No Heaven For Us

di Mimi Zhou
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No Heaven For Us
una fanfic di Mimi Zhou tradotta dall’inglese da Juuhachi Go
[link al testo originale]

«Resteremo insieme, sempre. Questa è la nostra promessa.».

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Come al solito, Yasha aveva lasciato che Ashura prendesse l’iniziativa. Dapprima questo significò semplicemente scendere a fatica lungo i tentacoli serpentini che ricoprivano le pareti inclinate di ciò che un tempo era stato Zenmi-jou. Osservò Ashura balzare leggero di ramo in ramo, le sue gambe snelle che lo trasportavano ad altezze vertiginose con l’inconscia grazia di una gazzella.
Sì, ecco a cosa somigliava quella leggendaria creatura dagli occhi d’oro fuso, decise Yasha, nonostante non fosse mai stato portato per i voli pindarici.

«Vieni?» lo richiamò Ashura, ansimando per l’eccitazione e lo sforzo. Yasha realizzò di non essersi mosso negli ultimi minuti. Con più attenzione e meno grazia cominciò ad arrancare verso il basso. Non poteva più misurare bene la distanza con un solo occhio, e non aveva alcun desiderio di rompersi l’osso del collo il primo giorno in cui Ashura gli era stato restituito.

Raggiunse il fondo ansando, e notò con mesta invidia che Ashura era già seduto su un pezzo di roccia, le gambe sistemate sotto di sé, senza ansimare né boccheggiare. Lo stava guardando, la testa inclinata a mo’ di curiosa creatura della foresta. Era una scena dolorosamente familiare, un’immagine trapiantata dal passato.
Improvvisamente, con tutto se stesso, Yasha desiderò andare da lui, prendere quel dolce, giovane corpo fra le braccia e seppellire il volto nei capelli neri, sentendo le ciocche solleticargli il viso. Poteva quasi sentire quel loro caratteristico odore, di sole ed erica. Voleva che il mondo retrocedesse, fino a che non fossero rimasti che loro due.

Ma gli occhi dorati lo trattennero, limpidi come cristallo e altrettanto indecifrabili, sul cui fondo si acquattava qualcosa. Ashura si stava già alzando, districandosi con la grazia che non aveva mai mancato di stupire Yasha, anche quando Ashura era l’“Ashura Oscuro”, e aveva in mente solamente sangue e massacri.

«Forza, andiamo.» disse Ashura, cominciando a muoversi nella sabbia.
Yasha lo seguì senza proferire parola. Non chiese dove Ashura intendesse andare. Non l’aveva mai fatto. Era sufficiente che Ashura lo volesse.

*********************

Il paesaggio attorno a lui gli era estraneo. Per prima cosa, c’era la sabbia. Un deserto in miniatura, nonostante non ne avesse mai visto uno in nessun luogo delle fertili terre del Tenkai. Poi guardò in alto, in lontananza, aspettandosi di vedere le graziose spire di Zenmi-jou e trovando, invece, un’accozzaglia di rovine. Più in là nella sabbia vi era un’altra sagoma che non riconosceva, che ricordava vagamente una conchiglia. Un gruzzolo di ricordi frammentati, simili a un sogno, forse risalenti a quando era ancora intrappolato nella kekkai, gli suggerirono che quello fosse il nuovo Zenmi-jou. Era strano vederlo ora in rovina, quando non l’aveva mai visto integro.

Il suo corpo gli sembrava bizzarro. Guardava in basso e si aspettava di vedere le gambe piccole e robuste, e il torso esile e compatto, ma scopriva invece di essere a un’eccessiva distanza da terra. Le gambe erano troppo lunghe, troppo sottili; si sentiva in equilibrio precario su di esse. Poi c’era il peso sconosciuto dei capelli dietro la schiena, le ciocche che gli facevano prudere la pelle delicata del collo e che gli finivano sul viso, poco importava quanto tentasse di trattenerle.

