegante salotto. Segue un terribile incubo nel quale
sono sdraiata in una fossa profonda e tutti i morti che conosco per
nome sfilano uno a uno lì davanti per gettarmi sopra una
palata di cenere. È un sogno piuttosto lungo, tenuto conto
del numero delle persone, e più mi ricoprono, più
fatico a respirare. Cerco di gridare per implorarli di smettere, ma la
cenere mi riempie il naso e la bocca e non riesco a produrre alcun
suono. E intanto la pala continua a raschiare, ancora e ancora
… All’odore della cenere se ne unisce un altro,
nauseante, intenso: sangue e rose.
Mi sveglio con un sobbalzo. La pallida luce del mattino filtra dai
bordi delle persiane. Il grattare della pala cessa, ma
l’odore continua a riempirmi le narici. Ancora mezza
sprofondata nell’incubo, corro nell’ingresso, apro
la porta e mi riempio i polmoni dell’aria leggera e fresca
della primavera. Dopo un po’ rientro in casa, ma
quell’odore persiste ancora. E allora capisco. Tremante per
la debolezza e l’ansia, corro su per le scale. Il mio piede
urta l’ultimo gradino e cado sul pavimento. Mi costringo a
rialzarmi ed entro nella mia stanza. È lì. La
rosa bianca tra i fiori secchi, nel vaso. È fragile e
raggrinzita, ma conserva l’innaturale perfezione coltivata
nella serra di Snow. Afferro il vaso, scendo incespicando fino in
cucina e getto il suo contenuto tra le braci. Quando i fiori cominciano
a bruciare, una vampata bluastra avvolge la rosa e la divora. Il fuoco
batte le rose, ancora una volta. Tanto per non sbagliare, frantumo
anche il vaso sul pavimento. Tornata di sopra, spalanco le finestre
della stanza da letto per pulirla da ciò che resta del
fetore di Snow. Ma lui persiste, è ovunque, sui miei vestiti
e nei
miei pori. Mi spoglio, e scaglie di pelle grandi come carte da gioco
restano attaccate agli indumenti. Evitando lo specchio entro nella
doccia e mi strofino via le rose dai capelli, dal corpo, dalla bocca.
Con la pelle che pizzica e si è fatta rosa acceso frugo
nell'armadio alla ricerca di
qualcosa di pulito da mettermi. Mi ci vuole mezz’ora per
districare i capelli. Sae la Zozza apre la porta d’ingresso.
Mentre lei prepara la colazione io butto nel fuoco i vestiti che mi
sono tolta.
Da sopra il piatto di uova le chiedo: —
Dov’è andato Gale?
— Distretto 2. Ha un gran bel lavoro, là. Ogni
tanto lo vedo in TV — risponde.
Scavo dentro di me, cercando rabbia, odio, rancore. Trovo soltanto
sollievo. E nostalgia.
— Credi che tornerà?
—
— Gale? No, a meno che qualcuno non gli dia un motivo per
farlo. — risponde Sae, guardandomi attentamente.
— Oggi vado a caccia — dico, desiderosa di cambiare
argomento.
— Be’, in effetti un po’ di selvaggina
fresca non mi dispiacerebbe — commenta.
Mi armo di arco e frecce e vado fuori, con l’intenzione di
uscire dal 12 attraverso il Prato. Vicino alla piazza, ci sono gruppi
di persone che indossano mascherina e guanti e hanno carri trainati da
cavalli. Esaminano minuziosamente ciò che
quest’inverno giaceva sotto la neve. Raccolgono resti. Un
carretto è fermo davanti alla casa del
sindaco. Riconosco Thom, l’ex compagno di squadra di
Gale, che si è fermato un momento per asciugarsi il sudore
dal viso con uno straccio. Ricordo di averlo visto nel 13, ma
dev’essere tornato. Il suo saluto mi dà il
coraggio di chiedere: —Hanno trovato qualcuno, là
dentro?
— Tutta la famiglia. E le due persone che lavoravano per loro
— mi dice Thom.
Madge. Tranquilla e gentile e coraggiosa. La ragazza che mi
regalò la spilla da cui ho preso il nome. È un
boccone amaro. Mi chiedo se stanotte si unirà ai personaggi
che popolano i miei incubi gettandomi palate di cenere in bocca.
— Credevo che magari... visto che lui era il
sindaco…
— Non penso che essere sindaco del 12 lo abbia favorito
— dice Thom.
