«Resteremo
insieme, sempre. Questa è la nostra promessa.».
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Come al
solito, Yasha aveva lasciato che Ashura prendesse l’iniziativa. Dapprima
questo significò semplicemente scendere a fatica lungo i tentacoli serpentini
che ricoprivano le pareti inclinate di ciò che un tempo era stato Zenmi-jou.
Osservò Ashura balzare leggero di ramo in ramo, le sue gambe snelle che
lo trasportavano ad altezze vertiginose con l’inconscia grazia di una
gazzella.
Sì, ecco a cosa somigliava quella leggendaria creatura dagli occhi d’oro
fuso, decise Yasha, nonostante non fosse mai stato portato per i voli pindarici.
«Vieni?»
lo richiamò Ashura, ansimando per l’eccitazione e lo sforzo. Yasha
realizzò di non essersi mosso negli ultimi minuti. Con più attenzione
e meno grazia cominciò ad arrancare verso il basso. Non poteva più
misurare bene la distanza con un solo occhio, e non aveva alcun desiderio di
rompersi l’osso del collo il primo giorno in cui Ashura gli era stato
restituito.
Raggiunse
il fondo ansando, e notò con mesta invidia che Ashura era già
seduto su un pezzo di roccia, le gambe sistemate sotto di sé, senza ansimare
né boccheggiare. Lo stava guardando, la testa inclinata a mo’ di
curiosa creatura della foresta. Era una scena dolorosamente familiare, un’immagine
trapiantata dal passato.
Improvvisamente, con tutto se stesso, Yasha desiderò andare da lui, prendere
quel dolce, giovane corpo fra le braccia e seppellire il volto nei capelli neri,
sentendo le ciocche solleticargli il viso. Poteva quasi sentire quel loro caratteristico
odore, di sole ed erica. Voleva che il mondo retrocedesse, fino a che non fossero
rimasti che loro due.
Ma gli
occhi dorati lo trattennero, limpidi come cristallo e altrettanto indecifrabili,
sul cui fondo si acquattava qualcosa. Ashura si stava già alzando, districandosi
con la grazia che non aveva mai mancato di stupire Yasha, anche quando Ashura
era l’“Ashura Oscuro”, e aveva in mente solamente sangue e
massacri.
«Forza,
andiamo.» disse Ashura, cominciando a muoversi nella sabbia.
Yasha lo seguì senza proferire parola. Non chiese dove Ashura intendesse
andare. Non l’aveva mai fatto. Era sufficiente che Ashura lo volesse.
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Il paesaggio
attorno a lui gli era estraneo. Per prima cosa, c’era la sabbia. Un deserto
in miniatura, nonostante non ne avesse mai visto uno in nessun luogo delle fertili
terre del Tenkai. Poi guardò in alto, in lontananza, aspettandosi di
vedere le graziose spire di Zenmi-jou e trovando, invece, un’accozzaglia
di rovine. Più in là nella sabbia vi era un’altra sagoma
che non riconosceva, che ricordava vagamente una conchiglia. Un gruzzolo di
ricordi frammentati, simili a un sogno, forse risalenti a quando era ancora
intrappolato nella kekkai, gli suggerirono che quello fosse il nuovo Zenmi-jou.
Era strano vederlo ora in rovina, quando non l’aveva mai visto integro.
Il suo
corpo gli sembrava bizzarro. Guardava in basso e si aspettava di vedere le gambe
piccole e robuste, e il torso esile e compatto, ma scopriva invece di essere
a un’eccessiva distanza da terra. Le gambe erano troppo lunghe, troppo
sottili; si sentiva in equilibrio precario su di esse. Poi c’era il peso
sconosciuto dei capelli dietro la schiena, le ciocche che gli facevano prudere
la pelle delicata del collo e che gli finivano sul viso, poco importava quanto
tentasse di trattenerle.
Ma il corpo
sembrava cavarsela abbastanza bene da solo, traendo spunto da qualche ricordo
dimenticato, in modo che i gomiti e le ginocchia non si intralciassero a vicenda,
e si muovessero, anzi, con una qualche parvenza di grazia.
E i capelli ondeggiavano e si increspavano nel vento come quelli di Yasha, così
sopportò il pizzicore e non minacciò più di tagliarli,
dopo la prima orripilata occhiata da parte di lui.
