La giacca nera ed i pantaloni abbinati fasciano il mio corpo alla
perfezione, eppure, in questo momento, li sento decisamente troppo
stretti. L’intera stanza in realtà mi sembra
stretta.
Una fastidiosa sensazione di soffocamento si serra come una morsa
attorno alla mia gola, così provo ad allentare il nodo della
cravatta e ad allargare il colletto della camicia.
No, non funziona. Non sono i vestiti a darmi fastidio, credo di avere
qualcosa dentro. Forse sto morendo.
Sì, probabilmente morirò, mi chiuderanno in una
cassa di legno e mi seppelliranno, come hanno appena fatto con la mamma.
Apro la finestra per far entrare un po’ d’aria e,
senza rendermene conto, mi ritrovo davanti allo specchio: un bambino
biondo di appena dieci anni ricambia il mio sguardo con fare poco
convinto, i vestiti da funerale non lo aiutano affatto a sembrare
più grande e lo stesso vale per gli occhioni azzurri dalle
lunghe ciglia, gli stessi occhi di sua madre che,
all’improvviso, diventano lucidi e arrossati.
Aspetta, lucidi e arrossati?
Faccio un passo indietro, come terrorizzato dalla mia stessa immagine.
Ora ho capito quello che mi sta succedendo: sto per mettermi a
piangere.
No, tutto ma non questo, non posso piangere, non voglio!
Mi sfrego violentemente gli occhi con le mani ma,
all’improvviso, il volto della mamma si fa strada tra i miei
pensieri. Come per magia, la sua voce calma e femminile comincia a
rimbombare senza pietà nelle mie orecchie, mentre una
sequenza di vivide immagini inizia a tormentarmi, strappando la mia
anima in tanti minuscoli pezzettini.
Vedo la mamma sorridere mentre mi guarda giocare con gli altri bambini
al parco, riesco quasi a sentire di nuovo il delizioso profumo di
vaniglia e limone dei suoi capelli, quel dolce aroma che tanto amavo e
che mi solleticava le narici quando mi divertivo ad affondare il viso
nella sua morbida chioma castana.
Percepisco di nuovo le sue dita delicate sfiorarmi il viso, la sua mano
posarsi sulla mia fronte per misurarmi la febbre. Odo la sua risata
limpida ed un po’ acuta, così vivida e reale che
quasi avverto con sorpresa il vibrare dei miei timpani.
Per un attimo smetto di sfregarmi gli occhi e abbozzo un sorriso, ma
poi mi rendo immediatamente conto di una cosa: la mamma non
c’è più. Tutte le sensazioni
meravigliose che ho appena provato non sono altro che semplici
illusioni, crudeli scherzi della mente.
Come per incanto, il volto sorridente della mamma ancora viva svanisce,
lasciando il posto a quello che ho visto poco fa, prima che chiudessero
la bara: bello e pacifico, ma anche immobile, pallido e decisamente
poco umano.
Non ero sicuro di volerla vedere così, la zia aveva anche
cercato di impedirmelo, ma papà fu piuttosto chiaro a
riguardo. “Non deve avere paura” aveva detto
“Non ce n’è motivo”.
Già, papà…
Credo che abbia apprezzato la serietà ed il contegno che ho
mantenuto durante tutta la cerimonia, mi sono impegnato per renderlo
fiero di me e non mostrare alcuna emozione e ci sono riuscito senza
problemi.
Ma allora perché adesso sto così male?
Provo a fare un respiro profondo ma ormai sembra non ci sia
più nulla da fare: le mie spalle cominciando ad alzarsi e
abbassarsi con un ritmo quasi convulso, la respirazione si fa
irregolare e le mie labbra tremano prive di controllo. E poi arrivano
le lacrime, seguite dai singhiozzi.
Sferro un pugno contro il muro per frustrazione, ottenendo soltanto di
scorticarmi brutalmente le nocche, e mi appoggio di peso
all’armadio per evitare di crollare a terra.
Voglio la mamma.
Voglio i suoi abbracci, le sue carezze. Non può essersene
andata per sempre, non ha senso.
