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Dieci Gennaio del nuovo anno.
I buoni propositi erano già in parte sfumati.
Il mondo non era cambiato.
Milioni di persone continuavano a fare la solita vita, la solita
routine, i soliti errori.
Le guerre continuavano, la fame nel mondo non finiva, le parolacce non
erano diminuite e il cane al mattino continuava ad essere portato fuori
da genitori svogliati.
Fioretti, promesse ed impegni per il nuovo anno: ipocrisiaci e diffusi
attimi di lucidità mentale, nei quali la gente si rendeva
conto di quanto stesse sbagliando, si impegnava a non perseverare
nell’errore e consapevolmente faceva un voto destinato ad
essere infranto.
Il cielo era bellissimo, con quell’azzurro pallido ma
perfetto ed il Sole piccolo, freddo, quasi bianco.
Chissà cosa pensa il Sole di noi terrestri e delle nostre
vite; probabilmente si annoia a morte nel constatare quanto siano
monotone e ripetitive, oppure ride delle nostre disgrazie e della
nostra totale incapacità di vivere senza farci del male.
L’essere umano di base potrebbe essere definito come la
personificazione dell’autolesionismo. Conoscete animali che
si auto infliggono dolori e pene come gli uomini? Personalmente no.
Sbuffando, appoggiai la fronte al freddo vetro della finestra della
camera, appannandomi la vista con la condensa del mio stesso fiato.
D’inverno avere gli occhiali era un inferno, più
di quanto già non lo fosse durante l’estate, ma
era un fastidio sopportabile, confrontato con la sfocata
opacità che mi avrebbe circondata senza quelle lenti di
vetro.
Mi allontanai dalla vetrata ed avanzai nella stanza, soffermandomi
davanti al grande specchio appeso al muro ed iniziando a guardarmi, di
profilo, toccandomi leggermente la pancia gonfia.
Il periodo che segue le feste di natale è un tragico destino
che accomuna tutti: la dieta.
Più che ciccia era gonfiore, causato dalle bevande alcoliche
e gassate, dalla qualità poco raccomandabile del cibo
ingurgitato e dalla totale mancanza di frutta e verdura
nell’alimentazione, ma era comunque sgradevole da vedere.
Iniziai a tirare e rilasciare i muscoli addominali, creando un bizzarro
alternarsi tra malata magrezza e buffa rotondità.
Ah, dimenticavo, il ciclo ovviamente non migliorava la situazione di
gonfiore: una taglia in più di reggiseno ne era la prova
tangibile.
Ace entrò in camera con un pacchetto di patatine, tanto per
restare in tema alimentare, e rimase inchiodato sulla porta,
guardandomi con occhi sbarrati.
«Oh… Oddio!» Esclamò,
lasciando cadere a terra il sacchetto, che sparse il suo unto contenuto
sul pavimento, facendomi gonfiare istantaneamente la vena occipitale.
«Ma sei deficiente o cosa?» Ringhiai, alternando lo
sguardo tra la sua faccia ed il pavimento rivestito di croccanti grassi
idrogenati.
«Selene mi dispiace! Oddio ti prego scusami! Ti ho rovinato
la vita, perdonami! Cosa possiamo fare?» Continuò
trafelato il moro, passando sopra al porcaio che aveva prodotto,
ampliando il raggio del disastro, e prendendomi delicatamente e con
premura le spalle.
Magari le patatine erano scadute, oppure lo era tutto quello che aveva
ingurgitato prima di arrivare a quel pacchetto.
Magari durante il parto era restato troppo senza ossigeno, oppure
quella santa donna di Rouge l’aveva partorito in piedi,
facendolo cadere di testa. Cristo, qualcosa per giustificare tanta
demenza doveva essere successo!
«Ace, ti droghi o mi prendi semplicemente per il culo? Ma ti
sei reso conto di quello che hai sparso sul pavimento, razza di
troglodita antropomorfo?» Articolai, guardandolo con occhi
che somigliavano sempre di più ad uno sharingan.
Il pirata mi guardò, con occhi persi e confusi, con il viso
perplesso ed un’espressione dolcemente preoccupata. Odiavo
essere guardata così, sembrava che fossi io la demente di
turno, e non lo ero.
