13
13.
What
you hide
- Who you are is
what you hide
I was
yours, but you weren't mine
So now
you've drawn your line
But I
hope it will fade, in time -
(Hear me sing, AM)
Damon
Ci sono tre cose che ho capito a mie spese negli ultimi giorni. Che il
bourbon di bassa lega procura dei postumi terribili. Che odio il
country, quello passato, quello presente e quello futuro. Che quando le
cose si fanno deprimenti, non riesco a non avvelenarmi con entrambi.
Un minuscolo bicchierino di
vetro mi compare davanti, accanto alla bottiglia di Jim Beam senza
infamia e senza lode che subito uso per riempirlo fino all'orlo. Lo
butto giù in un solo sorso e lo faccio sbattere contro il bancone,
proprio mentre nel locale parte un'altra cavolo di canzone di Carrie
Underwood uguale a quella di prima. E, cazzo, non voglio neanche stare
a chiedermi come faccio a sapere chi è Carrie Underwood.
"Dunque, mio fratello non mi
vuole neanche vedere …"
Mi protendo in avanti sullo
sgabello, riempio un altro bicchierino straboccante.
A giudicare dalla stoccata secca
alle mie spalle e dalla risata di esaltazione che segue subito dopo,
qualcuno sta stravincendo la sua partita a biliardo. Buon per loro.
" … la sua irritante fidanzata
rincara la dose guardandomi come se fossi qualcosa di viscido scappato
da sotto una pietra …."
Il bicchiere resta vuoto per
neanche mezzo secondo. Pieno, ci rimane ancora meno.
" …. ho una moglie malefica che
è tornata dall'inferno a caccia del mio sangue e che non placherà la
sua sete fino a che non mi avrà prosciugato di ogni più
piccolo fottuto centesimo …"
Nella mia visione periferica,
una ragazza ed un tizio parecchio più grande di lei, entrambi in jeans
e camicia a quadri, hanno iniziato a spalmarsi l'uno sull'altra con la
pietosa scusa di ballare, sempre la solita canzoncina del cazzo. Ho già
detto quanto odio il country?
Pieno, vuoto, pieno, eccetera.
Liquide strisce incendiare che si accumulano nel mio stomaco colmo di
niente.
".. ho completamente mandato a
puttane il mio ruolo nella prestigiosa, inimitabile, compagnia di
famiglia, facendomi ritenere da un intero consiglio di amministrazione
l'essere più incompetente e indegno sulla faccia della terra …"
Questa volta, la barista - credo
che il suo nome inizi con la J - arriva veloce alla bottiglia di
bourbon prima che possa farlo io, pensandoci lei stessa a servirmi
un'altra dose. Grazie, tesoro.
" … oh, e poi, notizia
dell'ultim'ora. A quanto pare, ho di nuovo perso del tutto la testa
dietro al mio primo amore, la stessa incredibile, esasperante, e
completamente fuori dalla mia portata, ragazza che mi ha baciato come
se non ci fosse un domani, e poi ha finito di fare a pezzi i rimasugli
del mio ego ferito perché si sposa tra meno di due mesi."
Quest'ultimo bicchiere se ne va
via giù per la gola con una scia particolarmente dolciastra, rapida e
infuocata. Sì, mi sento estremamente poetico quando inizio ad essere
ubriaco.
"Quindi, dolcezza …" finisco
rivolgendo a J un veloce sorriso, mentre poso nuovamente il vetro sul
bancone e lei si sporge verso di me, appoggiandosi contro la superficie
di legno e posando il mento su una mano, in interessata attesa della
fine del mio monologo. " … per rispondere la tua domanda, sono
praticamente l'uomo del momento."
Per la cronaca, la domanda era
un "Come va?" accompagnato da un'occhiata smaliziata dalle intenzioni
piuttosto inequivocabili. Non sbaglio mai su quel genere di occhiate.
E' un talento. E, sempre per la cronaca, confermo anche che sì, la
barista il cui nome inizia per la J è anche fottutamente sexy. Canotta
ridotta ai minimi termini, capelli neri corti e spettinati, occhi verdi
che cercano e promettono un sacco di divertimento.
"E' il tuo modo per strapparmi
un pompino nei bagni?" mi domanda, con lo sguardo dritto nel mio ed un
altro sorriso allusivo.
Tra le sua labbra socchiuse
intravedo il luccichio metallico di un piercing sulla lingua. Cazzo.
Qualcuno mi dà una spallata nel
sedersi sullo sgabello accanto a me, rompendo l'incanto inebetito di me
che, già mezzo stordito, sto ancora lì a domandarmi perché non ho
risposto "sì" seduta stante. Mi volto verso colui che, appena tornato
dal bagno, ha appena rovinato tutta l'atmosfera.
"Quindi, stavo pensando …"
Inizia Ric con fare convinto, come se nei cinque minuti dentro alle
toilette avesse ricevuto chissà quale illuminazione divina. " … sei
patetico. E te lo dico consapevole di avere le mie colpe in questo, in
quanto colui che ti ha passato la bottiglia e che è stato con te nelle
ultime tre notti. A proposito, sei uno che abbraccia durante il sonno,
specialmente quando sei completamente andato. Non farlo. Non farlo più."
J lancia una strana occhiata
verso il mio compagno di bevute dal tempismo perfetto e dalla lingua un
po' troppo sciolta dall'alcol (e comunque, sta vaneggiando: io non
abbraccio). Solleva un sopracciglio, si raddrizza dal bancone sul quale
si era protesa e mi rivolge un veloce sorriso condiscendente. "Ho da
fare. Magari un'altra volta."
Come la ragazza se ne va,
colpisco bruscamente il mio amico sulla spalla con il dorso della mano.
"Un piercing sulla lingua, Ric!"
"Cosa?" mi domanda lui confuso,
senza capire.
"Lascia perdere …"
Alzo gli occhi al cielo, scuoto
la testa ed allungo la mano per andare a riempirmi un altro bicchiere.
Ma, con uno scatto
impressionante per il suo stato attuale, Ric mi anticipa e mi sottrae
la bottiglia direttamente sotto al mio naso e al mio sguardo stupito.
"No," scuote la testa con fare
deluso. "Come stavo dicendo, lo so che non sono probabilmente la
migliore persona per farti questo discorso, visto che … potrei essere
io stesso un tantino ubriaco in questo momento. E' solo che davvero mi
piace tanto il whisky … Ciò che voglio dire è, quanto hai intenzione di
andare avanti così, a girare per bar fuori mano e fottertene di tutto
quanto? E' stato divertente le prime due sere … adesso, inizio a
sospettare che stia diventando patetico."
"Non lo so e non mi importa,"
ribatto alzando le spalle. Ci mancava solo che ci si mettesse pure lui.
"Sono permanentemente fuori servizio."
Tento di riprendermi la
bottiglia, ma senza successo, perché Ric me la allontana di nuovo.
Gli rivolgo un mezzo broncio nel
tentativo di dissuaderlo dalla sua crociata tardiva e maldestra.
"Quanti anni hai, quindici?"
ribatte.
La sua domanda, grazie anche
all'ebbrezza che finalmente inizia a farsi sentire, mi fa quasi
scoppiare a ridere, anche se invece della risata ciò che mi esce fuori
è solo un mezzo ghigno in onore della paradossale ironia della
situazione.
Più
o meno, avrei voglia di rispondere.
Perché, ecco la cosa divertente:
fino a neanche due mesi fa ero una semi-specie di semi-adulto
semi-funzionante che era appena riuscito a permettersi un appartamento
decente a Mission Bay [1] con tanto di
terrazza spazzata dal vento gelido dell’oceano; uno che passava le sue
serate tra sushi bar e locali affollati di bionde dalla coda alta,
troppo single e troppo in carriera per preoccuparsi degli impegni di
lungo periodo, e che proprio per questo risultavano l'abbinamento
ideale alla mia incapacità di restare fedele a qualsiasi cosa per più
di una stagione.
