Dato che è un po’ che non ne scrivevo, ecco qui una bella
storiella drammatica il cui titolo è la traduzione di una stupenda canzone di
Cher che, però, non c’entra assolutamente nulla con il racconto in sé. Non amo
scrivere di suicidio perché non capisco la mentalità che può spingere ad un
tale gesto, ma questa mi suonava così, così è nata e così resterà. Altro avviso
è che io non amo la Chiesa e la religione, ma trovo indispensabile credere in
qualcosa quindi, anche se forse sarà possibile leggere nelle mie parole una
piccola o meno piccola critica al cristianesimo, io non voglio in nessun modo
essere offensiva né nei confronti della religione né di chi in essa crede.
Dato che mi dimentico sempre il disclaimer e mi sa che devo
iniziare a metterlo se non voglio essere bannata vita natural durante, eccolo
qui:
I personaggi non mi appartengono e la storia non è
scritta con fini di lucro.
Bene, iniziamo!
Temperance
Credi
nella vita dopo l’amore?
Ryan,
scrivo a te che sei
l’unica persona a desiderarmi in un mondo che non mi vuole. Ti amo, ma questo
non basta a trattenermi qui, anche perché non capisco il motivo che mi
spingerebbe a non voltare la faccia a tutti quelli che l’hanno voltata a me.
Ti scrivo per dirti addio, perché quando
leggerai queste parole non avrai più possibilità di rispondermi. Ora come ora,
tu sei la mia vita, quella vita che sto salutando per sempre e tutto ciò che ti
chiedo è di non dimenticarti di me, perché tu per me sei stato tutto.
Tua per sempre, ovunque sarò
Kelsi
“Tu lo sapevi!” Ruggì Joseph Nielsen sferrando un pugno in
direzione del ragazzo che gli aveva appena fatto leggere l’ultima lettera di
sua figlia. Una lettera che non era stata indirizzata a lui e che per questo
gli faceva male, portandolo ad odiare quel poveretto che, in realtà lo sapeva
benissimo, con la morte di Kelsi non c’entrava nulla.
Ryan barcollò ma non cadde a terra.
Si limitò a tamponarsi il labbro sanguinante con
il semplice ausilio della mano destra e non rispose alla provocazione dell’uomo
che stava di fronte a lui.
“Tu lo sapevi e non hai fatto niente per impedirglielo!”
“Non ho potuto fare
niente, signor Nielsen.” Replicò, calmo di
quell’innaturale tranquillità che solo il dolore sa
dare. Che cosa pensava, che lui non soffrisse per la perdita di Kelsi? Non si
rendeva conto di quanto l’aver ricevuto quella lettera l’avesse fatto soffrire?
“Non ho potuto fare niente perché quel dannatissimo pezzetto di carta l’ho
trovato nella cassetta della posta alle dieci del mattino, quando… quando era
già successo da parecchie ore.”
Non poteva dire che era morta, non ci riusciva. Ogni secondo
si aspettava di vederla uscire, sorridente e felice come non era da tempo, da
quella stanza gelida dove ora si trovava, sdraiata e serena
come una moderna bella addormentata nella sua bara di legno e non di cristallo.
Non si regala una bara gioiello ad una suicida. Il pastore
si era persino rifiutato di celebrare il funerale.
Proprio lei, che da anni cercava di convincerlo della
bellezza della religione cristiana, sarebbe stata sepolta senza una cerimonia,
senza la consacrazione della tomba.
Proprio lei che, ora, solo ora che non c’era
più, lo aveva spinto a sperare ardentemente che ci fosse qualcosa, dopo, qualche posto dove avrebbe prima o
poi potuto rivederla, abbracciarla e stare con lei come non aveva potuto fare
in quel mondo.
Un mondo dove ora era rimasto solo suo padre, sconvolto ed
urlante, del tutto ignaro della parte che anche lui e i suoi comportamenti
assurdi avevano avuto nella tragedia che si era appena consumata.
Un uomo che avrebbe voluto allo stesso tempo abbracciare,
perché sentiva che il suo dolore era autentico, e pestare a sangue, se solo il
suo fisico glielo avesse permesso, perché non aveva saputo dare a sua figlia
quel qualcosa in più che la spingesse a vivere ancora un po’.