Feci un cenno col mento, un muto “Allora?”, che non
ottenne risposta se non un abbraccio.
Ok, basta, il mio ragazzo si drogava; e glie la tagliavano anche male a
giudicare dai comportamenti.
«Mi dispiace, non volevo che succedesse, soprattutto sapendo
che prima o poi dovrò andarmene… Ma non
preoccuparti, tenterò di fare il possibile perché
riusciate a stare bene anche senza di me, almeno sul piano
economico… Tsk, io che pensavo di essere diverso da lui, mi
trovo a fare la stessa cosa, abbandonare la mia donna nel momento del
bisogno con -»
«MA TI SEI TOTALMENTE RINCOGLIONITO?!?! CAZZO, NON SONO
INCINTA!!!! IDIOTA!» Urlai, staccandomi di dosso il moro e
scuotendolo per le spalle.
«Sei un cretino! Saltare alle conclusioni senza pensare! Ho
il ciclo da due giorni come cazzo pensi sia possibile che io sia
incinta, eh? Ma ragioni prima di parlare, sottospecie di caprone che
non sei altro???» abbaiai, scuotendolo per il colletto della
maglietta, stile Homer Simpson con Bart: mancava solo che lo chiamassi
“brutto bacarospo” e le avrei fatte tutte.
Quando fermai la mia attività di shakeramento i miei occhi
erano decisamente furenti.
Il tuo ragazzo che ti crede incinta e te lo dice, in periodo mestruale
e con i chiletti postnatalizi sui fianchi, era qualcosa che la psiche
umana non poteva comprendere ne tantomeno sopportare.
Ace era in pericolo di vita in quell’istante, lo sapeva, e
stava indietreggiando, facendo scricchiolare le merdose patatine al
formaggio che giacevano sul pavimento.
«Ah… Hem… Ho frainteso evidentemente..
V-vado a prendere una scopa… E-e qualcosa per
pulire… V-vuoi una fetta di torta?»
La torta? La grassa, unta, cioccolatosa e ipercalorica fottuta torta
che c’era in sala? Questo era troppo.
«ESCI DI QUI!»
Schiena dritta e dietrofront istantaneo. In meno di cinque minuti il
pavimento era di nuovo pulito e la porta della camera da letto chiusa.
Mi accasciai sul letto, con i testicoli appena spuntatemi in fase di
rotazione e l’isteria a livelli incalcolabili.
Maledetto Natale. Maledetti ormoni. Puttana quella Eva, quel demente di
Adamo e quella merda di serpente tentatore! Anzi, fanculo decisamente
ad Adamo, se si fosse deciso a dare sta benedetta banana a quella
ninfomane mancata di Eva non si sarebbe mai arrivati
all’estremo di chiedere la mela al serpente parlante.
Mi lanciai con la schiena sul piumino, dandomi dell’idiota
per i pensieri appena fatti riguardo al “peccato
originale”: gli sbalzi ormonali erano fastidiosamente dannosi
per l’attività cerebro-organizzativa del cervello,
senza parlare dell’effetto sgradevole che avevano sulla
volgarità latente che tampinava il mio linguaggio.
Forse, invece, tutti i grassi che avevo ingurgitato nelle
festività avevano danneggiato l’afflusso di sangue
al mio encefalo e stavo diventando semplicemente rincoglionita.
Era stato un periodo impegnativo sul piano sociale: tra cenoni, pranzi
e varie feste le nostre famiglie avevano dovuto conoscersi, con
figuracce e attimi di imbarazzo degni dei peggiori film cinepanettone.
Ricordavo chiaramente il pranzo di Natale, tenutosi nella casa della
mia nonna paterna, durante il quale avevamo rischiato il soffocamento
all’arrivo in tavola di un grasso fagiano ripieno:
l’associazione con Marco era stata istantanea perfino per
Barbabianca.
Il povero imperatore ormai aveva rinunciato a frenare gli attacchi di
innato sarcasmo ai danni della Fenice e, se è noto che
andando con lo zoppo si impara a zoppicare, essendo circondato da
machiavelliche carogne che coglievano riferimenti ovunque, aveva
iniziato ad avere occhio per tutto ciò che poteva scatenare
battutacce.