Non faceva caso alla stranezza, non più di tanto. Al momento lo distraeva,
così da evitargli di pensare e ricordare. Poteva solo guardare il suo
corpo muoversi, come se appartenesse a qualcun altro, fingendo, in realtà,
che fosse di qualcun altro. Sembrava che la sua vita precedente fosse nient’altro
che un sogno, filtrato attraverso le lenti scure del suo riposo nella kekkai.
Poi Yasha
chiamava il suo nome con quella voce piena d’urgenza, per metà
un comando, per metà una carezza, e l’incantesimo si spezzava,
così, semplicemente.
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Camminavano
per la maggior parte in silenzio. Prima non aveva mai avuto bisogno di preoccuparsi
di dire alcunché. Ashura soleva scorrazzare avanti e indietro, alimentando
un infinito fiume di chiacchiere, strillando di gioia ogniqualvolta un riccio
spaventato sfrecciava nel sottobosco. Adesso Ashura camminava al suo fianco,
silenzioso e impenetrabile. Era un po’ sorprendente accorgersi che non
aveva più bisogno di affaticarsi per adeguarsi al suo passo. Con una
fitta di dolore, Yasha si rese conto che non l’avrebbe mai più
portato sulle spalle, o sentito una mano piccola e tiepida che sgusciava nella
sua.
Lanciò
un’occhiata furtiva alla figura dietro di sé. Lo sguardo d’oro
era incappucciato e guardava lontano; le ciglia erano incredibilmente lunghe;
il profilo era perfetto. Era difficile immaginare quella creatura elegante che
andava ad acchiappare ricci con tanto entusiasmo. Confuso, Yasha si chiese per
un attimo cosa stesse facendo. Come diamine era finito con quello sconosciuto
al suo fianco, dopo aver giurato che avrebbero trascorso insieme il resto delle
loro vite?
Poi chiamava
il nome di Ashura come se fosse stato un talismano. Ashura si voltava verso
di lui, e gli sorrideva. E Yasha aveva modo di vedere che non era un estraneo,
dopotutto. Lui l’avrebbe riconosciuto, ovunque, in ogni forma. Anche mentre
era l’Ashura Oscuro, Yasha era stato sicuro, con feroce convinzione, che
fosse il suo Ashura.
Presto
la loro destinazione divenne inequivocabile. Le porte della città apparvero
all’orizzonte, la città degli umani vicina a Zenmi-jou.
Più da vicino, Yasha vide che l’ingresso era drappeggiato di nero,
e che una compatta fila di gente entrava nella città sottostante. Ricordò
che Kujaku gli aveva detto che Taishakuten era morto. Si chiese se avesse dovuto
informare Ashura, ma decise che l’avrebbe comunque scoperto abbastanza
presto.
Le guardie
davanti alle porte, scambiandoli per due in lutto a causa dei loro abiti bianchi
e blu, diedero loro molte informazioni.
«Sì,
il funerale di Sua Maestà Taishakuten si terrà domani. Zenmi-jou
sarà aperto a tutti i visitatori, e ci sarà generosità
per chi verrà, per grazia del Tentei.» Sì, per ‘Tentei’
intendeva Ten-ou. Tale risposta fu accompagnata da una strana occhiata in direzione
di Ashura. «È diventato Tentei da poco. Ma avrete difficoltà
a trovare alloggio, stanotte. Tutto il Tenkai deve essere venuto qui per il
funerale. Forse potreste chiedere all’osteria laggiù. È
gente onesta, e forse vi daranno un buon pasto e vi permetteranno di fermarvi
nella stalla per la notte in cambio di una piccola somma.».
Yasha ringraziò
l’uomo. Poi Ashura si tolse il cappuccio, facendo sgranare gli occhi di
quest’ultimo. «Per gli dei… tu sei un Ashura.».
La parola
fu pronunciata in tono di inumano terrore, e frenò bruscamente la folla
attorno a loro. Tutti gli occhi si rivolsero in direzione di Ashura, notando
le orecchie a punta, i grandi occhi dorati, i lineamenti finemente cesellati.
“Clan degli Ashura”, “demoni”, le parole si diffusero
a macchia d’olio fra la folla.