“Balle! Tu potevi salvarla, lo potevi fare e l’hai lasciata
morire.”
“Io non potevo fare assolutamente niente.”
Ripeté il giovane, lapidario. Aveva impiegato ore per convincersene e non
avrebbe lasciato che qualcuno facesse vacillare quella già di per sé precaria
certezza.
“Vattene da qui.” Gli intimò, indicando debolmente con una
mano tremante la porta alle sue spalle.
“Joseph, lascialo in pace. Kelsi non vorrebbe questo.”
Intervenne una quasi invisibile Samantha Nielsen, che in tre giorni sembrava
essere invecchiata di dieci anni.
“Kelsi non è qui e lui se ne deve andare.”
“Tu sei solo geloso, geloso che lei amasse di più lui di te,
ma evidentemente è solo questo che ti meritavi.”
“FUORI DI QUI!” Urlò Joseph e Ryan non poté far altro che
voltarsi e uscire da quella porta che per lui non si sarebbe aperta mai più.
Sapeva che Samantha se ne sarebbe andata, probabilmente a
vivere con la figlia maggiore. Sapeva che quel matrimonio era finito da molto
tempo, glielo aveva detto Kelsi, ma che sua madre non aveva mai avuto la forza
di partire, di mollare tutto e ricominciare da capo, magari in un altro paese,
magari in quella sua Germania nella quale sia la madre
sia la figlia sognavano di tornare.
Kelsi sarebbe andata con lei, ne era certo e, quando glielo
aveva detto, a lui era sembrato qualcosa di insopportabile dover essere così
lontano da lei, ma ora… ora sapeva che quella distanza non sarebbe stata nulla,
perché entrambi avrebbero potuto annullarla in qualsiasi momento con solo
qualche ora di volo e allora rivedersi sarebbe stato meraviglioso, come
rinascere, perché la gente può dire quello che vuole, ma quando uno ama, ama
davvero, inizia una vita nuova.
E invece sua madre quel coraggio non l’aveva trovato ed era
anche per questo che ora lui si trovava a camminare per le strade di
Albuquerque, escluso anche dall’ultimo saluto a colei che era stata l’Amore per
lui.
Cosa sarebbe stata la vita senza di lei non riusciva ad
immaginarlo. Kelsi c’era sempre stata, dalla scuola materna, quando andavano
insieme sull’altalena ed erano i migliori amici di sempre, al liceo, dove si
erano odiati e innamorati nel giro dei cinque anni più belli e più brutti delle
loro vite.
Quegli anni che avevano deciso che lui sarebbe stato un
attore e che lei non sarebbe mai stata parte del suo pubblico, che non
l’avrebbe mai aspettato dietro le quinte, alla fine di uno spettacolo, per
premiare i suoi sforzi con un bacio. Lei non ci sarebbe stata e basta e questo
era sufficiente a credere che non ci sarebbe stata nemmeno una vera vita per
lui.
Eppure lui amava vivere, amava dare tutto, fare tutto e farlo al meglio, anche se,
senza di lei, non sarebbe mai stato lo stesso.
E poi, mentre passeggiava avanti e indietro su quel ponte
maledetto, guardando quelle acque scure che l’avevano aiutata a morire, una
canzone iniziò non richiesta a risuonargli nella testa, ponendogli una domanda a cui si accorse di dover rispondere, se voleva andare
avanti ad essere Ryan Evans e non l’ombra di se stesso.
Do you believe in life after love?
Già… lui credeva nella vita dopo l’amore? Dopo la morte
dell’amore?
Decise che no, non era possibile crederci, perché se l’amore
muore allora non c’è più ragione per continuare a vivere, ma non era di morte
dell’Amore che si parlava.
Il suo amore era vivo più che mai e batteva forte nel suo
cuore, forse più forte di quanto non avesse mai fatto, perché ora non poteva
più essere dimostrato e cercava disperatamente una via per sfuggire alla sua
prigionia.
Era vivo, l’Amore. Era vivo e forse non avrebbe
potuto morire mai, perché stare senza di lui sarebbe stato impossibile.
Non era l’Amore ad essere morto, ma solamente il suo
oggetto, ciò che l’Amore desiderava, ciò di cui non poteva fare a meno per
esprimere se stesso.