Annuisco e continuo per la mia strada, ben attenta a non guardare nel
fondo del carro. Da un capo all’altro della città
e del Giacimento la scena si ripete. La mietitura dei morti.
Più mi avvicino alle rovine della mia vecchia casa
più la strada
comincia a brulicare di carri. Il Prato non c’è
più, o quantomeno è cambiato radicalmente. Vi
hanno scavato una buca profonda che adesso stanno rivestendo di ossa,
una fossa comune per la mia gente. Sopraffatta dal dolore non riesco
ad andare oltre, mi volto e inizio a correre verso casa, ma la nausea e
le vertigini sono tali che Thom deve darmi un passaggio con il
carro dei morti. Entro in casa e mi acciambello sul divano del salotto,
dove
resto a guardare i granelli di polvere che volteggiano nei fiochi raggi
di luce pomeridiana.
Giro la testa di scatto quando sento soffiare, ma mi ci vuole un
po’ per credere che sia proprio lui.
Com’è riuscito ad arrivare fin qui? Osservo i
segni degli artigli di un qualche animale selvatico, la zampa
posteriore leggermente sollevata da terra, le ossa sporgenti del muso.
È venuto a piedi, allora, si è fatto tutta la
strada dal 13. Forse lo hanno sbattuto fuori, o forse non è
riuscito a rimanere là senza di lei, così
è venuto a cercarla.
— Hai fatto un viaggio inutile. Lei non è qui
— gli dico.
Ranuncolo soffia ancora. — Non è qui. Puoi
soffiare quanto ti pare. Non troverai Prim. — Si rianima,
sentendo quel nome. Alza le orecchie appiattite. Si mette a miagolare,
speranzoso. — Vattene! — Schiva il cuscino che gli
lancio contro. — Va’ via! Qui non
c’è più niente per te! —
Comincio a tremare, furibonda verso di lui. — Lei non
tornerà! Non tornerà mai più qui!
— Afferro un altro cuscino e mi alzo in piedi per avere una
mira migliore. Senza alcun preavviso, le lacrime cominciano a scorrermi
lungo le guance. — È morta. — Stringo
forte le braccia intorno alla vita per attenuare il dolore. Mi lascio
cadere sui talloni, cullando il cuscino e piangendo. —
È morta, stupido gatto.
È morta. — Un nuovo suono, che in parte
è urlo e in parte è canto, mi esce da dentro per
dare voce alla mia disperazione. Anche Ranuncolo si mette a gemere.
Qualunque cosa io faccia, lui non se ne andrà. Mi gira
intorno, appena fuori tiro, mentre ondate su ondate di singhiozzi
straziano il mio corpo. Poi perdo i sensi. Ma lui deve aver capito.
Deve essersi reso conto che l’impensabile è
accaduto e che sopravvivere richiederà azioni in precedenza
inconcepibili. Perché ore dopo, quando rinvengo nel mio
letto, lui è lì, alla luce della luna.
Rannicchiato al mio fianco, con gli occhi gialli ben vigili,che mi
protegge dalla notte.
La mattina dopo rimane stoicamente seduto mentre gli pulisco le ferite,
ma
estrargli la spina dalla zampa lo fa esplodere in una serie di quei
famosi miagolii da gattino svenevole. Finiamo per piangere di
nuovo tutti e due, solo che stavolta ci consoliamo a vicenda.
È per questo che apro la lettera, quella che Haymitch mi ha
consegnato da parte di mia madre, chiamo quel numero di telefono e
verso qualche lacrima anche con lei.
Riaggancio il telefono e mi volto per andare in cucina, ma la
mia attenzione cade su un’altra lettera poggiata accanto
alla mia bisaccia da caccia. Non l’avevo notata prima, deve
averla portata Sae mentre dormivo. No, la data risale a mesi prima,
poco dopo il mio rientro al distretto 12. Riconosco subito la grafia
ordinata e spigolosa in cui è scritto il mio nome sulla
busta. Gale. In un attimo infinite immagini mi attraversano la mente:
uno sperone di roccia che domina la valle, coperto da un cespuglio di
more, il loro gusto delicato, il cielo azzurro, il profumo dei boschi,
il volto di Gale, il sapore dei suoi baci, il suo profumo
così familiare, le sue carezze, quegli occhi grigi e
profondi, quelle dita agili e forti, le giornate passate a cacciare,
parlare, ridere… vivere. Con mani tremanti apro la busta e
inizio a leggere.