Poi è bastato farmi una
passeggiata sul viale dei ricordi di questa fottuta città e, di colpo,
addio semi-specie di semi-adulto ventiseienne e bentornato fresco
diciottenne mai in grado di combinarne una giusta; oggi come allora
decisamente poco intitolato alla fittizia coscienziosità che, a quanto
pare, un banale concetto astratto come la maggiore età dovrebbe
magicamente dare.
"Sembri mio padre," replico.
"Una versione più ubriaca e con meno filtri."
"Dovrebbe essere un insulto?"
Questa volta rido, per davvero,
con la testa leggera piena di alcol e pensieri sconnessi, e con quel
fastidioso groppo alla gola che nessuna quantità di liquore è mai
riuscita a farmi andare giù.
"Torna a San Francisco, Damon,"
prosegue lui, prima di buttare giù l'ultimo sorso rimasto sul fondo del
bicchiere, e poi tornare ad inclinare la testa verso di me. "Era la mia
missione quando sono salito su quell'aereo, prendere le tue chiappe e
riportarle dove devono stare. Dico davvero, cosa ci stai a fare ancora
qui, in ogni caso?"
Bella domanda, non posso dargli
torto.
Avrei dovuto essere su
quell'aereo settimane fa. Tutto questo non avrebbe dovuto essere
nient'altro che una veloce toccata e fuga per mettere in ordine quelle
due o tre cose dopo la dipartita di mio padre, giusto quel tanto che
bastava per pulirmi la coscienza.
Invece, in un modo o nell'altro,
una settimana era passata e poi un'altra e poi un'altra ancora. Fino a
che non mi ci sono ritrovato dentro fino al collo, colato a picco
peggio di una porta-aerei da battaglia navale in mezzo a ciò che ho
perso, ciò che ho ritrovato e ciò che non ho mai avuto. E la verità è
che non lo so più neanche io cosa ci sto a fare qui, in un bar di
periferia con del pessimo country e bariste disinibite, senza più
nessuna vera scusa per restare e senza davvero nessuna voglia di andare.
Faccio leva sul bancone per
alzarmi dallo sgabello e tiro fuori il portafoglio per lasciare una
banconota da 50 sopra il bancone.
"Per il momento, Ric," rispondo.
"Penso che sia solo ora di tornare a casa."
"Quando cresce, vedrai che diventa
più ragionevole."
Era una sera
d'agosto poco prima dell'inizio del liceo e a pronunciare quella frase
era stata zia Julie venuta a trovarci da Atlanta.
L'aria aveva
il tipico odore pieno e dolce dell'estate, la luce sulla veranda era di
un intenso violetto scuro, e mio padre mi aveva appena proibito di
uscire per incontrarmi con Enzo, il nuovo ragazzo che si era appena
trasferito da Manchester con una madre single perennemente assente, una
scorta di sigarette sempre pronta ed un colorito assortimento di nuove
parolacce splendidamente britanniche. Io avevo tredici anni e, per
tutta riposta al suo divieto, gli avevo usato per la prima volta la
parola con la "F" ed ero uscito lo stesso.
Spoiler
alert, zia Julie: ti sbagliavi. Non diventai né più ragionevole, né
altro.
Anche
se il perché di tutta quell'irrequietezza e rabbia repressa,
onestamente, non avrei saputo dirlo neanche io.
Non è che
fossi cresciuto con grossi traumi infantili. Anche se, di quando ero
bambino, a volte tutto ciò che rimaneva era solo la soverchiante
presenza di mio padre. Forte, rigoroso, carismatico, rispettato. Era
dappertutto: nelle strette regole educative con cui aveva cresciuto me
e mio fratello, nello spingerci verso nient'altro che l'eccellenza, ma
anche nelle ore che spesso si prendeva libere da tutto e da tutti solo
per passare del tempo insieme a noi, al fiume in estate, in mezzo alla
neve d'inverno. La sua presenza nelle nostre vite era soverchiante
almeno quanto l'evanescenza di Charlotte, di cui, per almeno un paio di
anni dopo che se ne era andata, tutto ciò che avevamo erano biglietti e
regali spediti via posta per natali e compleanni.
Tanto che,
ad un certo punto, quando aveva sei anni, Stefan aveva iniziato a dire
in giro che fosse morta. Era stato allora che nostro padre ci aveva
preso da parte, si era messo con calma a sedere con entrambi e, mentre
fuori diluviava e il fuoco languiva nell'ampio camino della sala, ci
aveva detto che Charlotte ci voleva bene ma non era felice qui, che per
questo aveva scelto di andarsene e risolvere le sue problematiche da
sola. Niente bugie o pillole indorate. Dopotutto, mio padre non ci
aveva mai, neanche una singola volta, trattato con la condiscendenza
riservata ai bambini da chi crede che non possano capire le cose da
grandi.
Ad ogni
modo, l'irrequietezza. Forse era da lì che arrivava. Forse me la aveva
trasmessa Charlotte. O, forse, era stata la naturale conseguenza
del momento - così poco definito a differenza del resto, un po' come
l'età in cui non si è più bambini ma neanche quel qualcosa di
spaventoso che viene subito dopo - in cui un giorno avevo guardato mio
padre ed avevo realizzato che avevo bisogno di liberarmi di una tale
figura, così incrollabile e infallibile. E, da lì in poi, la mia
irragionevolezza - o irresponsabilità come lui la chiamava - non aveva
mai davvero conosciuto una fine.
Ecco cosa
avevo in testa quando mi svegliai e mi alzai dal letto: zia Julie,
pomeriggi al fiume e pioggia sui vetri, qualcosa che è troppo e
qualcosa che è troppo poco.
Così,
intento a trangugiare un toast al volo prima di andare a scuola, per
poco neanche la notavo.
La busta
giallastra era posata al centro del basso tavolino di fronte al divano,
con il mio nome scritto sopra nella calligrafia ferma ed elegante di
mio padre. Nient'altro: non una nota di accompagnamento, non una firma.
Quando la
aprii e le chiavi della Camaro scivolarono tintinnanti sul mio palmo
aperto, dalla sorpresa il mio cuore balzò contro le costole in un
guizzo così inaspettato e potente da farmi quasi male.
Mormorando
un sommesso "cazzo", mi precipitai alla finestra per averne conferma e,
infatti, eccola lì. Lucida e azzurra sotto il sole tiepido di marzo,
perfetta e senza neanche l'ombra della brutta ammaccatura sulla
fiancata destra e del danno al semiasse anteriore che l'avevano messa
fuori uso dopo il mio incidente.
Afferrai la
giacca e raggiunsi in fretta l'uscita per andare a toccarla con mano,
ma quando aprii la porta mi trovai davanti Stefan, colto proprio nel
bel mezzo dell'atto di bussare.
Mio fratello
aprì la bocca, ma lo stroncai sul nascere prima che potesse proferire
parola.
"Hai visto
papà?"
Stefan
corrugò la fronte, perplesso. Non era un qualcosa che mi sentiva
chiedere spesso.
Scosse la
testa, con aria sinceramente dispiaciuta.
"No, è
partito per DC questa mattina presto ..." Alzò lo sguardo su di me e mi
guardò quasi come se si sentisse in obbligo di dovermi delle scuse o
delle giustificazioni al posto suo. "Ma penso che ti chiamerà, voglio
dire ..."
"Non lo
farà. Ma va bene," risposi, e al dispiacere per me negli occhi di
Stefan si aggiunse quasi un accenno di pietà.