E allora non era forse la stessa cosa? A
che gli sarebbe servito un amore recluso, un amore dormiente, inespresso e
inattivo?
Gli sarebbe servito per il giorno in cui l’avrebbe rivista,
in quel mondo perfetto di cui lei parlava sempre dopo che, alla
domenica mattina, si recava a messa con mamma e sorella.
Quando Ryan Evans decise che sì, dopotutto poteva esistere
la vita dopo l’amore, alzò gli occhi dall’asfalto e si trovò davanti
quell’imponente ed austera costruzione dove Kelsi aveva provato tante volte a
portarlo senza mai avere successo.
Nemmeno oggi sarebbe in grado di spiegare cosa lo spinse a
farlo, ma quel giorno, mentre la bara della sua
Kelsi veniva calata nella terra nera e triste del
cimitero, Ryan Evans entrò nella chiesa parrocchiale di Albuquerque,
ritrovandosi, spaesato, in un luogo ai suoi occhi vuoto e triste che non gli
apparteneva ma che a lei apparteneva totalmente,e che, per questo, sentiva in
qualche modo anche un po’ suo.
Si inginocchiò nel posto più nascosto che riuscì a trovare
e, mentre i suoi occhi si fissavano in quelli freddi del grande crocifisso,
iniziò a piangere tutte quelle lacrime che si era tenuto dentro per quei
giorni.
Era un’immagine macabra, quell’uomo scarno e seminudo appeso
ad una croce per un peccato che non aveva commesso o di cui, comunque, lui non
era a conoscenza. Un’immagine macabra che, però, aveva dato per centinaia di
anni conforto a tantissime persone disperate che non avevano nessun altro a cui fare riferimento.
C’era qualcosa di dolce nel viso di quella statua di gesso e
vetro, un sorriso che sembrava, nonostante tutto il dolore a
cui era stato sottoposto, abbracciare tutto il mondo. Uno sguardo che,
chissà come, riuscì a farlo sentire un po’ meglio, come quello di un amico che
gli aveva offerto una spalla su cui piangere senza rischiare di essere
giudicato.
Ad un tratto, Ryan si sentì sfiorare la schiena da una mano
sconosciuta e, voltandosi, si trovò di fronte un sacerdote che, evidentemente,
fino ad allora si era trovato in un confessionale.
“Mi scusi, padre, ora me ne vado…” Biascicò, pensando che la
chiesa dovesse essere chiusa o qualcosa del genere. L’uomo, però, scosse la
testa e, invece di chiedergli di alzarsi, si sedette accanto a lui.
“Chi piange davanti al Signore ha sempre bisogno di un po’
d’aiuto o di compagnia, non trovi?” Domandò con una voce resa roca dagli anni.
“Non sono cattolico…” Replicò il ragazzo, pensando che il prete gli stesse chiedendo di confessarsi.
“C’è bisogno di essere cattolici
per accettare una mano che si tende per offrirti un sostegno?”
L’uomo sorrise e Ryan tornò per un istante a posare gli
occhi sul Cristo.
“È bello, non è vero?”
“Non so, non credo che lo definirei bello…
ma sembra che lui sia disposto ad ascoltarmi senza urlarmi addosso, come
fanno tutti gli altri. E poi lei lo amava…”
“E lei amava anche te?”
“Io…” Spaesato, Ryan guardò il sacerdote, che gli sorrideva
incoraggiante, dalla panca dietro di lui. “Sì, sì, amava anche me.”
L’uomo annuì, per poi alzarsi e incamminarsi di nuovo verso
il confessionale.
“Dove…dove va?
“Ti lascio solo con lui, così potrete parlare un po’ di lei.”
“Io non credo che…”
“Tu credi nell’amore, giovanotto, divino o terreno non ha
importanza. E lui sa dare sempre conforto a chi crede nell’amore.”
Mentre il prete si allontanava, il giovane rimase per
qualche istante con lo sguardo basso, per poi tornare ad alzarlo sulla santa
croce.
“Ciao…Gesù, giusto? Sì, beh… sono qui per chiederti se ti
ricordi di Kelsi Nielsen….”
Fine