Ma il corpo sembrava cavarsela abbastanza bene da solo, traendo spunto da qualche ricordo dimenticato, in modo che i gomiti e le ginocchia non si intralciassero a vicenda, e si muovessero, anzi, con una qualche parvenza di grazia.
E i capelli ondeggiavano e si increspavano nel vento come quelli di Yasha, così sopportò il pizzicore e non minacciò più di tagliarli, dopo la prima orripilata occhiata da parte di lui.
Non faceva caso alla stranezza, non più di tanto. Al momento lo distraeva, così da evitargli di pensare e ricordare. Poteva solo guardare il suo corpo muoversi, come se appartenesse a qualcun altro, fingendo, in realtà, che fosse di qualcun altro. Sembrava che la sua vita precedente fosse nient’altro che un sogno, filtrato attraverso le lenti scure del suo riposo nella kekkai.

Poi Yasha chiamava il suo nome con quella voce piena d’urgenza, per metà un comando, per metà una carezza, e l’incantesimo si spezzava, così, semplicemente.

*********************

Camminavano per la maggior parte in silenzio. Prima non aveva mai avuto bisogno di preoccuparsi di dire alcunché. Ashura soleva scorrazzare avanti e indietro, alimentando un infinito fiume di chiacchiere, strillando di gioia ogniqualvolta un riccio spaventato sfrecciava nel sottobosco. Adesso Ashura camminava al suo fianco, silenzioso e impenetrabile. Era un po’ sorprendente accorgersi che non aveva più bisogno di affaticarsi per adeguarsi al suo passo. Con una fitta di dolore, Yasha si rese conto che non l’avrebbe mai più portato sulle spalle, o sentito una mano piccola e tiepida che sgusciava nella sua.

Lanciò un’occhiata furtiva alla figura dietro di sé. Lo sguardo d’oro era incappucciato e guardava lontano; le ciglia erano incredibilmente lunghe; il profilo era perfetto. Era difficile immaginare quella creatura elegante che andava ad acchiappare ricci con tanto entusiasmo. Confuso, Yasha si chiese per un attimo cosa stesse facendo. Come diamine era finito con quello sconosciuto al suo fianco, dopo aver giurato che avrebbero trascorso insieme il resto delle loro vite?

Poi chiamava il nome di Ashura come se fosse stato un talismano. Ashura si voltava verso di lui, e gli sorrideva. E Yasha aveva modo di vedere che non era un estraneo, dopotutto. Lui l’avrebbe riconosciuto, ovunque, in ogni forma. Anche mentre era l’Ashura Oscuro, Yasha era stato sicuro, con feroce convinzione, che fosse il suo Ashura.

Presto la loro destinazione divenne inequivocabile. Le porte della città apparvero all’orizzonte, la città degli umani vicina a Zenmi-jou.
Più da vicino, Yasha vide che l’ingresso era drappeggiato di nero, e che una compatta fila di gente entrava nella città sottostante. Ricordò che Kujaku gli aveva detto che Taishakuten era morto. Si chiese se avesse dovuto informare Ashura, ma decise che l’avrebbe comunque scoperto abbastanza presto.

Le guardie davanti alle porte, scambiandoli per due in lutto a causa dei loro abiti bianchi e blu, diedero loro molte informazioni.

«Sì, il funerale di Sua Maestà Taishakuten si terrà domani. Zenmi-jou sarà aperto a tutti i visitatori, e ci sarà generosità per chi verrà, per grazia del Tentei.» Sì, per ‘Tentei’ intendeva Ten-ou. Tale risposta fu accompagnata da una strana occhiata in direzione di Ashura. «È diventato Tentei da poco. Ma avrete difficoltà a trovare alloggio, stanotte. Tutto il Tenkai deve essere venuto qui per il funerale. Forse potreste chiedere all’osteria laggiù. È gente onesta, e forse vi daranno un buon pasto e vi permetteranno di fermarvi nella stalla per la notte in cambio di una piccola somma.».

Yasha ringraziò l’uomo. Poi Ashura si tolse il cappuccio, facendo sgranare gli occhi di quest’ultimo. «Per gli dei… tu sei un Ashura.».

La parola fu pronunciata in tono di inumano terrore, e frenò bruscamente la folla attorno a loro. Tutti gli occhi si rivolsero in direzione di Ashura, notando le orecchie a punta, i grandi occhi dorati, i lineamenti finemente cesellati.
“Clan degli Ashura”, “demoni”, le parole si diffusero a macchia d’olio fra la folla.

