Character: Taiga Kagami;
Testuya Kuroko; other;
Pairing: TaigaxTestuya {Kagakuro};
Rating: PG
Genre: Fluff
Words: 2253
Prompt: A036 [KUROKO NO BASKET] Kagami Taiga/Kuroko Tetsuya, singlefather!Kagami
e maestro!Kuroko
Warning: Shounen-ai, AU, kid!fic
Disclaimers: I personaggi di Kuroko no basket appartengono a chi di
diritto.
Scritta per il
Gransorpresa Challenge @
maridichallenge
{ kaasan }
La sua voce nella
notte a riempire la stanza da letto.
{ kaasan }
Le sue lacrime,
seduto tra il buio e le coperte ricolorate di nero.
{ kaasan }
Le mani piccole
sollevate verso la porta, alla disperata ricerca di un abbraccio materno che non
c'è più.
Non c'è più…
Le braccia di
Taiga si strinsero intorno al corpicino del bambino, sollevandolo gentilmente
dalle lenzuola per offrirgli le proprie gambe su cui accoccolarsi. I singhiozzi
del più piccolo riempivano la stanzetta, rimbalzando tra le pareti e sbattendo
contro il piccolo armadio, per tornare a gocciolare sul futon e sul petto del
rosso.
Sei anni. Dio,
quanto era passato dall'ultima volta in cui era stato in Giappone.
Sei anni. Ed era
tutto cambiato, lui per primo.
«Shss, va tutto
bene, Hikari, è stato solo un brutto sogno. Ci sono io adesso.»
Il bambino
singhiozzò, aggrappandosi con tutte le sue forze alla maglia del più grande;
minuscole manine di un candore niveo affondate in un mare di rosso.
Taiga gli sorrise
con la dolcezza di un padre, baciandone i capelli spettinati che odoravano
ancora del proprio shampoo, con cui il piccolo aveva voluto giocare,
svuotandolo. Erano rossi e ribelli, esattamente come i suoi.
«Papa.» la
vocettina del bambino era stata sottile, un soffio d'aria contro la sua maglia
«Stai qui?»
Annuì.
«Va bene.»
Lo strinse più
forte, si lasciò scivolare sdraiato sul futon, coprendo entrambi con le lenzuola
e attese che il bambino si riaddormentasse, guardandolo strizzare gli occhi,
come se potesse richiamare il sonno più velocemente in quel modo.
Sei anni trascorsi
lontano dal Giappone, il college americano lasciato un anno prima della laurea,
una borsa di studio per il basket gettata nella spazzatura, una madre troppo
giovane per portare avanti una vita con un bambino ed un figlio. Suo figlio.
~
Le mattine del
lunedì erano le più difficili, quelle in cui la routine ricominciava con
prepotenza, gettandolo giù dal letto.
Taiga correva da
un lato all'altro del minuscolo appartamento di periferia, raccogliendo panni
abbandonati a loro stessi da secoli, inciampando su giocattoli lasciati nel
mezzo del corridoio, controllando i fornelli, appallottolando il riso degli
onigiri e infilando il pranzo inscatolato nello zainetto di Hikari.
«Paaaapa~»
urlacchiò il bambino, agitando le braccia, per incitarlo «Daaai~»
Era facile per
lui, con le labbra arricciate sul visetto paffuto, il broncetto indispettito
dall'attesa e la fatica lasciata all’uomo. Uomo. A ventisette anni ancora
da compiere e con un lavoro di cui doveva ancora sostenere il suo primo
colloquio, non era sicuro di potersi già definire un uomo, anche se la presenza
di Hikari, in un certo senso, lo invecchiava.
«Hei, non hai il
permesso di mettermi fretta, sai!» l'indice di Taiga si puntò sul nasetto del
figlio, pungolandolo con dispetto, senza alcuna forza. C'erano voluti anni di
pratica per non temere più di romperlo e imparare a dosare la propria forza con
naturalezza: delicato nel sistemargli gli abiti, gentile nell'arruffargli i
capelli e sicuro nel prenderlo in braccio.
«Invece sì!» lo
imitò Hikari, muovendo il braccetto verso di lui, sollevandosi sulla punta di
scarpe da basket in miniatura nere e rosse, per cercare di colmare la distanza
che c'era tra loro, infinita agli occhi del bambino «E' colpa tua! Tua!»
«Non è vero!
Quando hai visto che non ho sentito la sveglia, avresti dovuto svegliarmi tu!»
