Era stravaccato sul sedile
della metropolitana, appoggiato con la spalla alla parete. Il capelli neri,
portati un po’ lunghi sulle orecchie - perché andare dal parrucchiere voleva
dire buttare via il tempo - erano sparsi alla rinfusa sulla fronte e un po’
sulle guance. Quasi, anche loro, fossero stanchi dalla sera prima.
I suoi occhi erano chiusi e
appesantiti, la maglia con le maniche tirate sopra le mani, perché quando aveva
sonno aveva anche molto freddo. I jeans accasciati sulle gambe e su delle scarpe
che non erano state allacciate.
La gente si accalcava,
signore con troppo profumo per il primo mattino sbuffavano, uomini d’affari
leggevano quotidiani di finanza e un marmocchio urlava, in fondo alla carrozza.
Un paio di ragazzine bisbigliavano fra di loro, continuando a lanciargli
occhiate. Ma lui non sentiva niente, neanche la musica eccessivamente alta nelle
cuffie. Era davvero stanco.
Quel giorno riprendeva la
scuola e lui ci avrebbe messo i suoi soliti nove mesi per abituarsi a svegliarsi
così presto al mattino.
Liceo Classico Berchet,
fermata della metropolitana Crocetta.
Emanuele aprì un occhio per
vedere a che punto fosse arrivato. Mancava ancora qualche fermata.
Quell’anno era in seconda
liceo. Sbuffò, cercando di svegliarsi. Ci sarebbero stati ancora stupidi che gli
avrebbero chiesto come mai, a quasi diciassette anni, era ancora in seconda.
Imbecilli. Se davvero non
sapevano che al classico gli anni si contano diversamente e che la seconda liceo
era la quarta superiore erano davvero degli imbecilli.
Emanuele pensava che bene o
male, quasi tutti fossero insopportabili imbecilli.
Porta Romana.
Ancora una fermata.
Che palle. Da non credere che
le vacanze estive fossero passate così in fretta. Sembrava ieri che si era tutti
in Sicilia a cazzeggiare, mangiare arancini, cazzeggiare e passare ai cannoli e
cazzeggiare di nuovo. Sembrava ieri che quel pirla di Saverio ci provava con
tutte le ragazze della spiaggia.
E invece eccoci qui,
nuovamente a Settembre, nuovamente a Milano, nuovamente stanchi... Emanuele
sbuffò e si alzò dal suo posto.
“Ehi, Lele!”
Voce nota, lievemente nasale:
quel pirla di Save.
“Leleee”
Gli occhi verdi si Emanuele
cercarono l’amico nella carrozza.
“Sono qui” era ad aspettarlo
sulla banchina.
“Cazzo, Lele, che faccia
c’hai? ‘zzo hai fatto ieri sera?”
“Solito. Una birra”
“Doveva essere roba forte!
Non mi sembri al meglio per ricominciare”
Emanuele alzò il
sopracciglio, con aria interrogativa. Non aveva davvero la forza di parlare
“Ci sarà Bianca. Ci saranno i
capelli di Bianca, il culo di Bianca, le gambe di Bianca…” Saverio disse con
aria sognante.
“A meno che non l’abbiano
smembrata, ci sarà tutta Bianca”
“Il proposito di quest’anno è
farmela”
Lele rise: “E’ il tuo
proposito dalla quarta ginnasio, scemo”
“Ma quest’anno davvero, me la
faccio”
“Non te la darà neanche
quest’anno”
“Deve!” Saverio disse quasi
fosse un’ovvietà “ Se non altro per la mia costanza”
Salite le scale, Emanuele si
accese una sigaretta, scostò i capelli mori dalla fronte, perché rischiavano di
bruciarsi con l’accendino, e aspirò profondamente, cercando in quel fumo un po’
di forza per quella mattina, grigia e catatonica.
Salite le scale, Emanuele non
si accorse della ragazza che gli passò di fianco, di corsa. Non si accorse dei
suoi capelli, delle sue gambe. Non si accorse di nulla.
Non si accorse nemmeno degli
occhi di Emma, che guardavano altrove.
Si passarono così vicini da
toccarsi, ma nessuno dei due si accorse di nulla.
Emanuele prese una lunga
boccata.
“Caffè prima di cominciare”
disse più come un dato di fatto che come una proposta.
“Eccola là. Chiamala e
offrile un caffè” Saverio si sbracciò per catturare l’attenzione di Bianca
“Biancaaaa” La ragazza non sentì “Biancaaaaa”
“Tanto neanche quest’anno la
convinci” Saverio si girò verso chi aveva parlato, ma si zittì prima di
cominciare. La voce apparteneva ad un ragazzo di dieci centimetri e trenta chili
più grande di lui, coi capelli rasati e la giacca di pelle nera.
“Ciao Muto” apostrofò Lele
che non aveva alzato lo sguardo per vedere il compagno di classe.
“Ah, ciao Muto” proseguì
Saverio che di avere Muto così vicino non era mai felice.
“Ti ho già detto che non mi
piace che mi chiami Muto”
“Ma anche lui ti ha appena
chiamato muto”
“E tu non chiamarmi”
“Ma scusa, ti chiami Muto,
come altro devo chiamarti?”