Ma la sua
compassione nei confronti del mio ruolo di figlio degenere mi scivolò
addosso senza scalfirmi, tanto che Stefan mi guardò completamente
disorientato quando, invece che incupirmi, iniziai a fargli dondolare
le chiavi proprio davanti al naso, sorridendo come un idiota.
"Ti serve un
passaggio?"
"Beh, perché
no," riprese lui, "Ma prima volevo ..."
Fu allora
che notai che, tra le mani incrociate dietro la schiena, stava
nascondendo qualcosa.
"Cazzo,
Stef, avevo detto-"
"Lo so, lo
so, cosa avevi detto," sbuffo' impermalito. Mi scaraventò in mano il
libro che si era portato dietro e si strinse impacciato nelle spalle.
"E' mio, perciò è solo un prestito, ok? Me lo ridai quando hai finito."
"Il Giovane
Holden?" commentai nel vedere di che si trattava, alzando un
sopracciglio verso di lui. "Che cliché."
"Sta' zitto
e leggilo."
"Ok,"
concessi. Mi infilai Holden Caulfield nella tasca interna della giacca,
evitando di dirgli che lo avevo già letto l'anno prima. Io ero
sorprendentemente di buon umore e lui era troppo carino per rovinare il
momento. "Grazie."
Poi gli
rivolsi un mezzo ghigno e gli feci cenno con la testa invitandolo a
seguirmi per andare a rimettere in moto la Camaro.
Avevo appena
chiuso la porta della depandance, quando il rumore basso e vibrante di
un'auto che risaliva il vialetto ci fece voltare entrambi.
Il
maggiolino decappottabile color giallo vivo parcheggiò ad una decina di
metri da noi, dandoci modo di intravedere la figura sottile di chi lo
stava guidando, e, cazzo, lì per lì quasi mi caddero le chiavi di mano
dallo stupore. Guardai Stefan, il cui volto era la maschera dello
shock, e poi di nuovo verso l'auto, per esserne sicuro.
Ma non mi
ero sbagliato. I lunghi e lisci capelli biondo cenere, quel modo
delicato e nervoso al tempo stesso di muovere le dita nel tirare giù e
rimettere a posto lo specchio del guidatore, e, soprattutto, i grandi
occhi verdi dall'espressione sempre meravigliata, appena una sfumatura
più chiari di quelli di Stefan.
Charlotte
scese dalla macchina e si appoggiò contro lo sportello, sorridendo e
agitando una mano nella nostra direzione in segno di saluto.
Sorpresa.
Finii per lasciar perdere scuola e
passare la giornata con Charlotte.
Appena
arrivata, mi aveva sussurrato nell'orecchio parole affettuose adatte
alla circostanza e stretto in un abbraccio che mi aveva fatto sentire
tutta la fragilità delle sue ossa. Quando però si era voltata verso
Stefan per fare lo stesso, mio fratello si era sottratto con un veloce
passo indietro ed un'occhiata da tigrotto ferito, se ne era andato
bofonchiando di essere in ritardo per la scuola, ed i grandi occhi di
Charlotte si erano subito riempiti di lacrime. Così, non avevo davvero
avuto altra scelta che stare con lei, se non volevo vederla piangere
proprio lì di fronte a me.
L'aria era
ancora frizzante degli ultimi residui di inverno, ma il sole aveva già
un piacevole tepore che ci concesse di sederci ad uno dei tavolini
all'aperto del Grill, lei con un Martini bianco ed io con la triste
acqua minerale che la mia età mi concedeva [2].
Per un po',
a parlare fu solo lei, a raccontare le storie del suo recente viaggio
in Guatemala e i progressi del suo nuovo libro, il terzo. Un po' la
storia della sua vita: rimasta incinta appena finito il liceo di un
uomo di dieci anni più grande, matrimonio riparatore a seguire,
un altro figlio e cinque anni dopo aveva deciso che non ne poteva più.
E poi era finita a scriverci sopra dei libri.
Si accese
un'altra sigaretta, una di quelle lunghe e sottili che sembravano
sempre un prolungamento naturale delle sue dita inquiete e filiformi.
Uno, due, tre colpetti per scrollare una cenere inesistente che ancora
non si era accumulata.
"Stai bene,
tesoro, ti servono dei soldi?"
"Ce li ho i
soldi. Ho un lavoro, ricordi?" risposi facendo girellare la cannuccia
nell'alto bicchiere cilindrico.
"Anche per
quando finirai il liceo? Sai già cosa fare?"
Alzai lo
sguardo su di lei e mi lasciai sfuggire una smorfia sarcastica.
"Hai parlato
con papà, per caso?"
Si voltò di
lato per soffiare via il fumo, scosse velocemente la testa e riprese a
scrollare la sigaretta.
"Lo sai che
tuo padre con me non parla."
"Magari dopo
tutti questi anni ha cambiato idea."
Charlotte
sorrise tristemente.
"L'ho
ferito, e lui sa essere molto testardo nelle sue decisioni quando viene
ferito."
Affondai un
po' di più nella sedia e scrollai le spalle con noncuranza, niente
affatto intenzionato ad entrare nel discorso del suo fallimentare
rapporto con mio padre, né tantomeno con me e Stefan. Ero l'unico che
le dava un po' di tregua, forse perché sotto sotto mi rendevo conto che
ci provava a rimediare, anche se in un modo che era sempre sbagliato e
che non risolveva mai un cazzo.
"Quindi?
Piani?" riprese in tono più allegro, anche lei evitando subito
l'argomento. Come sempre.
"Per ora
nessuno."
"Lo capirai
quando arriverà il momento, vedrai."
Fu in quel
momento - in quella situazione surreale di essere lì a parlare con
Charlotte, in un luogo perfettamente normale e familiare come il Grill,
invece che su barche o camere di hotel o posti sempre nuovi, tallonati
alle calcagna da sconosciuti che impazzivano per lei senza ricevere mai
lo stesso in cambio - che per davvero lo avvertii: il peso di tutto ciò
che mi ero perfettamente allenato a far sì che non mi toccasse, la
disfunzionale tendenza al menefreghismo che tutta quella situazione del
cazzo mi aveva lasciato addosso, le eccessive aspettative che non sarei
mai stato in grado di soddisfare. Ero fottutamente incasinato dentro e
con nessuna prospettiva di migliorare la cosa.
"E se non
succede?" domandai corrugando la fronte, con lo sguardo fisso sulle
minuscole bollicine d'acqua che risalivano su per andare a scoppiare
verso la superficie. "E se non sarò mai capace di fare una sola cosa
buona?"
Gli occhi di
Charlotte sembrarono allargarsi all'infinito. Per alcuni secondi, si
dimenticò perfino di dare i suoi ossessivi colpettini alla sigaretta.
"Ma certo
che lo farai, tesoro," disse sorridendo convinta.
Lo dici solo perché sei mia
madre, le avrei risposto se la
parola "madre" non fosse suonata così terribilmente stonata in
riferimento a lei. Pentendomi già di essermi lasciato scappare quelle
parole, forzai un sorriso ed un cenno di assenso con la testa per
tranquillizzarla, e tutto il resto lo tenni per me, ingoiandolo giù con
quella triste acqua minerale.
***
Quando con Ric torniamo a villa Salvatore, è notte fonda. La casa
sembra ancora più grande e buia, senza nessuna traccia di persone
ancora sveglie.
Beh, quasi nessuna traccia di persone
ancora sveglie.
Dopo aver salito l'ultimo
scalino, detto buonanotte a Ric e messo piede nel corridoio del secondo
piano, noto una sottile striscia di luce provenire da sotto l'ingresso
della mia camera e, chissà perché, ho subito la fastidiosa sensazione
che il seguito della mia nottata non abbia in serbo niente di buono.
Non mi sbaglio.
Apro la porta ed infatti… detto
fatto.