«Non
vogliamo la loro razza qui.» qualcuno finalmente ritrovò la lingua.
Un coro di assensi si innalzò dalla moltitudine.
«È
vero, sono mostri, ecco cosa sono!».
«Cannibale, succhiasangue!».1
«L’ultimo massacro non è bastato? E tu osi venire qui!».
«Sì, dovresti essere bruciato e fatto a pezzi!».
Ashura
impallidì, e i suoi occhi si dilatarono appena, ma non si mosse. Stava
immobile con una rigidezza tale che Yasha poteva avvertire il suo involontario
tremore. Poi, la prima manciata di fango sfrecciò nell’aria e atterrò
sul viso di Ashura, centrandolo in pieno. Ciononostante, lui restò fermo.
Yasha, però, ne percepì l’impatto come se fosse atterrata
su di sé.
Il mondo divenne rosso. La sua mano si strinse attorno alla curva familiare
dell’elsa della sua spada, e lui già pregustò l’appagante
scricchiolio di quando fendeva carne ed ossa umane.
«NO!
Yashaa!» Ashura si mosse, tenendogli a freno il braccio per impedirne
il fatale percorso. «Ti prego, Yasha, non farlo.».
«Ti hanno fatto del male, Ashura. Non gliela farò passare liscia.».
Tentò di respingerlo, ma lui gli si aggrappò con la forza della
disperazione.
«Ti
prego, ti prego, andiamocene e basta. Voglio andarmene. Portami via da qui.».
Il tono supplichevole e gli occhi lucidi di lacrime avevano sempre funzionato,
prima. Yasha vide svanire il velo rosso davanti ai propri occhi.
Rimase a guardare mentre una lacrima cadeva da un occhio dorato, tracciando
una scia attraverso il fango. Inconsciamente, Yasha tese una mano per strofinarlo
via. La pelle sotto di esso era rossa e gonfia, e Ashura fece una piccola smorfia
al suo tocco leggero.
Yasha sentì la propria rabbia divampare ancora.
«Yasha,
voglio che nessuno venga ferito per colpa mia, non lo capisci?». La lieve
incrinatura nella sua voce era da spezzare il cuore, e Yasha non poteva sopportare
di esserne la causa. Ripose Yamatou nel suo fodero e poi, dal momento che non
poteva farne a meno, e non poteva lasciare le cose in quel modo, si chinò
e prese Ashura in braccio. La folla si ritrasse mentre lui la attraversava,
Ashura ancora cullato fra le sue braccia. Sorprendentemente, ci stava ancora
bene, raggomitolato in una pallina compatta, la testa sepolta esattamente nell’incavo
della sua spalla.
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Abbandonarono
la città e si accamparono in una radura nella foresta.
Yasha gli aveva lavato via il fango dal viso con tenerezza, come faceva quando
Ashura era ancora bambino. Stava cominciando a diventare sempre più difficile
fingere che quello fosse un altro mondo, e che lui fosse una persona diversa.
Ashura
tentò di recuperare quel senso di distacco. “Questo non è
il mio mondo” disse fra sé e sé. Quel nuovo mondo lo sentiva
completamente alieno.
Era strano sentir parlare di Taishakuten con tutta quella riverenza, era strano
sentir parlare la gente del Tentei con tale affetto, e ricordare con un sobbalzo
che era Ten-ou, suo fratello, colui del quale parlavano. Poi, Ashura realizzò
cosa questo volesse dire. Non aveva più uno scopo, un nemico. Non aveva
necessità di guardarsi indietro in cerca di inseguitori, né di
guardare avanti, allo scontro contro Taishakuten.
Era finita, insomma.
E la cosa
più strana di tutte era il sentir parlare del clan degli Ashura con tale
disprezzo. In realtà, non era in grado di ricollegare che era il
clan degli Ashura, quello di cui parlavano.
Improvvisamente,
tutto gli piombò addosso con furia: chi era, cosa aveva fatto. Neanche
gli strati di veli del tempo e del suo lungo sonno potevano più oscurare
i ricordi. Gigei, Shara, Ryuu, e chissà quanti altri.
Con impressionante chiarezza, Ashura vide, e capì.