«Ma tu l'hai rotta
la sveglia!»
«Ugh…»
Boccheggiò davanti
all'ovvietà con cui il figlio gli aveva risposto, spalmandogli in faccia la
triste verità di un risveglio che si faceva sempre più difficile.
Sospirò e si segnò
mentalmente di ricomprare una sveglia, insieme alla spesa che avrebbe dovuto
fare quella sera.
Riso. Pesce.
Miso. Spaghetti. Gamberi. Patate. Shampoo.
Sveglia.
Che palle.
~
Erano stati
fortunati nella scelta della scuola, ne avevano trovato una a pochi isolati da
casa e Taiga aveva potuto rimandare la spesa di un’auto a data da destinarsi.
«E se non mi
piace?» Hikari si teneva aggrappato ai suoi jeans con una mano, agitando più
veloce le gambe per stare dietro ai passi più ampi di suo padre. L'altro braccio
circondava un pallone da basket, premendolo contro il petto con tutte le proprie
forze, per non farlo cadere, nel timore di perderlo.
Taiga chinò il
capo verso di lui, tirando la spallina dello zainetto che gli rimbalzava sulla
spalla destra.
«Cosa?»
«La scuola.»
Gli sorrise, senza
sapere che cosa dire davanti ai due occhioni azzurri che lo guardavano come se
avesse avuto una risposta per ogni domanda sulla vita, sul mondo e
sull’universo. Ne aveva sempre avute poche, invece, trovandosi più spesso
spiazzato dalla curiosità del bambino, dai suoi perché, dai suoi per
come e dai suoi e se.
«Vedrai che ti
piacerà.» rispose scontato, eppure Hikari annuì, come se non avesse avuto
bisogno di sentirsi dire altro per credergli, pieno della fiducia cieca che solo
i bambini posseggono.
Strofinò il volto
contro la pelle ruvida del pallone, per prendere coraggio e porgere un'altra
domanda, facendola sembrare così importante che Taiga dovette fermarsi e
chinarsi verso di lui, per ascoltare meglio.
«E se sarò io a
non piacere agli altri?»
«Bah, sciocchezze.
Piaci a me, questo significa che devi piacere per forza a tutti.»
«Ma… ma tu non
vali…»
«Ugh… questo mi
spezza il cuore.»
Allarmato, Hikari
sollevò le braccia verso di lui.
«No, no! Non è
vero, scherzavo, tu valissimi!»
«Ah!»
E, sgranando gli
occhi nella stessa identica espressione, padre e figlio rincorsero il pallone,
rotolato via.
~
Era arrivato
presto, come tutte le mattine.
Gli piaceva
ammirare il silenzio dell'aula ancora vuota e dipingerla con gli occhi,
spennellando qua e là gli schiamazzi dei bambini, i colori vivaci dei loro
abiti, i capelli biondi di Ryota tirati da Yukio, gli sbadigli annoiati di
Atsushi sdraiato sul piccolo Tatsuya o gli ingombranti portafortuna di
Shintarou.
Le prime voci dei
genitori arrivarono dalla finestra aperta affacciata sul cortile, piene delle
solite raccomandazioni o del nome di Daiki che aveva già iniziato a scorrazzare
su e giù per il corridoio, insieme alla piccola Satsuki e ai suoi vani tentativi
di richiamarlo all’ordine. Con quei suoi capelli rosa e il sorriso zuccherino,
sembrava sempre una piccola fata appena uscita da una bomboniera alle prese con
un folletto dispettoso.
Al suono della
campana, si aspettò di vederli entrare per primi, seguiti dagli altri bambini,
invece il mondo si tinse di rosso. Il rosso di una zazzera di capelli spettinati
sul capo e occhi ferini che lo fissarono a loro volta.
~
«Credo sia qui.»
borbottò piano Taiga, per non farsi sentire dal figlio. Tra il trasloco e la
ricerca di un lavoro, non aveva avuto il tempo di controllare anche la scuola
elementare; sapeva che ce n’era una e aveva immaginato – sperato – che potesse
trattarsi dell’edificio dalle mattonelle giallo limone che da subito aveva
attirato la sua attenzione. Difficile non farlo, quando sei un pugno in un
occhio in un'anonima via di edifici grigi.
In qualche modo,
però, lo trovava piacevole. Luminoso. E, se doveva far frequentare una
scuola ad Hikari, perché non una che si adattasse al suo nome?