Mi sorreggo con una mano contro
la cornice della soglia e mi accascio contro di essa per darci un paio
di testate, espressione disperata di tutta la mia frustrazione.
"Due altre camere da letto. Una
dependance recentemente rinnovata. Per non parlare di un mondo
intero là fuori, che sono sicuro ha molti posti adatti per una stronza
psicopatica come te. Devi proprio startene qui?"
Katherine, languidamente distesa
sul ventre sopra al mio letto, alza lo sguardo dal mio portatile su cui
stava trafficando, posa in tranquillità il mento sulla mano e mi guarda
da sotto in su. Le sue gambe, lasciate scoperte dal vestito nero la cui
gonna si è raccolta sopra le sue natiche, sono incrociate in alto e
dondolano pigre nell'aria.
"Non sono mai stata una
psicopatica," si stringe nelle spalle.
"Che fortuna," replico
sarcastico.
Non ho le forze, né la lucidità
mentale per mettermi a discutere con lei in questo momento. Così chiudo
la porta alle mie spalle, mi avvicino al letto, le sottraggo il pc da
sotto lei mani suscitandole un broncio bambinesco, e mi butto sul
materasso senza neanche togliermi le scarpe.
Incrocio le mani sugli occhi per
farmi scudo dalla luce bassa che proviene dalla lampada sopra il
comodino, sforzandomi di ignorare la nefasta presenza nella stanza e
pregando che almeno non sia troppo d'intralcio tra me e l'incoscienza
alcolica che mi attende. Forse, se mi impegno abbastanza a far finta
che lei non sia qui, prima o poi scompare davvero.
Ovviamente, non sono così
fortunato.
Il letto si muove sotto al suo
peso, mentre Katherine cambia posizione e si sdraia su un fianco
accanto a me. Con un dito, inizia a tracciarmi i contorni dei muscoli
sulla parte più bassa del ventre, appena sopra la cintura e appena
sotto l'orlo della maglietta che è rimasta sollevata.
Rabbrividisco. Non so se di
disgusto o di piacere.
"Lo sapevi che, secondo le mie
ricerche, solo questa casa vale due milioni di dollari?" mi domanda in
un sussurro basso contro il mio orecchio. "Per non parlare di tutto il
resto della tua eredità, compreso il valore di una compagnia così
grande …"
Allungo un braccio e blocco la
provocazione messa in atto dalla sua mano, chiudendola nella mia. Ma
lei non la sottrae ed io non la spingo via, così le sue dita rimangono
lì, ferme sul mio addome. Perché sì, non c'è nient'altro che io voglia
di più in questo momento che vederla andarsene a fanculo; eppure, è un
piccolo contatto di calore umano, per quanto umana possa mai essere
Katherine, a cui in questo momento sono troppo debole per rinunciare.
"La compagnia non vale un cazzo
se va avanti di questo passo," rispondo iniziando a strascicare la
voce, con l'altro braccio ancora sugli occhi a crearmi un buio
artificiale su cui danzano piccole lucine colorate.
"Beh, allora vedi di rimediare.
Non sono venuta fin qui per tornarmene a mani vuote."
"E pensare che una volta ti
credevo appassionata e imprevedibile, altro che così calcolatrice."
"Oh, per favore. Guarda che
anche io ti credevo qualcosa che non eri. Ricco. Come vedi, siamo in
due ad essere rimasti fregati."
Le lascio andare la mano con un
sospiro infastidito e riporto il braccio insieme all'altro, sopra la
mia testa, non appena quella frase fa breccia nella nebbia post-sbronza
e mi ricorda con chi è che ho davvero a che fare.
"Ma," prosegue in tono allegro,
"la buona notizia è - almeno per me - che adesso ricco lo sei davvero!"
"Non ti dò un cazzo di niente,
Katherine."
"Certo che lo farai," mi
bisbiglia, con quel tono seducente e appena roco per cui, un tempo,
sarei stato capace di fare follie. Infila lentamente la mano sotto la
mia maglietta e risale, accarezzandomi il torace, delineando sulla mia
pelle tutto il percorso fino alla parte alta del petto, dove voleva
arrivare. "Perché lo so che, in fondo a quel tuo cuoricino morbido e
sentimentale, …" lo accarezza piano mentre parla e, con una coscia
nuda, preme e si struscia contro il cavallo dei miei jeans, che si è
già indurito di sua spontanea volontà. "… una parte di te ancora mi
ama."
"Ti detesto."
Sorprendentemente, le parole mi
escono fuori più piatte ed indifferenti di quanto non avessi
intenzione, senza la forza con cui mi sono sempre immaginato che gliele
avrei dette.
Katherine ride, di una risata
bassa e sinceramente divertita. Non mi crede neanche per un istante.
"Se è davvero così, allora
perché non hai mai chiesto il divorzio?"
Perché se ne è andata da un
giorno all'altro senza lasciare neanche un bigliettino, figuriamoci un
recapito. Perché pensavo che intestardirmi per andare a cercarla e
cancellarla dalla mia vita le avrebbe solo dato l'impressione che ci
tenessi ancora a lei. Perché, forse, in fin dei conti sarebbe stata
l'ammissione finale di aver sbagliato e aver fatto una cazzata, di
nuovo.
Ma col cazzo che si merita una
risposta. Può pensare quello che diavolo le pare.
Le sue labbra mi sfiorano il
collo, accompagnano un altro sfregamento di apprezzamento della sua
coscia.
Lo so che mi sta manipolando. Lo
so che sta solo cercando di dimostrare il suo punto, quello per cui non
sono stato in grado di resisterle in passato e non sarò in grado di
farlo neanche questa volta, quando si tratterà di definire il divorzio
che è tornata per chiedermi dopo aver saputo - dio solo sa come -
quanto fosse cambiata la mia situazione finanziaria.
Ma anche questo pensiero non mi
fa incazzare come dovrebbe. Mi sento impermeabile a qualsiasi suo
giochetto mentale. In questo stato mezzo ottenebrato dall'alcol che
ancora mi intasa le vene, ho la ridicola percezione di essere io ad
usare lei. Per non pensare, per dimenticare, per farmi una scopata con
una qualsiasi altra ragazza in cui perdersi e divertirsi per una notte,
e poi archiviare facilmente il mattino successivo.
Apre il primo bottone e poi la
cerniera dei jeans, per insinuarsi direttamente sotto ai boxer.
"Mi detesti davvero tanto …"
commenta sarcastica soffiando sopra la mia bocca, mentre spingo il
bacino in alto contro la sua presa ed il mio cazzo le riempie la mano.
La afferro deciso per i fianchi
per portarla come si deve sopra di me, e poi mi assicuro che smetta di
parlare.
***
Cose che avevo giurato a me stesso di non fare mai più, prima voce
della lista: svegliarmi nudo accanto a Katherine.
Cose che rimpiango: non
essermelo ricordato quando sarebbe stato il momento.
La luce del mattino e la
ritrovata lucidità mi colpiscono peggio di un faro stroboscopico
puntato dritto in faccia. Mi porto le mani sul volto, per imprecare
sottovoce contro i miei stessi palmi e prendere un profondo respiro,
prima di voltarmi verso l'occupante del lato destro del letto.
Eccola lì: la prova
inconfutabile dell'infimo punto a cui mi sono ridotto. Forse il Ric
ubriaco ha ragione: è il momento di smetterla di fare il coglione.
Katherine è ancora addormentata,
una mano sotto al cuscino e la linea rotonda del seno premuta contro il
materasso. La cosa peggiore è che, a guardarla adesso, ingannerebbe
chiunque. Nessuno sospetterebbe che dietro quel viso dalle linee dolci
e delicate possa nascondersi una tale vipera.
Mi maledico ancora una volta
nell'alzarmi dal letto, tanto per non dimenticarlo neanche io.