«Non vogliamo la loro razza qui.» qualcuno finalmente ritrovò la lingua. Un coro di assensi si innalzò dalla moltitudine.

«È vero, sono mostri, ecco cosa sono!».
«Cannibale, succhiasangue!».1
«L’ultimo massacro non è bastato? E tu osi venire qui!».
«Sì, dovresti essere bruciato e fatto a pezzi!».

Ashura impallidì, e i suoi occhi si dilatarono appena, ma non si mosse. Stava immobile con una rigidezza tale che Yasha poteva avvertire il suo involontario tremore. Poi, la prima manciata di fango sfrecciò nell’aria e atterrò sul viso di Ashura, centrandolo in pieno. Ciononostante, lui restò fermo. Yasha, però, ne percepì l’impatto come se fosse atterrata su di sé.
Il mondo divenne rosso. La sua mano si strinse attorno alla curva familiare dell’elsa della sua spada, e lui già pregustò l’appagante scricchiolio di quando fendeva carne ed ossa umane.

«NO! Yashaa!» Ashura si mosse, tenendogli a freno il braccio per impedirne il fatale percorso. «Ti prego, Yasha, non farlo.».
«Ti hanno fatto del male, Ashura. Non gliela farò passare liscia.».
Tentò di respingerlo, ma lui gli si aggrappò con la forza della disperazione.

«Ti prego, ti prego, andiamocene e basta. Voglio andarmene. Portami via da qui.». Il tono supplichevole e gli occhi lucidi di lacrime avevano sempre funzionato, prima. Yasha vide svanire il velo rosso davanti ai propri occhi.
Rimase a guardare mentre una lacrima cadeva da un occhio dorato, tracciando una scia attraverso il fango. Inconsciamente, Yasha tese una mano per strofinarlo via. La pelle sotto di esso era rossa e gonfia, e Ashura fece una piccola smorfia al suo tocco leggero.
Yasha sentì la propria rabbia divampare ancora.

«Yasha, voglio che nessuno venga ferito per colpa mia, non lo capisci?». La lieve incrinatura nella sua voce era da spezzare il cuore, e Yasha non poteva sopportare di esserne la causa. Ripose Yamatou nel suo fodero e poi, dal momento che non poteva farne a meno, e non poteva lasciare le cose in quel modo, si chinò e prese Ashura in braccio. La folla si ritrasse mentre lui la attraversava, Ashura ancora cullato fra le sue braccia. Sorprendentemente, ci stava ancora bene, raggomitolato in una pallina compatta, la testa sepolta esattamente nell’incavo della sua spalla.


*********************

Abbandonarono la città e si accamparono in una radura nella foresta.
Yasha gli aveva lavato via il fango dal viso con tenerezza, come faceva quando Ashura era ancora bambino. Stava cominciando a diventare sempre più difficile fingere che quello fosse un altro mondo, e che lui fosse una persona diversa.

Ashura tentò di recuperare quel senso di distacco. “Questo non è il mio mondo” disse fra sé e sé. Quel nuovo mondo lo sentiva completamente alieno.
Era strano sentir parlare di Taishakuten con tutta quella riverenza, era strano sentir parlare la gente del Tentei con tale affetto, e ricordare con un sobbalzo che era Ten-ou, suo fratello, colui del quale parlavano. Poi, Ashura realizzò cosa questo volesse dire. Non aveva più uno scopo, un nemico. Non aveva necessità di guardarsi indietro in cerca di inseguitori, né di guardare avanti, allo scontro contro Taishakuten.
Era finita, insomma.

E la cosa più strana di tutte era il sentir parlare del clan degli Ashura con tale disprezzo. In realtà, non era in grado di ricollegare che era il clan degli Ashura, quello di cui parlavano.

Improvvisamente, tutto gli piombò addosso con furia: chi era, cosa aveva fatto. Neanche gli strati di veli del tempo e del suo lungo sonno potevano più oscurare i ricordi. Gigei, Shara, Ryuu, e chissà quanti altri.
Con impressionante chiarezza, Ashura vide, e capì.

