Tolerantia
Roma, gennaio 1782
Il cardinale von Herzan, ambasciatore del Sacro Romano Impero, entra nella
sala delle udienze del Papa, pronto a ricevere i rimproveri di Pio VI con
freddezza e rispetto, come di consueto.
" E così l’Imperatore ha concesso
libertà di culto a tutte le fedi, inclusa quella israelitica?" chiede il Papa,
in realtà già sicuro che la risposta sarà affermativa, ma desideroso di
ascoltarla dalla bocca del Cardinale per rendersi pienamente conto di
quell’enormità.
" Sì, Sua Santità." Risponde
laconico von Herzan.
Ecco, questo è il momento delle lamentele, delle minacce, delle sfuriate,
pensa il Cardinale. E invece si sbaglia.
" Bene," risponde Pio VI,
sfoderando una delle sue espressioni più suadenti. "Ed io andrò a rendergli
visita a Vienna per farlo ritornare sulla retta via."
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Vienna, marzo 1782
L’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena e il Papa Pio VI Braschi
s’incontrano a Neustadt, alle porte di Vienna. L’etichetta impone che si
abbraccino, benché nessuno dei due sopporti l’altro.
Un tempo si baciava la mano del Papa... pensa Pio VI. Ma in Austria il
baciamano è stato recentemente vietato, in quanto lesivo della dignità
dell’uomo. E così ,sorridendo seraficamente, l’Imperatore gli comunica che non
potrà baciargli la mano, perché sarebbe di cattivo esempio per il popolo un
imperatore che disobbedisce alle leggi che egli stesso ha promulgato.
Che umiliazione per il Papa subire un trattamento simile in un paese
cattolico come l’Austria!
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L’Imperatore ed il Papa siedono nella stessa carrozza che li porta al Palazzo
imperiale, l’uno davanti all’altro, e si scrutano cercando di ottenere l’uno in
un minimo movimento dell’altro la conferma delle dicerie che ha sentito su di
lui.
Papa Braschi ha già visto Giuseppe II tredici anni prima, quando il
ventottenne Imperatore si era recato a Roma per il Conclave. In quei tredici
anni l’Asburgo è invecchiato, ma non è cambiato molto. È considerato uno degli
uomini più belli d’Europa: alto, snello, con degli occhi di un celeste così
particolare da essere stato definito in suo onore "Blu imperiale". I suoi
capelli sono di un biondo molto chiaro e lunghi, tanto che Giuseppe II non porta
la parrucca, ma tiene i capelli legati con un nastro nero. La sua espressione
scostante ed altezzosa tiene lontane le persone, ma quando l’Imperatore sorride
non c’è diplomatico che sappia resistergli: il suo volto diventa dolce e pieno
di carità come quello di un cherubino.
Hanno però detto a Papa Braschi che dietro quel sorriso angelico si cela un
uomo terribile. Gli hanno detto che l’Imperatore è un miscredente, che venera lo
Stato al posto di Dio, che finge di pregare quando è costretto ad assistere ad
una messa, che fa riforme per il popolo senza amarlo ma solo per rendere
l’Austria moderna e potente, che commissiona ai suoi musicisti opere che
offendono la popolazione per divertirsi alle sue spalle.
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Il Papa viene fatto sistemare all’arrivo negli appartamenti che l’Imperatore
ha scelto appositamente per lui, accanto ai propri. Sono appartamenti arieggiati
e confortevoli. Giuseppe d’Asburgo sa essere un padrone di casa eccellente. Ma
quella sistemazione ha uno scopo molto meno nobile: l’Imperatore vuole
approfittare di quella vicinanza per spiare e controllare il Papa. Pio Braschi
ha sessantacinque anni ma è ancora un uomo pieno di carisma e di fascino. Sembra
un Papa rinascimentale, è amante delle opere d’arte, è nepotista e si preoccupa
più del prestigio del suo casato che della salvezza dei Cattolici. Ma è
affabile, sorride sempre, ha un incedere solenne e maestoso. Piacerà al
superstizioso popolo austriaco più di quanto non sia mai piaciuto lui,
l’Imperatore amico del popolo con il suo rigore morale e la sua intransigenza. E
questo Giuseppe II lo sa bene.