Dopo una doccia allo scopo di
liberarmi al più presto di qualsiasi minuscolo ultimo residuo di
Katherine che possa essermi rimasto addosso, finisco di infilarmi la
maglietta mentre sto ancora scendendo le scale fino all'ingresso, ben
intenzionato a svignarmela e a far finta che ieri notte non sia mai
accaduta.
L'anticamera d'ingresso è ancora
completamente ingombra del caos di scatoloni da cui, con la stessa
voracità di una pianta rampicante, adesso che si è trasferita qua, la
roba di Caroline continua a sbucare e ad invadere ogni centimetro di
questa casa. Ne scavalco un paio con la scritta "Sala", dentro ai quali
intravedo vecchie fotografie incorniciate da legno chiaro e tappezzeria
varia dai colori pastello che mi auguro vivamente non abbiano
intenzione di trovare collocamento da queste parti almeno finché ci
sono ancora io nei paraggi. Poi Stefan potrà lasciare che Blondie Girl
trasformi la nostra casa di infanzia in una sala da tè quanto le pare e
piace.
Sto per compiere gli ultimi
passi della mia personale camminata della vergogna verso la porta, ma
ciò che inaspettatamente intravedo nella sala alla mia sinistra mi fa
bloccare all'istante. Dannazione.
Nel mio salotto c'è Elena. O, a
seconda dei punti vista, il karma che ha deciso ancora una volta di
ridermi in faccia.
Quella era probabilmente una pessima
idea. Era tardi, era un qualsiasi giorno nel mezzo della settimana, ed
anche solo per quello mi avrebbe mandato a quel paese. Lasciai che la
cosa mi fermasse? Ovviamente no. Non mi soffermavo mai più di tanto a
soppesare la ragionevolezza delle mie idee.
Parcheggiai
la Camaro accostandola vicino al marciapiede e mi incamminai nel buio
rischiarato dai lampioni ai lati della strada, la maggior parte delle
luci provenienti dall'interno delle altre case già spente. Arrivato
sotto al portico della mia destinazione, girai per un paio di metri
sulla sinistra e sollevai lo sguardo per sbirciare verso la finestra di
Elena, così da poter controllare che la sua luce fosse ancora accesa.
Ero appena
andato via dalla mia comparsata alla festa di Enzo, il quale, anche se
gli avevo detto da giorni che non c'era proprio un cazzo da
festeggiare, si era allegramente sbattuto di ciò che ne pensavo io e mi
aveva usato come scusa per radunare un po' di alcol ed un po' di
ragazze con cui possibilmente andare in seconda base negli angoli bui
del suo garage. Me ne ero andato dopo nemmeno due ore, un po' perché
non ero dell'umore, un po' perché, fanculo, tanto valeva ammetterlo:
non avevo voglia di passare la serata incollato a qualche ragazza della
quale avrei quasi sicuramente dimenticato il nome il mattino successivo.
Raccattai da
terra una manciata di sassolini e li lanciai contro la finestra di
Elena.
Niente.
Ripetei di
nuovo l'operazione e, questa volta, passati alcuni secondi, Elena alzò
il vetro e cautamente si sporse in avanti per scrutare nel buio, anche
se l'ombra dell'albero al limitare del suo giardino, che si innalzava
fino al limitare del tetto, mi nascondeva completamente.
"Damon?" sussurrò incerta, pur senza
vedermi. Mi spostai di qualche passo finché non entrai nella sua
visuale e lei corrugò la fronte perplessa. "Cosa?…"
Le feci
cenno con la testa di scendere, indicandole la sua porta.
Inclinò
la testa di lato e mi rivolse con lo sguardo un muto Sul
serio?, scosse la testa e richiuse
la finestra con un colpo secco, poi si voltò e scomparve in una ventata
di capelli scuri. Lo avevo detto che mi avrebbe mandato a quel paese.
Era
passato quasi un mese, dal giorno in cui mi ero infine deciso a farmi
coraggio e ad andare a chiederle se davvero le parole impulsive dettate
dalla mia stupida competizione con il quarterback avessero per sempre
segnato la fine della nostra amicizia. Certo che no, era stata la sua risposta. Tre parole, ma
erano state abbastanza.
Non riuscivo
ancora a digerire del tutto il suo nuovo ragazzo, né tantomeno quel suo
amichevole e completamente non odiabile sorriso alla famiglia Brady che
sapevo io dove glielo avrei volentieri infilato. Ma non potevo. Non
dopo che Elena si era intestardita a metterci entrambi seduti ad un
tavolino del Grill per farci conoscere meglio, costringendomi ad
iniziare a chiamarlo per nome (Matt. Nome stupido, no?) e ad andarci
d'accordo. Cosa che tra l'altro era fin troppo facile da fare, dato che
il tizio (Matt. Il nome, dannazione) era un maledetto cucciolo di
labrador. E come cavolo fai a prendere a calci un cucciolo di labrador?
Fatto sta
che il cucciolo (Matt) le sottraeva buona parte del suo già limitato
tempo libero, ed io avevo le briciole. In un certo senso, quello aveva
cambiato qualcosa nel nostro rapporto, nel modo in cui avevamo piano
piano iniziato ad avvicinarci di nuovo, a cercarci nei momenti più
impensati. Non in peggio. Solo … diverso. Come se tutto tra noi fosse
più prudente. Meno banale. Più indispensabile.
Rimasi
appoggiato con la spalla contro una colonna del portico con le mani
infilate nelle tasche ad aspettarla scendere finché, qualche minuto
dopo, l'ingresso non si aprì gettando un triangolo di luce gialla sulle
assi di legno della veranda.
"Cosa ci fai
qui?" mi domandò, socchiudendosi la porte alle spalle e venendomi
incontro. "E' quasi mezzanotte."
"Ti va di
venire in un posto?"
"Adesso?…"
La circospetta incertezza della voce, però, si accompagnò al barlume di
vivace curiosità che le accese gli occhi, facendoli sfavillare
anche al buio. "Dove? …"
Piegai le
labbra in un mezzo sorriso. "Ti fidi di me?"
E' la prima volta che vedo Elena dopo la mia totalmente intempestiva
idea di baciarla sul portico di casa sua e già i miei sensi, i miei
pensieri, la mia razionalità … fanno bip e vanno in corto circuito.
Non mi ha visto, quindi
probabilmente la cosa migliore per tutti sarebbe ignorarla e continuare
a dirigersi verso l'ingresso. Certo non appoggiarmi con le braccia
incrociate contro lo stipite della porta, ad osservarla mentre se ne
sta in punta di piedi sulla piccola scala, piegata appena in avanti con
le braccia allungate per sorreggere un nuovo quadro straboccante di
girasoli da piazzare in uno spazio vuoto accanto al camino.
Lei e quella sua brutta
abitudine di indossare gli shorts. Lei e quelle gambe, slanciate e
adesso leggermente in tensione. Lei e …
Ok, ecco come stanno le cose. Ho
cercato in tutti i modi di non pensare a quel bacio. Tanto pazzesco,
quanto impossibile da ripetere. Dopotutto, ho fatto una promessa, no?
E, d'accordo, è vero che il mio
cervello non è di per sé mai stato molto collaborativo quando si tratta
di smettere di pensare a lei, ma qualcuno mi conceda almeno la scusante
di quanto sia ancora più dannatamente difficile mantenere quella
promessa quando solo vederla (non solo le gambe, ma la perfetta
rotondità che le corona, la spalle che sbucano dalla larga maglietta
bianca traforata, l'estremità della coda che dondola sulla curva della
nuca) basta per riportare a galla lo stesso identico afflusso di sangue
alla testa nonché a tutto il reso delle mie estremità.