Non aveva importanza che Yasha gli avesse detto che non era colpa sua, o che non era in sé, quand’era successo. La verità non cambiava: se Ashura non fosse mai nato, mai esistito, nessuna di quelle persone sarebbe morta. Tutto qua. E nessuna dose di parole e abbracci e scuse da parte di Yasha avrebbe mai potuto cambiare le cose. Yasha l’avrebbe sempre perdonato. Prima, questo era sempre stato abbastanza. Ma non adesso, non più.

«Ashura, vieni a mangiare.» chiamò Yasha. Ashura scivolò giù dal suo ramo sull’albero. Sorrise nel constatare che, come sempre, Yasha aveva cucinato abbastanza da sfamare un reggimento. Era strano il modo in cui riusciva ancora camminare e sorridere e scherzare, quando a lui sembrava di non poter respirare per la sofferenza che gli premeva sul petto. Ma non poteva dire di non avere fame. Yasha si sarebbe allarmato. Ashura aveva sempre avuto fame, prima. Così, finse di mangiare, e sorrise all’impacciata battuta di Yasha in merito alla sua mancanza di appetito, nonostante sentisse lo stomaco che si serrava e la gola che sembrava chiudersi al mero pensiero di ingoiare del cibo.

Yasha era sempre lo stesso. Un costante promemoria a ricordargli che quello era il Tenkai, il suo mondo, non un’altra dimensione; che quello era il suo corpo, lui stesso, Ashura, e che nessuna recita2 avrebbe potuto riportare in vita i morti. Era ironico, quando invece Yasha tentava di difenderlo in ogni modo. Ricordò quanto si era infuriato affrontando la folla inferocita. Ma quel che dicevano era vero. In fondo al cuore, Ashura lo sapeva. Con la finzione aveva chiuso una volta per tutte.

Sapeva cosa fare. Si era figurato la scena in mente innumerevoli volte. Si era assicurato che Yamatou fosse lontana dal giaciglio di pellicce3 quando andarono a coricarsi. In seguito, Ashura prese a distrarre Yasha avviluppandosi contro di lui, che divenne troppo impegnato a riempirgli il viso di baci per notare qualunque altra cosa. Pareva che la ridicola lunghezza di quelle gambe si fosse rivelata utile, dopotutto. Era stato davvero piacevole sentirle intrecciate a quelle ben tornite di Yasha, e dormire con il suo petto ampio che gli faceva da guanciale sotto la testa. Ad Ashura dispiacque scivolare lontano dalle braccia che lo circondavano, e sapere che non le avrebbe più sentite attorno a sé.

Per qualche attimo, si concesse il lusso di guardare in direzione dell’uomo addormentato. C’erano delle cose che avrebbe voluto dirgli, ma non poteva rischiare di svegliarlo, così le ripeté in mente e sperò che Yasha le sentisse in sogno.

“Mi dispiace di essere così egoista, Yasha. Ho cercato di fare del mio meglio per essere coraggioso, ma sono un codardo fino in fondo. Non lo vedi? Se resto con te morirai, e io non posso sopportarlo. Perciò temo di non poter mantenere la nostra promessa. Perdonami.”.

Raccolse la spada con cautela, lieto che la sua altezza impedisse a Yamatou di trascinarsi a terra. Sapeva come muoversi velocemente nell’oscurità. Era stata Souma a insegnarglielo, un tempo. Souma… represse il nodo che gli stava salendo alla gola. L’elsa di Yamatou era di una solidità rassicurante, nel suo palmo. Ricordava com’era stato quando aveva affondato Shuratou nel proprio cuore. Non era stato più di un formicolio intorpidito. Naturalmente, stavolta aveva progettato di usare Yamatou, perciò avrebbe potuto essere più doloroso. Ma voleva essere sicuro. Magari un Ashura aveva un qualche tipo di difesa contro le ferite, o magari sarebbe stato di nuovo circondato da una kekkai. In qualche modo, sapeva che, se l’avesse fatto con Yamatou, sarebbe stato definitivo.