Durante la cena di benvenuto lo squadra attentamente mentre mangia, conversa
con la nobiltà, beve il buon vino ungherese ed italiano che per l’occasione
accompagna le pietanze. Di solito alla mensa imperiale non c’è alcun vino,
perché Giuseppe II è astemio.
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" Come ha preso la popolazione la
notizia del vostro Editto di Tolleranza e dei vostri decreti sulla nomina
imperiale dei vescovi?" chiede il Papa l’indomani, nello studio privato
dell’Imperatore.
Touché, pensa quest’ultimo.
"Non bene, lo ammetto." Risponde Giuseppe II. "Non credo che i miei sudditi
capiscano che questi decreti faranno dell’Impero un paese moderno. Ma del resto
non sono pronti a decidere per loro stessi, benché ogni mio sforzo sia orientato
in questa direzione."
"Ma non pensate di offendere il loro sentimento religioso e di inimicarveli?"
incalza Pio VI.
"Sì, è vero..." è costretto di nuovo ad ammettere, a denti stretti e con le
guance rosse, il Sacro Romano Imperatore. "Del resto, anche quando ho abolito la
tortura nessuno mi ha sostenuto, eccetto gli intellettuali. Ma non tornerei mai
sui miei passi. Chissà quanto dolore ho risparmiato con quel decreto..."
Un sorriso di soddisfazione appena accennato si accende sulle labbra del
sovrano.
Irremovibile, lo bolla Papa Braschi. Irremovibile perché è un illuso, perché
è convinto di poter costruire da solo contro tutti la sua "Città del Sole" su
questa terra, perché pensa che la perfezione non appartenga solo al Paradiso.
Non lo leggono più Machiavelli, in Austria?
Ma c’è ancora speranza che si ravveda, pensa il Pontefice, quando si renderà
conto delle conseguenze dei suoi atti sconsiderati sui sudditi.
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Qualche giorno più tardi una folla osannante di più di centomila persone si
accalca davanti alla chiesa di Santa Maria Am Hof per ricevere la
benedizione del Papa.
"Sua Santità, proteggeteci dagli eretici!" urla in preda al delirio mistico,
grondante di santini e di erbe per proteggersi dal malocchio. Il Papa si fa
attendere a lungo, mentre l’Imperatore assiste a quegli eventi guardando da una
finestra secondaria della chiesa. Infine Pio VI si concede alla folla,
affacciandosi da una sorta di balcone rivestito da ricchi paramenti liturgici
d’oro e di seta e concedendo l’assoluzione ai fedeli. A quel punto scoppia il
putiferio: tutti cercano di avvicinarsi quanto più possibile al Pontefice per
ricevere l’indulgenza, travolgendo nella loro foga chi sta davanti a loro.
Davanti alla finestra dell’Imperatore una donna si trova schiacciata
dall’opposto impeto delle file posteriori che cercano di avanzare e quello delle
prime file che cercano di resistere.
C’è così tanto rumore che le sue grida strazianti non si sentono, ma Giuseppe
II le percepisce, vede la bocca della donna contorcersi per implorare aiuto ed
urla dalla sua finestra: "Indietro! Indietro, per l’amor di Dio! Indietro, vi
imploro!" L’Imperatore implora il suo popolo, ma nessuno lo ascolta e la donna è
sempre più debole, la sua bocca si muove sempre di meno.
Giuseppe II non ce la fa ad assistere a quella sorta di martirio e rientra
nella chiesa, mentre delle lacrime scorrono sulle sue guance
pallide.
" È colpa tua!" lo accusa una voce
di donna alle sue spalle. Egli si volta e vede sua sorella, l’Arciduchessa Maria
Cristina, che lo guarda con disprezzo. L’Imperatore è così sconvolto che non ha
la forza di ribattere, di domandare perché sarebbe colpa sua.
" Tu hai costretto il Papa a venire
fino a qui, tu hai offeso la religiosità della popolazione con le tue stupide
riforme, che non giovano a nessuno. Se tu non avessi calpestato la fedeltà degli
Austriaci alla Chiesa Cattolica, oggi non ci sarebbe stata così tanta gente qui.