Catnip,
era da molto che desideravo scriverti
questa lettera
ma ogni
volta che provavo a buttare giù qualche riga mi ritrovavo a
fissare un foglio vuoto.
Ed ora eccomi qui ad affidare ad una
lettera le parole che non sono riuscito a dirti
l’ultima volta che ci siamo visti,
quando eri distrutta dal
dolore per la morte di Prim... morte che potrei aver causato io
stesso.
So che non potrai mai perdonarmi, che
nella tua mente io e la
perdita di Prim saremo per sempre legati in modo indissolubile.
Mi
tormento ogni giorno per quello che è successo, per il
dolore che ti ho causato e… per non averti più
nella mia vita.
Hai lasciato un vuoto incolmabile che
cerco di riempire
lavorando senza sosta e facendo ricerche e indagini con Beetee
per
capire di chi fosse quella bomba e
credimi quando ti dico che non
avrò pace finché non lo avrò scoperto.
È questo che mi
fa andare avanti, giorno dopo giorno.
Una parte di me continua a sperare che
tu possa perdonarmi,
ma sappiamo entrambi che tu non sei troppo brava a farlo.
Ti lascio il mio numero, nel caso
avessi voglia di sentire un
vecchio amico.
Ti amerò per sempre.
Rileggo
la lettera più volte, le guance rigate da lacrime che tenevo
dentro dal giorno in cui lo lasciai andare via senza dirgli nulla.
Crollo in ginocchio, la lettera ancora stretta tra le mani e continuo a
piangere, finchè non ricordo le parole di Sae. —
Un motivo per tornare…— sussurro tra me e me.
Scatto in piedi e afferro il telefono, compongo il numero e aspetto,
aggrappandomi alla cornetta e trattenendo il respiro. Al terzo squillo
risponde.
— Pronto? —
Se non ne conoscessi ogni sfumatura mi sarebbe impossibile riconoscere
Gale in quella voce triste e vuota, così diversa dal suono
caldo e rassicurante a cui ero abituata. Apro e chiudo la bocca
più volte, il cuore che batte e il respiro irregolare.
— Pronto? Chi è? — Provo a dire
qualcosa, ma le parole non riescono a superare la barriera delle mie
labbra e così riaggancio.
Sento la porta dell’ingresso aprirsi e vedo entrare Sae.
— Non avevi detto che saresti andata a caccia?
— mi chiede mentre prepara la colazione.
— Io…andrò domani, credo—
alzo lo sguardo e vedo che mi sta osservando attentamente.
— Tutto bene, ragazza? —
— Si, sono solo stanca, non ho dormito bene
stanotte — le dico fingendo uno sbadiglio. —
Faresti bene a riposare un po’, allora. Tornerò
per pranzo—
Mi trascino di nuovo in salotto e passo il resto della giornata a
guardare le fiamme che danzano nel caminetto, mangio il pranzo e la
cena di Sae e poi mi addormento accucciata sul divano con Ranuncolo
accanto a me. Passano alcuni giorni ma nulla riesce a smuovermi da
lì,
finchè una notte mi sveglio di soprassalto con la
sensazione di essere osservata. Cerco di ricordare il sogno che stavo
facendo: passeggiavo nei boschi con l’arco in spalla,
circondata dal silenzio e dalla pace che solo quei posti sanno darmi,
alla ricerca di qualcosa da cacciare. Più mi
inoltravo nella natura, più la sensazione che qualcuno fosse
li a guardarmi aumentava, ma non c’era nessuno. Poi ecco
spuntare degli occhi grigi tra le foglie,
tendevo l’arco
ma scomparivano prima che riuscissi a
scoccare la freccia. E così ancora e ancora, occhi grigi che
mi scrutavano e scomparivano non appena incrociavano il mio sguardo.
Scuota la testa per mandare via l’immagine di quegli occhi
dalla mia mente e mi alzo per avvicinarmi alla finestra. La luce
dell’alba inizia a illuminare il Distretto tingendo il cielo
blu con striature rosa chiaro. Vado in bagno, faccio una doccia, lego i
capelli nella solita treccia e mi vesto: è ora di andare a
caccia.
Percorro quasi di corsa la strada fino al Prato, lo attraverso e
penetro nei boschi dal mio solito posto.
È il tipo di giornata preferito dalla vecchia Katniss.