La porta della camera si apre di scatto e la disperazione lascia subito
il posto al terrore: papà si ferma a pochi passi da me,
squadrandomi con fare severo. Cerco di raddrizzarmi e ritrovare un
po’ di contegno, quasi vorrei cavarmi gli occhi
purché non li veda rossi e offuscati dalle lacrime
come sono adesso.
Non mi è permesso piangere, me l’ha sempre
ripetuto e adesso di sicuro si arrabbierà. Il pianto
è un segno di debolezza.
- Cato.
La sua voce, ferma e profonda, mi colpisce al cuore come una
coltellata.
Tiro su col naso e provo a passarmi i palmi sulle guance bagnate, anche
se, con orrore, mi accorgo che le mie mani stanno tremando.
-Papà – rispondo con uno squittio.
Lui mi osserva in silenzio per qualche secondo, dopodiché
domanda semplicemente: - Cosa stai facendo?
Un tremendo senso di vergogna si fa strada nel mio cuore, portandomi ad
abbassare lo sguardo e arrossire. Succede ogni volta che capisco di
averlo in qualche modo deluso.
- Io… niente – balbetto poco convinto,
costringendomi ad alzare lo sguardo e tenerlo fisso nel suo. Le mie
mani continuano a tremare, così le stringo a pugno
più forte possibile e le nascondo dietro la schiena.
Papà socchiude gli occhi con fare quasi minaccioso: - Non
stavi mica piangendo, vero Cato?
Deglutisco a fatica, senza interrompere il contatto visivo: - N-no,
papà…
- Certo che non stavi piangendo – mi interrompe lui con tono
decisamente troppo calmo – Piangere è una cosa da
deboli, giusto?
- S-sì…
- Noi siamo guerrieri.
- Sì…
- Tu sei
un guerriero.
- Lo so…
- E i guerrieri sono forse deboli, Cato?
Tiro su col naso una seconda volta, raddrizzando il più
possibile le spalle: - No, signore. I guerrieri… non
piangono.
Papà annuisce impassibile, dopodiché mi si
avvicina e mi posa una mano sulla spalla: - Posso capire che la perdita
di tua madre ti abbia, diciamo, scombussolato un po’. Ma devi
ricordare che i guerrieri, nonché futuri Vincitori di Hunger
Games, non possono permettersi di fermarsi davanti a nessun tipo di
difficoltà. Non è piangendo che si vincono i
giochi, ma combattendo e affrontando ogni ostacolo a testa alta, senza
lasciarsi turbare da niente e nessuno. Mi sono spiegato?
Cancello dal volto ogni singola traccia di lacrime e annuisco deciso: -
Sì, signore.
Papà abbozza appena un sorrisetto, dandomi una pacca di
approvazione sulla spalla: - Molto bene. Domattina
l’Accademia aprirà un po’ prima,
perciò ti voglio in piedi alle sei in punto, pronto ad
allenarti come non hai mai fatto in vita tua. Devi recuperare il tempo
che hai perduto oggi.
- D’accordo – rispondo, un po’ sollevato
dal fatto di aver recuperato un tono di voce più deciso.
Papà annuisce, passandosi distrattamente la mano sulla barba
bionda, dopodiché esce dalla stanza, i suoi passi rimbombano
pesantemente lungo tutto il corridoio.
Improvvisamente, mi sento di nuovo solo, ma riesco ad evitare una
seconda crisi di pianto con un sospiro profondo.
Con sommo disappunto, scopro che tutto ciò non mi aiuta
affatto a farmi sentire più forte.
- Ehi, tonto, guarda che l’Accademia sta chiudendo.
Atterro il manichino contro cui mi sto esercitando da più di
due ore e mi volto a fissare annoiato Clove, la ragazzina dai capelli
neri che ha appena parlato. Ha circa un anno in meno di me, ma sembra
molto più piccola per via della statura e del fisico minuto.
Sfilo i guantoni da pugile e mi asciugo la fronte sudata con il dorso
della mano: - Perché anche tu sei ancora qui, allora?
- Mi hanno mandata a cercarti – replica lei con atteggiamento
scontroso – Tuo padre ti sta aspettando fuori.