«Scusami, Kujaku. Non volevo sprecare il tuo dono. Ma è meglio così.» sussurrò nel buio, prima di sollevare la lama.

Si accorse di un’inaspettata resistenza, nel farlo.
Yasha l’aveva scoperto, alla fine, e adesso, anche nell’oscurità, Ashura poteva percepire quegli occhi che scavavano dentro di lui.

«Yasha, non lo vedi, sono tutti morti per colpa mia.» e scosse freneticamente la testa per non permettere a Yasha di parlare. «Lo so quel che mi hai detto, che non è colpa mia. Ma Yasha, non sono più un bambino. Lo so che è colpa mia, che è colpa della mia nascita, se Zenmi-jou è sepolta sotto una montagna di teschi.» fece un singhiozzo poco dignitoso e proseguì, disperato: «Quindi ti prego, ti prego, fammi morire adesso e basta. Fammi porre fine a questa sofferenza, ti prego.».

Con sua sorpresa, Yasha non disse niente, non lo contestò, né lo rassicurò. Rimase solamente a contemplarlo, finché Ashura non si sentì annegare in quelle polle scure. Istericamente, pensò che fosse davvero un bel modo di morire.

«Se è questo quello che vuoi, ti aiuterò.». Per un attimo, Ashura credette di aver sentito male. Poi si sorprese così tanto che fu solo in grado di fissarlo. Yasha sorrise, e sollevò una mano per asciugare una lacrima.

«Ashura, sai che non potrei negarti niente. Se è questo che vuoi, allora…» si protese, e Ashura non poté trovare la volontà di resistere. Le sue ginocchia si fecero d’acqua mentre il braccio di Yasha lo cingeva, attirandolo saldamente contro il suo solido torace, serrato in un accogliente abbraccio4.
Poi vide il brillio metallico nell’altra mano di Yasha.
D’improvviso si rese conto di cosa Yasha avesse intenzione di fare. Che cieco sciocco era stato, a non accorgersene!

****************

«Yasha, ti prego, promettimi che…» Ashura lottò fra le sue braccia senza alcun risultato.
«Prometterti cosa, Ashura?» gli sussurrò all’orecchio Yasha, «Che non mi ucciderò? Che vivrò per sempre felice e contento?».
«Ashura, vorresti fare di me un bugiardo?» gli chiese con enfasi. Ad un tratto, il corpo di lui fra le sue braccia rimase completamente immobile. Yasha colse l’opportunità per chinarsi a strofinargli i capelli. L’odore era proprio quello che ricordava, un misto di sole ed erica. Sentì la testa scura che si muoveva leggermente sotto le sue labbra, un movimento minuscolo, con cui Ashura diede segno di averlo sentito.

«No, Yasha… ma…» poteva a stento sentire le sue parole soffocate, mentre Ashura si voltava e affondava il viso nel suo petto. Il suo corpo, svuotato di ogni resistenza, sembrava una floscia bambola nella sua stretta.
Poi Ashura emise un piccolo sospiro.

«No, Yasha, non morirò.» ripeté, come per rassicurarlo. Ma la stanchezza nella sua voce e il piccolo, involontario singhiozzo alla fine dissero a Yasha più di quanto avrebbe voluto sapere. Di punto in bianco, vide con perfetta chiarezza quale fosse stato il panorama della vita di Ashura, il senso di colpa che si portava dietro e i suoi ricordi corrotti.

Era sempre stato facile ingannare Ashura, imbrigliarlo in un’intricata ragnatela di parole e promesse. Ashura avrebbe continuato a vivere, solo perché Yasha potesse rimanere un uomo di parola. Solo perché Yasha potesse essere felice. Quanto sembrava volgare ed egoista, questo. Non era quel che Ashura desiderava. Ma il suo infido cuore sussurrava segretamente alla mente che Ashura sarebbe stato vivo, e al suo fianco. Improvvisamente, Yasha si disgustò di se stesso. Per Ashura avrebbe imbrogliato, mentito, infranto promesse.