Non aveva per niente aiutato la seconda portata: “polenta e
osei”.
Io non riuscivo a mangiare quella pietanza, come non mangiavo il
coniglio, la gallina, l’agnello e il capretto. I motivi?
Avevo avuto un coniglietto nano, mia nonna mi strozzò una
gallina davanti agli occhi quando avevo sei anni ed Heidi aveva segnato
profondamente la mia infanzia. Per gli uccellini il processo mentale
era semplice: mi piaceva vederli volare, non in padella.
La nonna materna aveva dato dieci euro di mancia ad Ace
perché andasse da un parrucchiere a farsi tagliare i capelli
ed aveva lodato i baffi dell’imperatore bianco, che le
ricordavano tanto il nonno. Quando una vecchietta di oltre
ottant’anni inizia a rispolverare i ricordi di
gioventù è la fine per tutti quelli nati dopo la
seconda guerra mondiale (o forse era la prima?).
Le risate erano andate crescendo di pari passo alle bottiglie di vino
vuote, facendo in modo che quando giunse il momento del pandoro con la
crema, l’unico ancora convinto di essere sobrio era il buon
vecchio zio Piero, il quale tentò di affettare il dolce con
un mestolo di legno.
Gli stomaci gonfi, le guance rosee, i muscoli del viso dolenti per le
troppe risa ed una imminente ribellione del fegato erano stati i
risultati di quel pranzo.
Per capodanno volevo fare qualcosa con i miei vecchi amici, ma poi
avevo annullato tutto.
Avevo mandato un invito anche ad Elena. Non aveva risposto.
Non l’avevo più sentita. Non l’avevo
più vista.
Una vicina pettegola mi aveva bisbigliato dell’imminente
divorzio dei suoi genitori, erano sull’orlo della separazione
ormai da anni, e di un suo abbandono scolastico.
Si diceva avesse mollato l’università, stesse
spesso fuori di casa e tornasse e partisse ad orari improponibili della
notte.
Si vociferava di cattive compagnie, di droghe, di satanismo perfino.
Non avevo prove di ciò che mi dicevano e nemmeno chi
raccontava queste storie ne aveva ma, in un piccolo paese, quando una
persona si rifiuta di condividere la sua vita privata con la
collettività, era quest’ultima a creargliene una,
ricca delle più riprovevoli azioni e dei vizi meno nobili.
Le chiacchiere, però, vere o false, possono essere
rivelatrici. Sapevo per certo che Elena non si sarebbe mai fatta
trascinare in stronzate come sette o bande di drogati, era troppo
intelligente, eppure non potevo far altro che preoccuparmi
terribilmente per ciò che non sapevo.
Ciò che è noto ci ripugna, ciò che
è ignoto terrorizza.
Il pensiero di cosa fosse capitato alla mia migliore amica era simile
alla consapevolezza che Ace sarebbe ripartito: perennemente presente,
cronicamente angosciante ed indimenticabile.
Mi chiedevo spesso se sarebbe mai tornata da me.
Se mi avrebbe mai spiegato cosa le era preso.
Se l’avrei rivista.
Se saremmo tornate a parlare per ore ed ore sotto al piumone.
Se avremmo avuto l’occasione di ridere ancora, assieme,
davanti ai cartoni animati di Boing, trovando similitudini con i
personaggi delle serie più demenziali.
Se sarei riuscita, un giorno, a guardare ancora Zig and Sharko senza
vedere me e lei nei nostri attimi di demenza acuta.
C’erano, come sempre, troppi “se” nei
miei pensieri, nella mia vita, in tutto.
Gli attimi in cui restavo da sola, incapace di sfuggire al mio
cervello, erano i più difficili da affrontare. Quando stavo
con Ace, mia madre o comunque altre persone riuscivo facilmente a
distrarmi, ad intavolare una discussione con qualcuno, a comporre
monologhi strazianti per le orecchie altrui, a coprire la voce del
cervello con la mia.
La parola, la lingua, era sempre stata la mia arma migliore: ottima
spada, perfetto scudo.