Questo è un segno di protesta nei tuoi confronti, non lo capisci? E forse quella
donna non sarebbe morta."
L’Imperatore guarda la sorella, la pia, la moderata Maria Cristina che non ha
mai condiviso il suo zelo riformista, e poi guarda la piazza di Am Hof,
ormai svuotatasi, sul cui suolo giace come addormentato il corpo di una donna
dai vestiti popolani. L’Imperatore guarda tutto ciò e pensa che forse sua
sorella ha ragione.
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L’Imperatore è nella sua stanza e si pettina i capelli, con la mente ancora
rivolta alla Morte, che poche ore prima ha dato davanti a lui la sua ennesima
manifestazione di forza. Non è normale che un sovrano si pettini da solo, ma
Giuseppe II non sopporta che altre mani lo tocchino, e non sopporta di toccare
altre cose o persone senza i guanti. La solitudine, dice la corte, gli ha
provocato tutte queste ossessioni, ed in effetti l’Imperatore è molto solo. I
fratelli e le sorelle che lo comprendono sono lontani, quelli che vivono con lui
non lo capiscono. Il popolo non gli è grato per le riforme con cui lui ne ha
migliorato le condizioni. Le riforme, la sua ragione di vita, si stanno
rivelando motivi di sconforto.
L’Imperatore passa la spazzola tra i folti capelli d’un biondo chiarissimo e
si accorge che qualcosa non va. Guarda la spazzola: attaccata ad essa sta una
ciocca dei suoi capelli, pressoché intatta. Sulle spalle di Giuseppe II si trova
un mare di sottili fili dorati. Giuseppe si volta: alle sue spalle si trovano
una pendola su cui campeggia il motto "MEMENTO MORI" ed un crocifisso su cui è
appeso un Gesù sanguinante e straziato.
L’Imperatore fissa quest’ultimo.
" Perché?" si rivolge a Gesù,
l’unico superiore a cui lui ha mai pensato di dover rendere conto. "Perché mi
stai ammonendo sulla brevità della vita? Io so fin da piccolo che dovrò morire
presto per la mia tisi congenita! Perché vuoi che ora rifletta sul fatto che la
Morte è vicina?"
L’Imperatore guarda Cristo in attesa di una risposta. Contempla le piaghe e
le ferite di quell’uomo umiliato e perseguitato per aver portato la nuova, la
vera Fede nel mondo.
Un raggio di sole d’un tratto gli illumina il viso e la mente dell’Imperatore
si rischiara.
" Grazie..." dice a Gesù. "Ora ho
capito cosa devo fare."
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La festa per la partenza del Papa è stata preparata in grande stile. Al
Prater, il grande parco che l’Imperatore ha donato ai viennesi, vengono fatti
scoppiare fuochi d’artificio bellissimi e ricchi di colori magnifici, tra cui
spiccano il giallo ed il bianco dello stemma papale. Gli spettatori assistono
allo spettacolo su delle poltroncine poste tra gli alberi e conversano
amabilmente. Giuseppe II e Pio VI siedono l’uno accanto all’altro e non si
guardano più con sospetto o astio, ma sembrano finalmente rappacificati.
L’Imperatore ha lo sguardo grato ma ancora timoroso del figliol prodigo
perdonato dal padre.
"E allora il vostro Editto di Tolleranza?" chiede il Papa, con tono un po’
canzonatorio.
"Ci devo pensare meglio, Vostra Santità. La Vostra visita mi ha fatto
riflettere su molte cose. Forse il bene che pensavo di fare con esso al mio
popolo non era poi tale." Risponde l’Imperatore, con lo sguardo basso e
contrito, a cui segue uno dei suoi rari, bellissimi sorrisi.
Pio Braschi gli mette una mano sulla spalla, disposto a perdonare tutto
all’uomo che è riuscito a domare, secondo l’insegnamento della Chiesa. Ha
imparato ad apprezzare quell’uomo così idealista da non sembrare di essere fatto
per questo mondo crudele. Apprezza la forza con cui sostiene le sue idee, il suo
senso distorto ma in qualche modo nobile dell’uguaglianza, il suo tentativo di
essere un esempio per il popolo.