Del resto, quel bacio non ha
fatto altro che confermare ciò che già sapevo. Ovvero che sotto a tutto
quel suo atteggiamento da "fare-la-cosa-giusta" - perché dio ce ne
scampi che possa concedersi qualcosa che non la faccia sentire sempre
in controllo di tutto - Elena è fuoco, di quelli quieti e silenziosi
che sono solo brace finché non divampano all'improvviso. E dopo che a
ricordarmi questa cosa ci hanno pensato le sue mani che si aggrappavano
strette tra i miei capelli come se ne andasse della sua vita, la sua
schiena arcuata contro il mio corpo fino a che non ho avvertito
nient'altro che le piccole punte indurite dei suoi capezzoli, e quel
sommesso, eccitante, suono che si è lasciata sfuggire dalla parte più
profonda della gola … beh, dopo che Elena ti bacia così, non è
esattamente una passeggiata dimenticarsene e tornare a recitare il caro
vecchio gioco dell'indifferenza.
"Care, sbrigati, non posso stare
qui tutto il giorno!" grida, voltando la testa di lato.
In tempo per vedermi, e
sorprendermi ancora intento a sbirciare le curve di quei maledetti
shorts. Mi vede e reagisce: occhi spalancati, labbra socchiuse … Un
cerbiatto colto alla sprovvista.
"Ehi," la saluto piano.
"Ehi …"
Si guarda attorno, cauta. Non sa
chiaramente cosa fare, impossibilitata a lasciare la sua posizione a
causa del quadro che altrimenti rischierebbe di cadere a terra. Dovrei
forse restare fermo dove sono, a studiare le sue reazioni
contraddittorie alla mia presenza? Probabilmente dovrei.
Invece entro in sala e mi
avvicino, lasciando che Elena mi segua con lo sguardo, afferro il
quadro per lei e la aiuto ad appoggiarlo delicatamente per terra.
Mi accenna un "grazie" mentre
scende dalla scala.
"Non pensavo … cioè, non sapevo
…" Si sposta dalla fronte una ciocca sfuggita dalla coda, evita il mio
sguardo e tira fuori un sospiro che sa di scuse che non mi deve e che
soprattutto non mi va di sentire. "Non sapevo che tu fossi qui."
"Io ci vivo qui."
"Sì, lo so, voglio dire …" Due
ciocche da risistemare, ancora qualcosa all'altezza della mia spalla
che deve sembrarle particolarmente interessante. "Caroline aveva detto
che di solito sei sempre fuori. Altrimenti, se lo avessi saputo, non
sarei mai venuta."
Questa è stata crudele … Ma
immagino che il fatto di eclissarmi dalla sua vita, implichi anche
questo. Una politica zero contatti.
"Così non vuoi neanche vedermi,
o rischiare di incontrarmi. Lo terrò a mente."
I suoi occhi scattano di colpo,
in un riflesso incondizionato, verso il mio volto.
"Cosa? No, io …Dio, Damon, non è
questo che intendevo. Ho solo pensato … che forse eri tu quello che non
aveva voglia di vedermi." Pronuncia le ultime parole cautamente, in
attesa della mia reazione, e dopo un ultimo attimo di esitazione,
aggiunge così semplicemente da far male, "Io ci tengo a te. Questo non
cambia."
E' la risata del karma quella
che sento? Eccolo qui, il vero grosso fottuto problema. Perché una
parte di me quasi vorrebbe che non fosse così. Renderebbe tutto molto
più facile. Prego, Elena, unisciti a Katherine nel club delle stronze.
Riunioni infrasettimanali, cocktail e stuzzichini inclusi.
Peccato che facile non rientri
nel mio vocabolario. Peccato che lei sia Elena, che io sappia che lo
intende per davvero, e che anche in questo frangente io non possa farle
una colpa per questo.
"Sto bene, Elena. Sono un
ragazzo grande, so incassare un rifiuto."
Scuote appena la testa. "Non
avrei mai dovuto lasciare che le cose diventassero così incasinate tra
noi."
"Come ho detto: ragazzo grande."
Tiro un angolo delle labbra
verso l'alto per sottolineare la mia frase, e lei fa lo stesso di
rimando.
Per un breve attimo, ho quasi
l'impressione che questa cavolo di situazione di sentimenti scombinati
e male assortiti possa davvero funzionare: io imparerò di nuovo a
togliermela dalla testa e a pensare a lei solo come ad un'amica, lei si
preoccuperà per me dispensando consigli per arginare la mia costante
promiscuità sentimentale, e ci ritroveremo tutti insieme a riderci su
al primo compleanno del figlio di Stefan e Caroline.
Poi Elena piega il viso di lato
per sbirciare oltre le mie spalle e quell'abbozzo di sorriso sul suo
volto … puff, svanisce all'istante.
Quando mi volto, Katherine è
appena saltellata giù dall'ultimo gradino della scalinata, vestita solo
della maglietta blu che indossavo io ieri sera e che a malapena arriva
a coprirle il sedere.
"Buongiorno!"
Incrocia le mani sopra la testa
per stiracchiarsi e scoprire l'altro pezzo del suo abbigliamento, una
brasiliana di pizzo nero che le incornicia le natiche meglio che a una
modella su una copertina di Playboy, prima di gettarmi entrambe le
braccia al collo ed iniziare a fare le fusa più false di tutto il suo
repertorio.
"Perché ti sei alzato così
presto? Avremmo potuto fare il bis. O tris, o … non lo so, penso di
aver perso il conto ieri notte?"
Mi libero della sua presa con
una smorfia ed uno scatto infastidito delle spalle.
Quando poso di nuovo gli occhi
su Elena, noto che ci sta guardando con una specie di strano orrore
incredulo, la bocca semi-spalancata e le braccia adesso conserte
intorno al petto.
E' un secondo, in realtà, non
molto di più, quello in cui incrocio il suo sguardo e vedo tutto il
mondo che ci passa dentro, il cambiamento da ferito, tradito, a
schifato, ed infine … così incazzato che non so neanche come dovrei
reagire.
E' vero che solo qualche sera le
avevo detto che di Katherine non poteva fregarmene di meno e adesso è
appena balzata fuori seminuda dal mio letto … Ed è vero che, per un
momento, penso quasi di partire con tutte le giustificazioni del caso,
con l'intero pacchetto "ero-ubriaco-e-triste" … solo che poi, beh, era
o non era lei, quella che ha messo in chiaro come stanno le cose come
tra noi?
"Allora, ho trovato solo questi
due di martelli, secondo te quale …" Ci voltiamo tutti di scatto verso
Caroline, che sbuca sulla cima delle scale di ritorno dalla cantina,
con un martello in ognuna mano. Si ferma a rivolgere uno sguardo
disorientato a tutti i presenti "…. Cosa sta succedendo qui?"
"Devo andare," si affretta a
dire Elena, mentre si piega a riprendersi la borsa che aveva posato sul
divano, con un scatto secco che trabocca di furia trattenuta. "Avevo
dimenticato … Devo essere al Grill."
"Ma avevamo appena cominc-"
protesta Caroline.
"Mi dispiace, Care. Ti chiamo,
ok?"
Si avvia a passi decisi verso
l'uscita, senza guardarmi in faccia, ma assicurandosi di scontrarmi
piuttosto violentemente contro la spalla nel passarmi accanto. Vedo lo
scenario del primo compleanno di mio nipote dissolversi nell'aria con
un ultimo, scoppiettante, sbuffo di fumo.
Lo schiocco del portone che si
chiude con forza riecheggia ancora nella sala, quando mi volto
minaccioso verso Katherine, che invece dal canto suo alza infastidita
gli occhi al cielo con fare melodrammatico.
"Oh, ti prego!" mi anticipa.
"Come se non ti avessi appena fatto un favore. Quell'espressione da
cucciolo preso a calci con cui la guardi non ti dona. È solo patetico."