Quando parlo mi concentro, compongo frasi articolate, ragiono sul
periodo che sto gestendo, sui verbi da coniugare, sugli aggettivi da
usare, sull’enfasi da dare e sono libera da qualsiasi altra
cosa.
Il silenzio invece è pieno di voci, di ricordi, di immagini,
di frasi spezzate, di lacrime nascoste in un cuscino, di previsioni che
molti definiscono pessimistiche ma in verità sono solo puro
realismo.
Chissà perché con i problemi degli altri siamo
perennemente in uno stato di positività snervante, mentre
quando si tratta di noi stessi l’umore va a far compagnia ai
vermi.
Forse fingiamo di essere positivi?
Forse tentiamo di trovare il lato migliore delle cose perché
non ci toccano?
Oppure lo facciamo per rassicurare il prossimo? Per lasciargli
l’illusione dell’inconsapevolezza?
Non lo so sinceramente. Credo che non lo saprò mai. Fatto
sta che ora sono sola. Ora c’è silenzio. Ora
arrivano i ricordi.
Natali, cenoni, risate, bottiglie di vino e banchetti memorabili. La
mia famiglia.
Capodanni, alcool, neve, liquori rubati dalle vetrinette dei parenti,
amici da sostenere, botti e fuochi che sembrano farti vibrare il petto
al ritmo del cuore.
Ace, che quel capodanno l’aveva passato con me.
Non avevamo fatto nulla. Non avevamo accettato inviti, non avevamo
comprato alcolici, non avevamo programmato abbuffate: solo una cena al
sacco, noi due e la moto.
Eravamo andati in quel prato deserto, meta della nostra prima uscita,
muniti di coperte e di una tenda da campeggio per poter stare in pace e
goderci lo spettacolo dei fuochi d’artificio. Da
quell’altura avremmo avuto una vista meravigliosa sia delle
gare pirotecniche tra i paeselli, che dello spettacolo offerto dalla
sottile striscia di lago, appena visibile lungo la linea
dell’orizzonte, ma che sarebbe diventata un nastro di raso
dorato allo scoccare della mezzanotte.
Mangiammo, facendo finta che non fosse nessun giorno speciale, ed allo
stesso modo ridemmo e scherzammo fino al momento in cui il mio
cellulare non iniziò a suonare, a pochi minuti dalla
mezzanotte, per la telefonata di auguri di mia madre.
Sugli occhi di Ace calò un leggero velo di tristezza
all’avvicinarsi del primo giorno del nuovo anno, che non
rappresentava solo la sua nascita ma gli ricordava costantemente la
morte di Rouge.
Tirai fuori dallo zaino un cupcake al cioccolato, ci infilai
brutalmente una candelina e l’accesi con il piccolo zippo che
mi ero portata dietro (nonostante fossi in compagnia di un fiammifero
ambulante, non mi pareva carino fargli accendere la sua candelina).
«Almeno questo, concedimelo… Buon
compleanno!» Dissi, porgendogli il dolce e sperando solamente
che non si arrabbiasse.
Rimase attonito per qualche istante ma poi sorrise, chiuse gli occhi e
soffiò sulla piccola fiammella. Ora che era rimasta
nuovamente solo la luce della torcia elettrica ad illuminarci, faticavo
a vedere bene i suoi lineamenti ma avrei giurato di scorgere un vago
sorriso.
Il moro si avvicinò al mio viso, scostandomi un ciuffo
ribelle sfuggito alla berretta di lana, e dandomi un leggero bacio
sulle labbra. Da così vicino riuscii a vederlo bene in
volto: sorrideva, nonostante la vaga patina di tristezza, stava
sorridendo e per me non c’era inizio migliore.
L’inizio di un nuovo anno, l’inizio di un nuovo
periodo, l’inizio di qualcosa di nuovo e migliore. Non
credevo si potesse percepire l’attimo esatto in cui si taglia
un traguardo e si inizia un’altra corsa, ma invece
l’avevo appena fatto!