Non aveva
importanza che Yasha gli avesse detto che non era colpa sua, o che non era in
sé, quand’era successo. La verità non cambiava: se Ashura
non fosse mai nato, mai esistito, nessuna di quelle persone sarebbe morta. Tutto
qua. E nessuna dose di parole e abbracci e scuse da parte di Yasha avrebbe mai
potuto cambiare le cose. Yasha l’avrebbe sempre perdonato. Prima, questo
era sempre stato abbastanza. Ma non adesso, non più.
«Ashura,
vieni a mangiare.» chiamò Yasha. Ashura scivolò giù
dal suo ramo sull’albero. Sorrise nel constatare che, come sempre, Yasha
aveva cucinato abbastanza da sfamare un reggimento. Era strano il modo in cui
riusciva ancora camminare e sorridere e scherzare, quando a lui sembrava di
non poter respirare per la sofferenza che gli premeva sul petto. Ma non poteva
dire di non avere fame. Yasha si sarebbe allarmato. Ashura aveva sempre avuto
fame, prima. Così, finse di mangiare, e sorrise all’impacciata
battuta di Yasha in merito alla sua mancanza di appetito, nonostante sentisse
lo stomaco che si serrava e la gola che sembrava chiudersi al mero pensiero
di ingoiare del cibo.
Yasha era
sempre lo stesso. Un costante promemoria a ricordargli che quello era il Tenkai,
il suo mondo, non un’altra dimensione; che quello era il suo corpo, lui
stesso, Ashura, e che nessuna recita2 avrebbe potuto riportare in vita i morti.
Era ironico, quando invece Yasha tentava di difenderlo in ogni modo. Ricordò
quanto si era infuriato affrontando la folla inferocita. Ma quel che dicevano
era vero. In fondo al cuore, Ashura lo sapeva. Con la finzione aveva chiuso
una volta per tutte.
Sapeva
cosa fare. Si era figurato la scena in mente innumerevoli volte. Si era assicurato
che Yamatou fosse lontana dal giaciglio di pellicce3 quando andarono a coricarsi.
In seguito, Ashura prese a distrarre Yasha avviluppandosi contro di lui, che
divenne troppo impegnato a riempirgli il viso di baci per notare qualunque altra
cosa. Pareva che la ridicola lunghezza di quelle gambe si fosse rivelata utile,
dopotutto. Era stato davvero piacevole sentirle intrecciate a quelle ben tornite
di Yasha, e dormire con il suo petto ampio che gli faceva da guanciale sotto
la testa. Ad Ashura dispiacque scivolare lontano dalle braccia che lo circondavano,
e sapere che non le avrebbe più sentite attorno a sé.
Per qualche
attimo, si concesse il lusso di guardare in direzione dell’uomo addormentato.
C’erano delle cose che avrebbe voluto dirgli, ma non poteva rischiare
di svegliarlo, così le ripeté in mente e sperò che Yasha
le sentisse in sogno.
“Mi
dispiace di essere così egoista, Yasha. Ho cercato di fare del mio meglio
per essere coraggioso, ma sono un codardo fino in fondo. Non lo vedi? Se resto
con te morirai, e io non posso sopportarlo. Perciò temo di non poter
mantenere la nostra promessa. Perdonami.”.
Raccolse
la spada con cautela, lieto che la sua altezza impedisse a Yamatou di trascinarsi
a terra. Sapeva come muoversi velocemente nell’oscurità. Era stata
Souma a insegnarglielo, un tempo. Souma… represse il nodo che gli stava
salendo alla gola. L’elsa di Yamatou era di una solidità rassicurante,
nel suo palmo. Ricordava com’era stato quando aveva affondato Shuratou
nel proprio cuore. Non era stato più di un formicolio intorpidito. Naturalmente,
stavolta aveva progettato di usare Yamatou, perciò avrebbe potuto essere
più doloroso. Ma voleva essere sicuro. Magari un Ashura aveva un qualche
tipo di difesa contro le ferite, o magari sarebbe stato di nuovo circondato
da una kekkai. In qualche modo, sapeva che, se l’avesse fatto con Yamatou,
sarebbe stato definitivo.