“Andrea”
Saverio si strinse nelle
spalle: “Che nome banale. Muto è molto più chic”
Il ragazzone aggrottò le
sopracciglia e diede una spinta amichevole all’amico.
“Stronzo”
Raggiunsero le ragazze.
Un figura esile, slanciata,
dai lunghi capelli castani si buttò fra le braccia di Emanuele.
“Ciao Lele” miagolò “Sono
così felice di rivederti”
“Caffè” riuscì a dire il
ragazzo, cercando di scrollarsi di dosso quelle braccia troppo invadenti.
“Dovete scusarlo” intervenne
Saverio “senza caffeina, sappiamo che il nostro Lele non funziona. Soprattutto
la mattina presto”
Si fermarono al bar e Lele
sbuffò, per l’ennesima volta, quella mattina. Tutti sembravano felici: Saverio
che parlava con Bianca, il Muto che parlava di con Margherita, i ragazzi della B
ammucchiati al bancone…
Ma per lui era più
complicato, troppo più complicato. La scuola non gli piaceva. Non gli era mai
piaciuta. Poche erano le materie che gli interessavano, e ancora meno i
professori che gli piacevano. Si applicava, sì – perché non si può certo dire
che non studiasse – aveva voti alti e, bene o male, i professori non potevano
dirgli molto sulla sua resa scolastica. Eppure i colloqui erano sempre uguali:
il ragazzo si applica, sì, ma potrebbe farlo di più. Lei, signora, non ha idea
delle potenzialità che spreca! E poi, signora, c’è quel carattere! Quel
carattere così cupo. E’ sempre circondato da un nugolo di persone, ma è come se
lui non ci fosse mai. Alcuni intervalli li passa a leggere, altri ad ascoltare
musica. Vede signora, non dico che il leggere faccia male. Ovviamente.
Tutt’altro. Ma Emanuele usa la lettura per isolarsi. Ride poco, solo quando
legge. O quando parla con quel Saverio lì che, in tutta onestà, è troppo
occupato coi suoi ormoni per occuparsi di studiare.
Vede signora,
all’apparenza va tutto bene. I voti sono alti, il ragazzo è bravo, ma noi del
consiglio vorremmo che facesse altro, che desse di più. Se quegl’amici che ha
non gli piacciono, se tutto quel malumore deriva dal fatto che Emanuele si sente
troppo intelligente per loro, allora che venga al consiglio di istituto, che si
lasci coinvolgere dalle attività extra scolastiche, che…
Che un paio di palle.
Imbecilli, tutti quanti. E i prof di certo non facevano eccezione. Lasciarsi
coinvolgere dal consiglio di Istituto. Davvero, Emanuele, raramente aveva
sentito una stronzata peggiore di quella. Voleva farsi i cazzi suoi. I
sacrosanti cazzi suoi. Che male c’era?
Poi nessuno lo divertiva
molto. Saverio forse era l’unico. E le prof. Ignoravano le sue di grandi
potenzialità.
Poi c’era il Milan, la
domenica, il calcetto il sabato e le birre della sera.
Perché doveva essere più
sociale di così? La sua musica, i suoi libri… Loro gli riempivano la mente con
qualcosa. Il resto no.
Era stato in vacanza in
Sicilia quell’estate. Si era divertito, anche tanto a dire il vero.
Allora che cazzo volevano i
suoi prof?
C’era una differenza sottile
fra quello che gli dicevano i professori e quella che era la realtà. Il tanto
decantato domani, Emanuele, non riusciva a carpirlo. Si era sempre chiesto il
perché tutti si affannassero ad avere “un futuro”, mentre non avevano neanche un
presente. Una volta aveva provato a parlarne in classe, ma la sua professoressa
di filosofia aveva liquidato l’argomento dicendogli che il suo modo di pensare
era troppo adolescenziale. La irresponsabilità di non farsi carico di un domani
era tipico dell’età.
Emanuele scrollò le spalle e
ordinò un secondo caffè al bar.
“Dobbiamo andare!” gli disse
Saverio
“Un caffè e ci sono” Lo
inghiottì in un sorso.
Di fronte alla scuola c’erano
tutti gli altri. Gli erano mancati? Emanuele si strinse nelle spalle: non che
non li volesse rivedere, ma vederli domani invece che oggi non avrebbe cambiato
nulla.
Ultimo banco, in fondo a
sinistra verso la finestra. Era il suo posto nessuno osava prenderglielo.
Saverio di fianco a lui,
Bianca e Margherita davanti, le gemelle Sospiri – che continuavano anche
quest’anno a sospirare per lui – davanti a destra, il cele e la Cele al primo
banco…
Tutto drammaticamente uguale.
Prof di Latino.
“Cazzo, latino per
cominciare. Dev’essere un presagio. Quest’anno andrà male” bisbigliò Saverio
“Chiara Adiani”
Presente
“Celeste Arbati”
Presente
“Francesco Celese”
Presente
“Saverio Cuadri”
Saverio alzò la mano: “Sempre
con la C, prof, e sempre presente” Trovava estremamente divertente che nel suo
cognome ci fosse un errore di ortografia.
Dopo poco, il suo nome
“Emanuele Facoeri”
Sì, era davvero tutto
ricominciato.
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