Gli dispiace di aver dovuto affossare le convinzioni di Giuseppe d’Asburgo,
ma si consola pensando che l’ha fatto unicamente per la Santa Romana Chiesa, per
qualcosa di eterno e non di effimero come gli ideali illuministi di un
imperatore. Pio VI si rilassa, guardando Giuseppe II sussurrare qualche parola
all’orecchio del suo ministro plenipotenziario von Kaunitz, e poi si mette
comodo ad ammirare i fuochi d’artificio.
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Roma, aprile 1782
La carrozza del Papa sta per entrare a Roma, ma quando la notizia del suo
ritorno giunge nella Città Eterna viene fatto partire un messo che gli vada
incontro. Rapido il messo giunge dal Papa, e trafelato gli consegna una lettera
che proviene dall’Arcivescovo di Vienna.
Pio VI Braschi l’apre e sbianca. La lettera lo avvisa che l’Editto di
Tolleranza e tutti gli altri decreti in materia religiosa sono entrati in vigore
esattamente due giorni dopo la sua partenza da Vienna. Il pianto durante la
benedizione ad Am Hof, l’aria ravveduta dell’Imperatore durante l’ultima
sera della permanenza del Papa erano stati sporchi inganni di quell’essere
demoniaco, di quell’uomo che con i suoi sorrisi e la sua esibita onestà aveva
raggirato addirittura il Papa. E solo ora si rende conto di cos’era stata quella
conversazione, durante lo spettacolo pirotecnico, tra l’Imperatore ed il suo
ministro. Era un ordine, l’ordine di far partire quella lettera, che
probabilmente era stata scritta con largo anticipo, giusto in tempo perché Pio
VI si rendesse conto dell’inutilità di quel viaggio ancora prima di essere
ritornato.
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Praga, aprile 1782
Le mura del ghetto di Praga vengono abbattute al suono delle orchestrine di
musica ebraica che dal loro interno concedono agli abitanti di festeggiare con
canti e danze gioiose. L’Imperatore guarda le rovine di quelle mura che sono
state per secoli luoghi di terrore e di disperazione, sopra le quali sta il
cielo che quel giorno è dello stesso colore dei suoi occhi, come se da lassù
qualcuno volesse dare un segno d’approvazione.
Gli Ebrei del ghetto di Praga, come quelli di tutti i ghetti dell’Impero,
innalzano lodi ed inni all’Imperatore che ha decretato che discriminarli è un
crimine. Non dovranno più vivere in ghetti. Potranno esercitare qualunque
mestiere, addirittura le cariche statali. I loro templi potranno essere
costruiti, se lo vorranno, dai migliori architetti d’Europa. Le loro voci
gioiose non si stancano di ripetere le parole con cui Giuseppe II d’Asburgo ha
donato loro l’uguaglianza, la ricchezza più importante di tutte: "considerando i
grandi vantaggi che derivano da una vera tolleranza cristiana..." Il rabbino si
avvicina all’Imperatore, timoroso e in soggezione, ma sicuro di essere
ascoltato: "Maestà, questo nuovo quartiere che sorge sulle rovine del ghetto lo
vorremmo chiamare Josefod, la città di Giuseppe..."
L’Imperatore si ricorda delle fatiche sopportate per arrivare a questo, la
visita del Papa, la donna morta sotto il suo balcone e quella frase di sua
sorella, la moderata, la pia Arciduchessa Maria Cristina: "A chi giovano le tue
riforme?"
"A loro." Si risponde da solo Giuseppe II, che nell’ammonizione all’imminenza
della sua morte che gli sembra di aver ricevuto quel pomeriggio dopo la visita
ad Am Hof non ha visto un
invito a pentirsi della sua ribellione al Papato, o il presagio di un castigo
ultraterreno. Egli ha visto un’esortazione: "Fai in fretta, Giuseppe, fai le tue
riforme prima di andartene da questo mondo!" E quel crocefisso gli aveva
parlato, certo, ma non tramite una visione mistica o un’allucinazione. Esso gli
aveva detto solo la cosa più semplice che un crocefisso può dire: ecco cosa
succede a perseguitare chi professa una religione diversa.
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