«Scusami,
Kujaku. Non volevo sprecare il tuo dono. Ma è meglio così.»
sussurrò nel buio, prima di sollevare la lama.
Si accorse
di un’inaspettata resistenza, nel farlo.
Yasha l’aveva scoperto, alla fine, e adesso, anche nell’oscurità,
Ashura poteva percepire quegli occhi che scavavano dentro di lui.
«Yasha,
non lo vedi, sono tutti morti per colpa mia.» e scosse freneticamente
la testa per non permettere a Yasha di parlare. «Lo so quel che mi hai
detto, che non è colpa mia. Ma Yasha, non sono più un bambino.
Lo so che è colpa mia, che è colpa della mia nascita, se Zenmi-jou
è sepolta sotto una montagna di teschi.» fece un singhiozzo poco
dignitoso e proseguì, disperato: «Quindi ti prego, ti prego, fammi
morire adesso e basta. Fammi porre fine a questa sofferenza, ti prego.».
Con sua
sorpresa, Yasha non disse niente, non lo contestò, né lo rassicurò.
Rimase solamente a contemplarlo, finché Ashura non si sentì annegare
in quelle polle scure. Istericamente, pensò che fosse davvero un bel
modo di morire.
«Se
è questo quello che vuoi, ti aiuterò.». Per un attimo, Ashura
credette di aver sentito male. Poi si sorprese così tanto che fu solo
in grado di fissarlo. Yasha sorrise, e sollevò una mano per asciugare
una lacrima.
«Ashura,
sai che non potrei negarti niente. Se è questo che vuoi, allora…»
si protese, e Ashura non poté trovare la volontà di resistere.
Le sue ginocchia si fecero d’acqua mentre il braccio di Yasha lo cingeva,
attirandolo saldamente contro il suo solido torace, serrato in un accogliente
abbraccio4.
Poi vide il brillio metallico nell’altra mano di Yasha.
D’improvviso si rese conto di cosa Yasha avesse intenzione di fare. Che
cieco sciocco era stato, a non accorgersene!
****************
«Yasha,
ti prego, promettimi che…» Ashura lottò fra le sue braccia
senza alcun risultato.
«Prometterti cosa, Ashura?» gli sussurrò all’orecchio
Yasha, «Che non mi ucciderò? Che vivrò per sempre felice
e contento?».
«Ashura, vorresti fare di me un bugiardo?» gli chiese con enfasi.
Ad un tratto, il corpo di lui fra le sue braccia rimase completamente immobile.
Yasha colse l’opportunità per chinarsi a strofinargli i capelli.
L’odore era proprio quello che ricordava, un misto di sole ed erica. Sentì
la testa scura che si muoveva leggermente sotto le sue labbra, un movimento
minuscolo, con cui Ashura diede segno di averlo sentito.
«No,
Yasha… ma…» poteva a stento sentire le sue parole soffocate,
mentre Ashura si voltava e affondava il viso nel suo petto. Il suo corpo, svuotato
di ogni resistenza, sembrava una floscia bambola nella sua stretta.
Poi Ashura emise un piccolo sospiro.
«No,
Yasha, non morirò.» ripeté, come per rassicurarlo. Ma la
stanchezza nella sua voce e il piccolo, involontario singhiozzo alla fine dissero
a Yasha più di quanto avrebbe voluto sapere. Di punto in bianco, vide
con perfetta chiarezza quale fosse stato il panorama della vita di Ashura, il
senso di colpa che si portava dietro e i suoi ricordi corrotti.
Era sempre
stato facile ingannare Ashura, imbrigliarlo in un’intricata ragnatela
di parole e promesse. Ashura avrebbe continuato a vivere, solo perché
Yasha potesse rimanere un uomo di parola. Solo perché Yasha potesse essere
felice. Quanto sembrava volgare ed egoista, questo. Non era quel che Ashura
desiderava. Ma il suo infido cuore sussurrava segretamente alla mente che Ashura
sarebbe stato vivo, e al suo fianco. Improvvisamente, Yasha si disgustò
di se stesso. Per Ashura avrebbe imbrogliato, mentito, infranto promesse.
Non sarebbe
stato granché difficile promettere che non si sarebbe ucciso, per poi
farlo appena Ashura fosse morto. Ma le labbra non riuscivano ad articolare le
parole, né lui riusciva a legare Ashura alla vita con la minaccia della
sua morte.