Era come una linea leggera, a mezz’aria, appena percettibile
e invisibile, un punto di partenza per dimenticare i dolori passati, il
primo passo di un nuovo cammino, è il mattino, è
la luce che illumina i tuoi passi futuri ma non riesce a farti vedere
la fine.
L’inizio fa paura proprio perché lascia un sapore
di ignoto, perché è parte della tua storia che
inizia a prendere forma, a comporsi, a far parte di te.
Ace era il mio inizio ed io ero il suo.
Peccato che la nostra fine fosse fin troppo visibile e
l’oscurità avvolgesse solamente la durata e la
forma del nostro percorso.
«Usciamo, staranno per iniziare!»
Sussurrò piano. Io annuii semplicemente, chiudendo stretto
il giubbotto e seguendolo fuori dalla tenda.
Avemmo il tempo solo di avvicinarci al pendio ed abbracciarci, con il
suo mento che premeva delicatamente sulla mia testa, prima che il cielo
si tingesse di tutti i colori possibili. Iniziarono prima alcuni
piccoli spruzzi di colore, qua e là, seguiti da leggeri
botti, poi tutto d’un tratto la luce illuminò
tutto il paesaggio ed i rimbombi delle esplosioni riempirono
l’aria.
Rimasi senza fiato di fronte a quella sincronia quasi angosciante,
sentendo il cuore palpitare ad ogni botto.
Adoravo i fuochi d’artificio, fin da piccola mi avevano
regalato emozioni bellissime ed uniche. Probabilmente era proprio
destino che io fossi tanto affascinata dalle varie sfaccettature
dell’elemento del fuoco.
Ridacchiai sommessamente al ricordo di quella serata, alleggerita da un
fuoco d’artificio giallo e azzurro che aveva inevitabilmente
fatto sbellicare entrambi.
Il piumone morbido mi avvolgeva la schiena.
Il cielo invernale era sempre grigio pallido e glaciale.
Il telefono della casa squillò due volte prima che Ace
rispondesse.
Sentii solo le risposte del ragazzo attraverso la porta.
“Sì, sono io.”
“Ok…”
“Quando?”
“Sì, va bene.”
La mia vista si annebbiò, sentendo il pirata riagganciare e
non muoversi.
Potevo vederlo nella mia mente, in piedi davanti al tavolino di vetro
sul quale giaceva perennemente il suo cellulare.
Le braccia e la schiena tese.
La testa china.
Sentii le prime due lacrime scavarmi le tempie e rifugiarsi nei capelli.
Il respiro annaspare nel primo singhiozzo.
Il cuore foderarsi con un’armatura di freddo metallo, in modo
da non farsi vedere mentre si sgretolava come un pezzo di carta
bruciato esposto al vento.
La porta si aprì e richiuse.
Il letto si affossò al mio fianco.
«Quando?» Riuscii ad articolare.
«Il 25 Gennaio a Tokyo. Il trasferimento inizierà
il giorno stesso.» Recitò atono, ripetendo
esattamente le parole che aveva sentito al telefono.
Chiusi gli occhi.
Strinsi i denti.
Restai immobile, come Ace.
La telefonata tanto temuta era arrivata, ed aveva già
distrutto tutto quanto.
Avevo appena ricordato l’inizio e mi era già stata
annunciata la fine.
Quindici giorni.
Tic tac.
Tic tac.
Tic tac.
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Hem, beh... Penso che chiedere scusa ormai non basti più, ma
non posso fare altro....
Mi dispiace davvero moltissimo avervi lasciati tutti così,
senza avviso ne motivo, con la storia ormai a pochi passi dalla fine.
Mi scuso, non so cos'altro aggiungere, davvero, se potete perdonatemi e
non date alla storia colpe che sono solo della sua pessima autrice...
Spero che nonostante l'attesa infinita il capitolo vi sia piaciuto, e
spero di non farvi mai più attendere in queto modo
maleducato, scusate davvero.
Ho sempre detestato e maledetto gli autori che lasciavano le storie
incompiute, o in stallo per mesi e mesi, poi sono finita a fare lo
stesso.. Mi spiace, davvero!
Fatemi sapere cosa ne pensate, insultatemi, quello ceh volete, mi
merito tutti i pomodori che avete c.c
A presto!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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