"Ti hanno nutrito a pane e zolfo
da bambina, vero? Perché spiegherebbe un sacco di cose."
"Se tu ti decidessi a firmare
quei cavolo documenti che ti ho portato, stai tranquillo che non
dovresti vedermi mai più, perché sarei fuori dai piedi in un batter
d'occhio!"
"Non ti dò tre quarti del mio
patrimonio!"
"Guarda che un milione e
duecentomila dollari sono una cifra perfettamente ragionev-"
Un colpo secco così violento da
far tremare il pavimento, ci fa sobbalzare entrambi e voltare in
direzione di Caroline, che ha appena scaraventato entrambi i martelli a
terra sul tappeto e ci sta guardando entrambi con una paurosa violenza
assassina.
"La prossima volta …" scandisce
gelida, prendendo un profondo sospiro come per imporsi di controllare
la sua reazione, e poi indicando prima me e poi Katherine con il dito
indice. "Questi finiscono contro le vostre teste. Non vi sopporto più!"
Caroline lascia la stanza
battendo i piedi con un rumoroso click-clock inviperito, ed anche io
esco incazzato di casa, maledicendo Katherine, il giorno in cui l'ho
incontrata, me stesso e la mia fottuta incredibile capacità di
rovinarmi sempre con le mie stesse mani.
"Allora …" cominciò Elena,
sistemandosi meglio in avanti per appoggiare i gomiti sulla sottile
balaustra di metallo. "… adesso mi dici perché siamo qui?"
Mi strinsi
nelle spalle e mi appoggiai all'indietro contro la parete della
struttura, il cui freddo metallico mi percorse la schiena anche
attraverso la giacca di pelle.
"Mi piace la
vista."
Elena posò il mento sulle mani, incrociate
una sull'altra.
"E' una
bella vista."
Sotto di
noi, aguzzando lo sguardo, era ancora possibile intravedere nel buio la
sagoma spigolosa della Camaro, parcheggiata a pochi metri dalla vecchia
torre cisterna dell'acqua su cui ci eravamo arrampicati, su per la
sottile scaletta di metallo mezza arrugginita, usando come unica luce
quella di una torcia di scorta che avevo recuperato dal vano
porta-oggetti. Ci eravamo seduti sul parapetto di quella costruzione
imponente e fuori uso che non aveva mai fatto davvero paura a nessuno,
con le gambe che dondolavano nel vuoto e nell'immobilità silenziosa
della notte.
Più avanti,
in lontananza, semi-nascosto dai rami degli alberi, si apriva
l'agglomerato compatto del centro città, ingoiato dall'oscurità informe
tutto attorno e puntellato dai bagliori più brillanti
dell'illuminazione cittadina e da quelli più fievoli delle case, che
continuavano a spegnersi mano a mano che la notte avanzava.
Elena
inclinò la testa per posare il viso sui suoi gomiti incrociati sulla
ringhiera, rivolgendolo verso di me. Sulle sue labbra comparve l'ombra
di un sorriso leggero e sereno che mi affondò dritto tra il petto e lo
stomaco, e da lì ne tirò come sempre fuori corde e appigli che non
sapevo neanche come diavolo facesse a trovare.
"Venivo qua
spesso con Stefan quando eravamo ragazzini. C'è un piccolo fiume là più
avanti," glielo indicai allungando un braccio. Anche se era impossibile
vederlo nel buio, era comunque possibile sentirne lo scroscio
tranquillo e costante in lontananza, "dove mio padre ci portava tutti
gli anni, di solito appena iniziava la primavera. E' vicino alle
cascate, ma non è grande o troppo profondo, così si può davvero fare il
bagno senza essere trascinati via. Solo che io e Stefan ci
allontanavano sempre per venire fin qua, salire in cima e guardare ciò
che c'era sotto. Mio padre, ogni volta, si incazzava da morire."
Elena si
sporse appena, per dare una sbirciata verso i venti metri di vuoto
sottostante.
"Non è
pericoloso?"
"A undici
anni, sono cascato da quasi metà scalinata e mi sono rotto un gomito.
Frattura esposta. Un inferno."
"Sei un
incosciente," commentò scuotendo appena la testa. "Un maledetto
incosciente."
Scoppiai a
ridere di fronte al tono solenne con cui lo disse.
"Sono
seria!" ribatté con convinzione. "Avresti potuto farti male gravemente."
"Ma non è
successo."
"Quindi,"
asserì dopo essersi lasciata sfuggire un sospiro di rassegnazione ed
essere tornata a posare il mento sulle mani, "Siamo qui per
ripercorrere le malefatte del piccolo Damon."
"No.
Siamo qui perché è il mio compleanno. O meglio," mi corressi subito,
sbirciando l'ora sul display luminoso del mio cellulare che tirai
brevemente fuori dalla tasca, la mezzanotte passata da quasi quaranta
minuti. "Ieri era il mio
compleanno."
Elena si
raddrizzò di colpo, la bocca dischiusa per la sorpresa. Uno avrebbe
pensato che la reazione successiva fosse farne uscire un bel "Oh, buon
compleanno!", magari con tanto di bacino sulla guancia, ed invece no,
ciò che seguì fu un dolore acuto ed improvviso sulla spalla, dove venni
colpito dal suo pugno piccolo e preciso che non avevo neanche
minimamente visto arrivare.
"Ouch!"
reagii, massaggiandomi con la mano il punto colpito. Che cazzo se
faceva male. "Perché?!"
"Perché sei
un idiota!" esclamò infuriata. "Non posso credere che tu mi abbia
tenuto nascosto il fatto che era il tuo compleanno, per di più il tuo
diciottesimo! Ti avrei preso un regalo e avresti potuto avere una festa
e…"
"Non voglio
nessun regalo e di certo nessuna festa," la interruppi roteando gli
occhi al cielo. Quello era proprio ciò che avevo provato ad evitare in
tutto il giorno, regali e sorprese e altre stupide manifestazioni di
giubilo obbligato, quando io mi sentivo solo un giorno più vicino a non
sapere cosa cazzo fare per il resto della mia vita. "I compleanni sono
sopravvalutati."
"Ma avrei
potuto prepararti una torta!" continuò lei a protestare offesa.
"Allora l'ho
scampata bella," sogghignai.
Un altro
pugno, dritto nello stesso identico punto di prima, che riaccese subito
il dolore moltiplicandolo per dieci.
"Dannazione,
Elena! Sei così piccola, da dove diavolo ti viene fuori tutta questa
violenza?"
"Non
insultare le mie torte immaginarie. E' vero che non ci ho mai provato,
ma mia madre aveva anche vinto dei premi per la sua pasticceria, potrei
sempre avere un po' dei suoi geni, no?"
"Ok, va
bene!" concessi alzando le mani in segno di resa, perché, dio, davvero
avevo paura che potesse colpirmi di nuovo. "Allora facciamo che mi devi
una torta."
"Ti devo una
torta. E te la preparerò davvero ..." ribadì risoluta, ma finì per
esitare e lasciar cadere la frase. Poi sospirò e si lasciò anche lei
andare all'indietro contro la solida parete di metallo."… E, hai
ragione, quasi sicuramente sarà terribile."
Le diedi un
colpetto di conforto spalla contro spalla e mi piegai verso di lei per
bisbigliarle, "La mangerei lo stesso."
Sollevò il
volto, appena, verso di me. Sembrò di colpo così vicino. Così reale.
Semi-nascosto dalla notte, eppure così tangibile da poter intuire la
curva piena del suo labbro inferiore, il punto esatto dove disegnava un
mezzo sorriso. Da non vedere nient'altro.
Un lieve
tremito ci passò in mezzo. Il vento, probabilmente.
"Hai
freddo?" domandai, ma la voce mi uscì fuori così smorzata da non
suonare neanche come la mia.