Il tempo per quel tipo di giochetti era finito.
«Guardami, amore.». Quando Ashura non sollevò la testa, Yasha
prese il mento delicato fra le mani, e, con dolcezza, costrinse gli occhi d’oro
a incontrare i suoi. Lo fecero, dopo un po’. Yasha seppe cosa fosse suo
dovere dire.
«No,
Ashura. Non potrei mai chiederti una cosa del genere. La tua vita non mi appartiene.
È tua. Vivila, se lo desideri, o abbandonala, se è questo che
vuoi.». Ecco, l’aveva detto, e si era sforzato di non farlo con
aria supplice. Silenziosamente, aggiunse: “Ashura, non è la tua
vita ad appartenermi. È la mia, che appartiene a te. Sono tue entrambe,
e sono a tua disposizione.”. Non poteva arrischiarsi a dirlo ad alta voce,
non avrebbe ripetuto i suoi vecchi errori. Poteva solo guardare Ashura, stupidamente,
e sperare che bastasse.
****************
Gli era
sembrato così semplice togliersi la vita, porre fine a tutta quella sofferenza.
Adesso aveva anche il permesso di Yasha. Ma non riusciva a muoversi, non al
cospetto della fissità nei suoi occhi scuri. Li ricordava intenti a guardarlo
con la stessa espressione mentre lui era ancora imprigionato nella kekkai. Voleva
distogliere lo sguardo, impedirsi di comprendere il silenzioso messaggio che
gli comunicavano.
«Amore.»
l’aveva chiamato Yasha.
Era così
semplice, vero? Perché, nonostante il dolore e la colpevolezza che si
avvolgevano attorno al suo cuore come bande d’acciaio, e la consapevolezza
del proprio crimine, non poteva lasciare Yasha. Non riusciva a sopportare il
pensiero di non potersi svegliare al suo fianco, di non poterlo toccare. Anche
la più semplice delle occhiate e il più lieve dei baci bastavano
a restituirgli la voglia di vivere, a tenere a bada il tormento.
“Sono
un codardo” pensò disperatamente, e tuttavia si stava già
muovendo, spostandosi contro Yasha in modo da poter tendere la mano e chiuderla
sulla mascella solida, e sentire la ruvidezza della barba pungergli il palmo.
E poi più in alto, oltre la superficie leggermente incavata sotto lo
zigomo, per tracciare la linea del sopracciglio all’insù, e della
cicatrice sotto di esso. Fece scorrere un dito lungo la sporgenza del naso,
prendendo nuovamente confidenza con quei lineamenti tanto amati.
Poi, come
aveva fatto un tempo, in una vita precedente, gli disse «Yasha, sono tornato.»
.5
Note
della traduttrice:
1 In originale:
“Flesh eater, blood drinker!”, che, se tradotto pedissequamente,
significa “Mangiatore di carne umana, bevitore di sangue!”, ma la
lunghezza, come noterete, è un po’ eccessiva... Coniare dei termini
appropriati non avrebbe dato esito granché buono, così ho dovuto
regolarmi di conseguenza.
2 In originale “no amount of pretending”,
“nessuna quantità di finzioni”, che ho deciso di cambiare
per evitare una ripetizione con il paragrafo superiore.
3 In originale indica solo “pelt”, “pelliccia”,
ma ho temuto che non sarebbe stato granché chiaro…
4 In originale “His knees turned to water as
Yasha's arm encircled him, pulling him back firmly against the hard chest, a
welcoming vise around him.”, laddove “a welcoming vise around him”
significa “un’accogliente morsa attorno a lui”. Siccome in
italiano il concetto mi sembrava suggerire qualcosa di ostile, ho pensato fosse
meglio rendere il tutto con un verbo un po’ “forte” per addolcire
il sostantivo.
5 Nell’edizione italiana (volume 4 nostro,
volume 2 originale), Ashura dice, nella solita traduzione romanticona che contraddistingue
la nostra traduzione di RG Veda: «Yasha, siamo di nuovo insieme.».
La traduzione inglese ufficiale e le scans però riportano questa versione,
a cui io sono sinceramente più propensa a credere.
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