Alcuni bambini si
gettarono all’interno dell’edificio, seguito da genitori esasperati, nonni
pazienti, fratelli maggiori, sorelle più grande e poi da lui, che spiccava nel
gruppo di adulti tanto per il colore dei capelli (un pugno in un occhio,
esattamente come il colore di quella scuola) quanto per l’altezza spropositata.
«Siamo perfino in
tempo.» commentò, sul suono della campanella.
«Mhm.»
Hikari continuava
a starsene aggrappato alle sue gambe, intimidito dalle facce nuove che gli si
erano presentate davanti. Quando entrambi si affacciarono alla porta dell’aula,
il bambino trattenne il fiato, aspettando di vedere qualcosa di straordinario,
come il muso di un drago che suo padre avrebbe dovuto sconfiggere per poter
entrare o il porro di una strega pronta a lanciare incantesimi.
Invece, entrambi,
si specchiarono in occhi di un colore identico al suo.
Il colore degli
occhi di kaasan.
~
«Ohè, ojiisan,
così non possiamo passare!»
Per un attimo
avevano pensato che il tempo si fosse fermato, ma la vocettina supponente di uno
dei bambini aveva da subito ridato vita alle lancette.
Taiga si voltò,
troneggiando minaccioso sulla figuretta di un bimbo dalla pelle scura e il
ghignetto sardonico, compiaciuto per la reazione suscitata nell’adulto.
«C… come mi hai
chiamato, marmocchio?»
«Ojiisan!» ribatté
il piccolo e, poco dopo, un coro di «Ojiisan! Ojiisan! Ojiisan!» si levò da
tutta la comitiva di bambini, insieme al pigro masticare di una merendina da
parte del bimbo più alto, poco interessato a fare da pappagallo.
«Ma che… maledetti
mocciosi…»
«La prego di
scusarli.»
Aveva notato solo
con la coda dell’occhio un’ombra muoversi, ma aveva dato la colpa alla
suggestione e, quando la voce maschile lo raggiunse dal lato destro, si voltò
sorpreso a guardare il ragazzo accanto a lui, che aveva chinato il capo in segno
di scuse. Era sempre stato lì?
«Ah… eh… non… non
fa niente…»
Il ragazzo
risollevò il capo; per la seconda volta, Taiga si ritrovò a specchiarsi in un
oceano azzurro sconosciuto e, al contempo, familiare.
«Sono il maestro
della prima classe, Kuroko Tetsuya. Piacere di conoscerla.»
Se possibile, la
posa formale e l’espressione quieta del maestro lo misero ancora più a disagio.
Nella propria
infanzia non ricordava di aver mai avuto maestri così giovani, a parte
Alexandra, ma questo, se non fosse stato per l’aria di tranquilla neutralità che
trasmetteva, l’avrebbe considerato nulla più che un ragazzino.
«Kagami. Taiga.»
si presentò a sua volta, forzato e sintetico.
«Papa…» più in
basso, Hikari aveva nascosto il volto contro la coscia del padre e lo chiamò in
un pigolio poco udibile.
«Oh. Lui è
Hikari.» lo sguardo brillò d’orgoglio, gonfiandosi di una dolcezza improvvisa
quando aggiunse «Mio figlio.» per poi farla sparire all’istante, studiando con
durezza la reazione del maestro.
Veniva accolto
troppo spesso dalle solite reazioni sui volti di chi scopriva in lui un ragazzo
padre: compassione, biasimo, turbamento. Sul volto di Kuroko, tuttavia, trovò
solo la quiete di laghi di montagna e un sorriso cordiale che gli accese un
piacevole tepore nel petto.
«Papa, digli anche
l’altra cosa…» bisbigliò il figlio, intromettendosi timidamente.
Taiga sorrise,
affondando le dita tra i capelli del figlio.
«Non è un nome da
femmina.» specificò. Trattenne tra i denti un’imprecazione diretta mentalmente
all'ufficio dell’anagrafe americano che aveva scambiato la “ru” finale del nome,
con quella stupida “ri”. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso
della pazienza già troppo labile della madre di Hikari; aveva pianto quando
Taiga si era lamentato della vecchia dell’anagrafe e del suo pessimo udito e gli
aveva detto che non avrebbe potuto farcela, che non era mai stata quella la vita
che aveva voluto per sé. Per loro.
Stupido,
maledetto, nome… Stupido, maledetto, lui…
«È un bel nome.»
Il commento di
Tetsuya illuminò i pensieri di Taiga con la dolcezza di un timido raggio di
sole.