- Beh – sospiro, flettendo all’indietro le spalle
– Gli farà piacere vedere che sono il primo ad
arrivare e l’ultimo ad uscire…
- Sì, sì, d’accordo – taglia
corto lei, osservandomi dall’alto al basso – Stai
bene per davvero?
Aggrotto la fronte confuso, cercando di studiare la sua espressione: -
Come, scusa?
Clove incrocia le braccia, sostenendo il mio sguardo quasi con sfida: -
Il funerale di tua madre si è tenuto soltanto ieri. Mi
sembra strano che tu sia così pimpante…
- Non intendo farmi abbattere dalle prime difficoltà
– rispondo risoluto, cercando di ignorare la morsa allo
stomaco che mi sta tormentando – Vincerò gli
Hunger Games anche per mia madre, quando sarà il momento.
- Se lo dici tu.
Clove dà un’alzata di spalle, dopodiché
si avvia a passo spedito verso l’uscita: - Sappi che dovrai
avere fortuna, Dolcezza. Non sei l’unico ad aspirare alla
corona, qui dentro…
- Sei anni dopo
–
E’ giunto il momento, non mi importa se ho altre due
occasioni per offrirmi, non voglio aspettare i diciotto anni come fa la
maggior parte dei miei compagni di Distretto.
Crimza, la capitolina vestita di rosso, mi osserva compiaciuta e mi
porge il microfono affinché mi presenti.
- Sono Cato Hadley – abbaio – Ho sedici anni e
sarò il vincitore di questa edizione!
Dalla parte opposta del palco, Clove emette uno sbuffo irrisorio.
- Hadley, hai detto? – ripete la donna vermiglia, con la
solita vocetta tagliente – Sei figlio di…
- Sì – mi affretto a rispondere, lanciando
un’occhiata in direzione di mio padre che mi osserva pieno
d’orgoglio – Sono figlio del Colonnello Ares
Hadley. E’ grazie a lui se sono diventato uno degli allievi
migliori dell’Accademia…
- Oh, sì, conosco bene il Colonnello – mi
interrompe Crimza, rivolgendogli un lieve sorriso –
Ma conoscevo anche tua madre, caro, lei mi ha fatto fare il giro del
Distretto dieci anni fa, quando arrivai qui per la prima volta.
- Ah, mia madre… - una fitta tremenda mi trapassa lo
stomaco, ma ritrovo in fretta il contegno – Mia madre era
Victory Hadley. Il suo nome significava “vittoria”,
che è esattamente ciò che otterrò in
questi giochi. Beh, che dire, in qualche modo sembra io sia
predestinato, Crimza.
- Oh, senza dubbio sarai uno dei tributi più interessanti
–afferma la donna, portandomi più vicino a Clove
– Esattamente come la tua compagna. Stringetevi la mano,
ragazzi! Un applauso per i nostri coraggiosi volontari: Clove Kentwell
e Cato Hadley!
La mano di Clove è piccola e fredda, scompare come un
cubetto di ghiaccio all’interno della mia.
So già che dovrò tenerla d’occhio, lei
e le sue sorelle erano sempre sotto i riflettori quando si allenavano
in Accademia.
- A quanto pare vogliamo entrambi la stessa cosa – le
sussurro sarcastico, ignorando l’ovazione disordinata del
pubblico – Potevi aspettare ancora un paio d’anni,
Clove…
I suoi occhi scuri e sottili trasudano veleno puro: - Mia sorella Ruby
ha aspettato l’ultima Mietitura per offrirsi, ma una
stronzetta è stata più veloce e le ha soffiato il
posto. Io non voglio perdere un’occasione così
importante.
- Beh, credo che la tua occasione sarà sprecata –
sogghigno, dischiudendo le dita e staccandomi dalla sua presa
– Sarò io a vincere.
- Oh, questo è da vedere – sibila lei, fissandomi
con aria di sfida – Ti consiglio di non sopravvalutarti.
***
Il dolore sta lentamente
svanendo. Mi pare di aver sentito un colpo di cannone, prima, ma forse
è stata soltanto un’allucinazione provocata
dall’agonia e dal panico.
Il tempo sembra
rallentare.