L’inizio della primavera. I boschi che si svegliano dopo il
lungo inverno. Penso di andare al lago, ma sono così debole
che riesco appena ad arrivare al punto in cui io e Gale ci
incontravamo. Mi siedo sulla roccia dove Cressida ci filmò,
ma è troppo grande senza il suo corpo accanto a me. A
più riprese, chiudo gli occhi e conto fino a dieci, credendo
che quando li riaprirò, lui si sarà
materializzato senza rumore, come spesso faceva. Devo ricordare a me
stessa che Gale è nel 2, ha un gran bel lavoro, e
probabilmente sta baciando un altro paio di labbra. Chiudo gli occhi
un’ultima volta e quando li riapro lui è li, a tre
metri da me, e mi osserva con un’espressione allo stesso
tempo triste, timorosa, malinconica e divertita.
— Ehy, Catnip — dice con voce tremante.
— Gale — dico con un sussurro appena udibile
— sei tornato —
— Era da un po’ che pensavo di farlo, ma
c’era qualcosa che me lo impediva. Poi, quando ho ricevuto la
tua telefonata…—
— Tu...come fai a sapere che ero io? Non ho detto
nulla— lo interrompo, ritrovando la voce.
— Catnip, nel silenzio dei boschi ho imparato a conoscere
anche il tuo respiro — risponde lui, con un sorriso amaro
sulle labbra — Ci ho messo un secondo a capire che si
trattava di te —
— Perché... perché non sei venuto
subito? —
Gale resta in silenzio per qualche secondo.
— Paura. Avevo paura di rivedere nei tuoi occhi
l’odio e il disprezzo che ci ho visto quando ci siamo
salutati, a Capitol City. Poi ho pensato che se mi avevi chiamato
forse c’era una speranza, seppur minima, che tu volessi
parlarmi, vedermi e...—
— Si, è così. Io…—
come al solito le parole mi muoiono dentro e me ne sto in silenzio,
con il volto nascosto tra le mani.
— Katniss…?— Gale si avvicina, mi prende
le mani e si siede davanti a me, il volto a mezzo metro dal mio, e
così mi costringo ad alzare la testa e guardarlo negli
occhi, quegli occhi grigi che così spesso hanno tormentato i
miei sogni negli ultimi giorni. Ma c’è qualcosa di
diverso in loro, sono circondati da occhiaie marcate e la scintilla che
li illuminava si è spenta lasciando il posto al
dolore.
— Mi dispiace — dico con un filo di voce. Gale mi
guarda con aria interrogativa, ma resta in silenzio ad ascoltarmi.
— Ero distrutta, arrabbiata, dilaniata dal dolore e ho
riversato tutto questo su di te, dandoti una colpa che non hai,
dimenticando gli errori e i crimini che io stessa ho commesso,
dimenticando che tu, più di ogni altro, ti sei preso cura
della mia famiglia quando io non potevo farlo, ho cancellato
tutto quello che abbiamo condiviso, quello che eravamo l’uno
per l’altra. Non potrò mai dimenticare quello che
è successo, né che i responsabili potrebbero
essere stati i ribelli, ma non posso continuare a incolpare te
— dico tutto d'un fiato, la voce roca.
— Katniss…—
— Non è stata colpa tua, Gale. Scusa se ci ho
messo così tanto a capirlo —
Gale mi guarda per qualche istante, poi si schiarisce la voce.
— Ti.. ti avevo scritto
che non avrei trovato pace finchè non avessi scoperto la
verità, ricordi? — dice porgendomi una lettera
— Me l'’ha mandata Beetee due giorni dopo che mi
hai
chiamato —
Le mani mi tremano così tanto che quasi non riesco ad aprire
la busta.
Gale,
ho provato a chiamarti più volte, ma non
eri mai in casa.
Non volevo darti questa notizia tramite una lettera,
ma è troppo importante per aspettare ancora.
Sono arrivati i risultati della perizia, te ne allego una copia.
Beete
Prendo il secondo
foglio e inizio a leggerlo. I miei occhi scorrono avidamente parole
incomprensibili e termini tecnici alla ricerca della risposta che
aspetto da mesi. Alla fine la trovo e la rileggo più volte
prima di alzare gli occhi sul volto di Gale, rigato da lacrime
silenziose.
Ciao
a tutti!
Come avrete notato questo primo capitolo riprende parte del libro, ho
pensato fosse il modo migliore per assicurare una certa
continuità con l'originale.
Spero vi sia piaciuto
e aspetto i vostri commenti! A presto con il prossimo capitolo
:D
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