Gonfiò il petto,
sentendo di nuovo l'orgoglio invaderlo.
«Hai sentito?» si
rivolse ad Hikari e il piccolo annuì, contento.
Testuya li studiò
per un po’, scoprendo in loro lo stesso identico sorriso, riscoprendosi a
sorridere a propria volta, per poi notare il pallone trattenute dalle dita
piccole del bambino.
Si inginocchiò.
«Ti piace il
basket, Hikari-kun?»
La testolina rossa
tentennò qualche lungo istante. Annuì piano, abbracciando più stretto il pallone
e le guance si imporporarono, facendo risaltare ancora di più i due enormi occhi
cerulei.
«Anche a me piace.
Se vuoi possiamo giocare insieme.»
«Da-davvero?»
«Sì.»
Furono le parole
magiche per arrivare dritto al cuore del bambino e Hikari si innamorò del
nuovo maestro.
~
Allenatore
Kagami.
Si era rigirato
mentalmente il suo nuovo ruolo per tutto il tragitto fino alla scuola
elementare, sotto il sole aranciato del pomeriggio, impaziente di raccontarlo a
suo figlio per sentirsi un padre meritevole e sapere di star facendo le cose
per bene.
Si fermò al
cancello dell’edificio di mattonelle gialle, guardando verso il cortiletto. Tra
bambini che correvano e rincorrevano un pallone da basket, c’era suo figlio, che
volava verso il canestro, stretto ai fianchi dalle mani di Kuroko, nel
tentativo di fare una schiacciata.
«Più in alto! Più
in alto!» urlava, mentre gli altri bambini pregavano il maestro di prendere in
braccio anche loro, e sorrideva con infantile spensieratezza, lo sguardo
limpido, senza più quell’ombra amara che era stata la mancanza di sua madre e di
braccia gentili che lo stringessero con affetto.
Taiga rimase a
lungo a guardarli, a memorizzare i tratti fini del maestro e il suo contagioso
desiderio di giocare che metteva voglia di giocare per sempre, così diverso
dalla pacatezza con cui lo aveva accolto in classe. Ancor prima di capire come
fosse stato possibile, senti di essersene innamorato.
~
«Ah! C’è ojiisan!»
«Ojiisan! Ojiisan!
Ojiisan!»
«Basta chiamarmi
così, dannati mocciosi!»
«Papa! Hai visto?
Ho fatto canestro!»
«Vieni a giocare
anche tu, ojiisan!»
«Dai-chan, sii più
gentile!»
«Sta' zitta,
Satsuki, io sono gentile! Gli ho chiesto di giocare, no?»
Taiga storse il
naso, avanzando sul campetto improvvisato in cui regnava un unico canestro,
troppo basso per lui e il suo metro e novanta.
La palla rotolò ai
suoi piedi. La raccolse, rigirandosela tra le mani con la disinvoltura di un
vecchio giocatore, con ogni partita giocata tatuata sulla pelle e nella mente.
«Kagami-kun.»
raggiungendolo, in piedi di fronte a lui e con il sorriso sulle labbra, Tetsuya
tese la mano «Ti va di giocare con noi?»
Non c’era stato
nulla di romantico in quella domanda, era nata spontaneamente, circondata dalla
voce squillante di una classe di bambini e dall’odore di primavera portata dai
fiori di ciliegio, eppure quell’incrociarsi di sguardi, mentre restituiva il
pallone al maestro, lo fece sperare in qualcosa di più.
In una vita
passata a giocare con lui e a guardare suo figlio sorridere felice.
«Perché no!»
~
«Papa…»
Una voce a
riempire una camera diventata ormai troppo piccola, ma piena di un calore
familiare.
«Papa…»
Il suo sorriso
birichino, in piedi a saltellare sul materasso già riempito da due corpi che
piano si muovono, mentre due paia di occhi – rossi e azzurri – si aprono al
mattino.
«Papa!
Dai~
o facciamo tardi per la tua prima partita! Tetsu-otousan, diglielo anche tu!»
Le mani piccole
gettate al collo dei due ragazzi e quel bisogno disperato di affetto, finalmente
sfamato.
[legenda]
*kaasan = mamma
*ojiisan
= nonno
*Hikari
= luce (tipicamente è un nome femminile)
*Non
mi ricordo se nelle elementari, in Giappone, già si comincia a chiamare i
bambini per cognome. Diciamo di no e via.
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