Qualche
secondo di silenzio, prima che Elena si riscuotesse, alzando lo sguardo
verso di me.
"Un po' …"
Ritirò le
gambe e le rannicchiò piegandole sotto al suo corpo. Si avvicinò e, con
la semplicità che mi coglieva ogni volta di sorpresa, posò la testa sul
mio petto, su in alto, vicino alla spalla. Feci scivolare il braccio
attorno alla sua schiena, che mi sembrò piccola anche infagottata nella
giacca, e, per un po', restammo semplicemente così. Senza né parlare,
né sentire il bisogno di farlo.
Avevo
già chiuso gli occhi, quando le sue unghie presero distrattamente a
disegnare linee astratte sulla stoffa dei miei jeans, appena sopra
l'altezza del ginocchio.
Un'improvvisa
serie di tanti piccoli brividi partirono da lì, si diramarono ovunque,
finirono sparati dritti al mio cervello.
Non solo lì.
A tutti i miei sensi, svegli tutto d'un colpo e concentrati solo su
quello.
La
sua mano, il mio ginocchio. La sua mano, il mio …
Dannazione.
Dovetti ringraziare che il buio nascondesse la pronta reazione che
tutto ciò - in quell'attimo in cui me la immaginai salire più su, a
continuare ad accarezzarmi decisamente più in alto tra le mie gambe -
innescò nei miei pantaloni.
Ma non si
mosse di un millimetro da lì. Stranamente, io stesso mi ritrovai a
preferire che fosse così.
Avevo forse
quattordici anni l'ultima volta in cui mi ero davvero trattenuto, in
quel genere di situazioni, dall'agire in base a risposte fisiche per
portare appena possibile le cose al livello successivo. Forse neanche
allora.
Ma
quella era una cosa nuova. Non innocente, non oltre la linea.
Perché lei era Elena e, per una volta,
stare lì a godersi quel formicolio di eccitazione dato da un gesto così
semplice, senza nessuna prospettiva di ottenere qualcosa di più, era
meglio di qualsiasi altra cosa. Un gusto insolito appena scoperto che
non vuoi contaminare mischiandolo con nient'altro.
Mossi la
dita fino alla parte alta del suo braccio, che accarezzai sopra la
stoffa del suo cappotto, nel mentre pensando a come sarebbe stato farle
scorrere davvero a contatto con la sua pelle. Le feci salire tra i suoi
capelli, assaporandone lentamente la consistenza morbida e liscia sotto
i polpastrelli.
Il suo
respiro accelerò. Lo avvertii dal movimento del suo petto, dal ritmico
e più rapido pulsare del suo cuore contro il mio torace.
Come me ne
accorsi, mi fermai. Un altro pensiero mi attraversò il cervello.
Lei
non era mia. Era così
sbagliato da parte mia tenerla e accarezzarla in quel modo, senza
reclamarla come tale né sapere che linea stessi percorrendo, quando un
altro ragazzo, in una di quelle case in lontananza - un maledetto bravo
ragazzo, per di più - ne aveva molto
più diritto di me.
"Cosa ne
dice il tuo ragazzo del tempo che passi con me?" le chiesi, riaprendo
anche gli occhi per riemergere del tutto da quei pensieri sulla mia
migliore amica dal limite indefinito.
"Matt sa che
siamo amici," rispose a bassa voce. Una pausa, incerta. "E poi, è
diverso."
Aspettai,
qualche istante.
Un uccello
notturno, da qualche parte poco lontano, aveva iniziato a lanciare il
suo richiamo e rompere il silenzio.
"Diverso
come?…"
"Sai
…" cominciò, le unghie che avevano ripreso a disegnare i loro motivi.
Dovetti ricorrere ad uno sforzo di concentrazione enorme per non
ricadere negli stessi pensieri di poco prima. "Ci sono volte, piccoli
momenti, in cui penso davvero di essere innamorata di lui. Ma poi … non
ho neanche ancora compiuto sedici anni. Come faccio a sapere cosa vuol
dire essere innamorati? Però tu …" la sua voce sfumò in una nota più
intensa, e esitante al tempo stesso, che mi fece attorcigliare dentro
pur non avendo la più pallida idea di cosa stesse per dire. "… So che
non saprei cosa fare se tu non fossi qui. Mi sei mancato così tanto
quando abbiamo litigato. Nessuno scherzo idiota in mezzo a film
paurosi. Niente commenti maliziosi sugli altri genitori alle partite di
Jeremy. Niente fughe improvvisate da casa nel mezzo della notte. Sei
mio amico. In realtà, sei il mio migliore amico. Di te … ho bisogno."
Avrei
probabilmente dovuto rispondere qualcosa. Qualcosa di profondo,
qualcosa che un bravo ragazzo sensibile come il suo Matt non avrebbe
avuto problemi a tirare fuori. Ma niente - niente - di quello che avrei potuto dire sarebbe
mai suonata giusta o abbastanza in grado di esprimere quanto quelle
parole avevano appena significato per me.
Così non lo
feci. Invece, chiusi gli occhi, chinai la testa per lasciarle un bacio
tra i capelli e, dentro di me, promisi ad entrambi che questa cosa,
quello che avevamo, non lo avrei mai rovinato.
--------------------------------------------------------
Note:
[1]
Quartiere di San Francisco
[2]
Piccolo reminder che, negli USA, l'età legale per bere alcol ed entrare
in alcuni locali non sono i 18 ma i 21 anni.
Spazio
autrice
Buonasera,
care.
Prima di
tutto. A Bloodstream_, che mi
ha consigliato la bella canzone iniziale e incoraggiato spudoratamente
verso il fluff dell'ultima scena: ti devo una torta :)
Lo so, non succede quasi
niente in questo capitolo, che è molto più concentrato sui flashback
rispetto al presente ed è un po' più riflessivo del solito. Ma ho
pensato SL un po' come una storia di crescita, sia nel presente che nel
passato, e mi sembrava giusto che in questo caso il 18esimo compleanno
di Damon fosse il focus principale del capitolo.
Nei flashback, vedete fare la sua
apparizione, per la prima volta, anche miss
Charlotte-non-più-Salvatore, che nella mia mente ha un po' il visino di
Heather
Graham e che sì, ha lasciato
i suoi danni sia su Damon che su Stefan almeno quanto Ciuseppi. Sarei
molto curiosa di sentire che ne pensate di lei, dato che confrontarsi
con il "mito da fanfiction" di Mamy Salvatore fa sempre un po' paura e,
personalmente, non volevo renderla una figura nè troppo
idealizzata-perfetta, nè troppo negativa, come Ciuseppi del resto. Ho
un debole per le sfumature.
Inoltre,
sull'ultima scena: ho cercato di darvi un'idea dei vari strati che
compongono il rapporto tra teen Damon e teen Elena, che non ridurrei
mai nè solo all'etichetta di amicizia, nè solo a quella di
innamoramento, dato che è qualcosa che bene o male è rimasto radicato
in entrambi anche a distanza di anni. Spero di esserci riuscita, a voi
il giudizio.
Ed
è sdolcinata, lo so, ma ormai che
siamo dentro al fluff tanto vale esserci dentro fino in fondo, quindi
questa è la canzone che mi immagino come sottofondo
all'ultimo flashback.
Voglio
mandare davvero un ringraziamento speciale a tutte voi meravigliose
ragazze che mi accompagnate in questa storia con le vostre parole:
impiego sempre molto a portare a termine un capitolo perchè - anche se
il tempo è, come per tutte immagino, quello che è - questa è una storia
che cerco di curare molto, ed anche se il pubblico/le recensioni sono
diminuite, voi che siete rimaste avete sempre pensieri e riflessioni
talmente belle e interessanti che mi commuovete e mi ripagate di tutto.
Se sono ancora qui è grazie a voi.
Un bacio
|