Non sarebbe stato granché difficile promettere che non si sarebbe ucciso, per poi farlo appena Ashura fosse morto. Ma le labbra non riuscivano ad articolare le parole, né lui riusciva a legare Ashura alla vita con la minaccia della sua morte.
Il tempo per quel tipo di giochetti era finito.
«Guardami, amore.». Quando Ashura non sollevò la testa, Yasha prese il mento delicato fra le mani, e, con dolcezza, costrinse gli occhi d’oro a incontrare i suoi. Lo fecero, dopo un po’. Yasha seppe cosa fosse suo dovere dire.

«No, Ashura. Non potrei mai chiederti una cosa del genere. La tua vita non mi appartiene. È tua. Vivila, se lo desideri, o abbandonala, se è questo che vuoi.». Ecco, l’aveva detto, e si era sforzato di non farlo con aria supplice. Silenziosamente, aggiunse: “Ashura, non è la tua vita ad appartenermi. È la mia, che appartiene a te. Sono tue entrambe, e sono a tua disposizione.”. Non poteva arrischiarsi a dirlo ad alta voce, non avrebbe ripetuto i suoi vecchi errori. Poteva solo guardare Ashura, stupidamente, e sperare che bastasse.

****************

Gli era sembrato così semplice togliersi la vita, porre fine a tutta quella sofferenza. Adesso aveva anche il permesso di Yasha. Ma non riusciva a muoversi, non al cospetto della fissità nei suoi occhi scuri. Li ricordava intenti a guardarlo con la stessa espressione mentre lui era ancora imprigionato nella kekkai. Voleva distogliere lo sguardo, impedirsi di comprendere il silenzioso messaggio che gli comunicavano.

«Amore.» l’aveva chiamato Yasha.

Era così semplice, vero? Perché, nonostante il dolore e la colpevolezza che si avvolgevano attorno al suo cuore come bande d’acciaio, e la consapevolezza del proprio crimine, non poteva lasciare Yasha. Non riusciva a sopportare il pensiero di non potersi svegliare al suo fianco, di non poterlo toccare. Anche la più semplice delle occhiate e il più lieve dei baci bastavano a restituirgli la voglia di vivere, a tenere a bada il tormento.

“Sono un codardo” pensò disperatamente, e tuttavia si stava già muovendo, spostandosi contro Yasha in modo da poter tendere la mano e chiuderla sulla mascella solida, e sentire la ruvidezza della barba pungergli il palmo. E poi più in alto, oltre la superficie leggermente incavata sotto lo zigomo, per tracciare la linea del sopracciglio all’insù, e della cicatrice sotto di esso. Fece scorrere un dito lungo la sporgenza del naso, prendendo nuovamente confidenza con quei lineamenti tanto amati.

Poi, come aveva fatto un tempo, in una vita precedente, gli disse «Yasha, sono tornato.» .5

 

Note della traduttrice:
1 In originale: “Flesh eater, blood drinker!”, che, se tradotto pedissequamente, significa “Mangiatore di carne umana, bevitore di sangue!”, ma la lunghezza, come noterete, è un po’ eccessiva... Coniare dei termini appropriati non avrebbe dato esito granché buono, così ho dovuto regolarmi di conseguenza.
2 In originale “no amount of pretending”, “nessuna quantità di finzioni”, che ho deciso di cambiare per evitare una ripetizione con il paragrafo superiore.
3 In originale indica solo “pelt”, “pelliccia”, ma ho temuto che non sarebbe stato granché chiaro…
4 In originale “His knees turned to water as Yasha's arm encircled him, pulling him back firmly against the hard chest, a welcoming vise around him.”, laddove “a welcoming vise around him” significa “un’accogliente morsa attorno a lui”. Siccome in italiano il concetto mi sembrava suggerire qualcosa di ostile, ho pensato fosse meglio rendere il tutto con un verbo un po’ “forte” per addolcire il sostantivo.
5 Nell’edizione italiana (volume 4 nostro, volume 2 originale), Ashura dice, nella solita traduzione romanticona che contraddistingue la nostra traduzione di RG Veda: «Yasha, siamo di nuovo insieme.». La traduzione inglese ufficiale e le scans però riportano questa versione, a cui io sono sinceramente più propensa a credere.





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