Chiudo gli occhi solo
per una frazione di secondo e, quando li riapro, non sono
più circondato da un branco di ibridi famelici che straziano
la mia carne, sotto un cielo scuro e minaccioso. Non saprei dire dove
mi trovo, so solo che sono ancora disteso a terra ed una figura
femminile si sta chinando lentamente su di me. Mi sfugge un singulto
soffocato.
Gli occhi azzurri dalle
lunghe ciglia, i capelli castani lunghi e fluenti, la carnagione rosata
e le guance piene… tutte quelle caratteristiche che in vita
avevo finto di dimenticare ora si trovano davanti a me.
Mamma mi porge la mano
sorridendo, aiutandomi ad alzarmi in piedi. E’ parecchio
più bassa di me, adesso, e in un primo momento la cosa mi
provoca un lieve senso di smarrimento.
- Ciao, tesoro
– mi sussurra, poggiandomi i palmi delle mani sul viso
– Sei cresciuto così tanto…
Piego le labbra in un
lieve sorriso, mentre i miei occhi cominciano a diventare umidi.
- Ciao, mamma
– mormoro, la voce rotta dall’emozione –
E’ bello rivederti.
- Avrei preferito che
questo momento tardasse ad arrivare – ammette lei,
sfiorandomi la guancia con le dita sottili – Sei ancora
così giovane, tesoro…
- Mi dispiace, ho
fallito – balbetto, abbassando lo sguardo – Io
volevo vincere, mamma, per te! Non riesco a capire cosa possa essere
andato storto! Io non…
Senza preavviso, scoppio
in un pianto isterico e quasi incontrollato. Inizialmente cerco di
trattenermi, ma poi mi rendo conto che mio padre non può
vedermi, non più.
Mamma mi afferra
delicatamente il mento, facendomi alzare lo sguardo su di lei.
E’ sempre bellissima, esattamente come la ricordavo.
- Cato –
sorride parlandomi con fare gentile – Non devi più
vergognarti di nulla, ormai. Non devi per forza fare come tuo padre,
rincorrendo la vanagloria e vergognandoti di compiere un atto umano
come il piangere. Sì, tesoro, anche lui piangeva, ha versato
più lacrime di quante pensi, chiuso nella nostra stanza,
accarezzando la metà vuota del letto. Non bisogna
vergognarsi di essere umani, si finisce solo col soffrire.
L’hai detto tu stesso alla tua amica giusto pochi giorni fa,
no?
Mi asciugo le lacrime
rapidamente, sentendomi improvvisamente meglio: - Già,
Clove… per caso sai se troverò anche lei e gli
altri in… qualunque sia il posto in cui ci troviamo?
Mamma emette una leggera
risatina, alzando le spalle: - Forse. Abbiamo tempo per cercarli,
tesoro. Abbiamo tutto il tempo che ci serve per fare qualsiasi cosa
insieme.
Mi lascio sfuggire un
sorriso, poi faccio un passo verso la mamma e la stringo in un
abbraccio, cercando di reprimere le lacrime non appena sento di nuovo
le sue braccia delicate e sottili serrarsi attorno al mio corpo.
E’ tutto perfetto, tutto come una volta… o quasi.
Con fare lento e quasi
un po’ impacciato, chino la testa e affondo il viso nei suoi
capelli, inspirando a fondo. Eccolo qua, finalmente, dopo tanto tempo.
Limone e vaniglia.
Per una qualche
misteriosa ragione – che alla fine tanto misteriosa non
è – mi accorgo di non avere alcun rimpianto. Ora
sono con lei, libero di essere me stesso, libero di essere umano.
Sì, questo mi fa davvero sentire più forte.
- Mi sei mancata.
***
Angolo dell’Autrice: In questo periodo a quanto pare sono
fissata coi Favoriti. Non è escluso quindi che pubblichi
qualcosa su Glimmer o Marvel prossimamente.
Qui abbiamo Cato come lo immagino io. Sia ben chiaro, non faccio parte
di coloro che lo ritengono un povero ragazzino incompreso,
semplicemente ho sempre avuto l’impressione che fosse un
ragazzo in qualche modo “costruito”, modellato
secondo i canoni del suo Distretto, un po’ come la maggior
parte dei Favoriti, insomma.
Spero che questa OS non abbia fatto schifo.
Grazie per aver letto! :)
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